Quale modo migliore di calarsi completamente nell’autunno se non con C2C? Anche quest’anno ci siamo persi tra i due palchi e lungo strada per raggiungerli, arricchita da un secondo percorso rispetto all’anno scorso. Oltre a quello principale all’ingresso del complesso fieristico/ex fabbrica illuminato da fasci di luce verde ultravioletto ne hanno, fortunatamente, aperto un secondo nel padiglione adiacente ai due occupati dal rimbombo delle casse. Anch’esso suggestivo, con un gioco di luci riflesso su delle disco balls in grado di evocare un percorso magico tra le stelle. Le luci e ombre firmate Club To Club mettono sempre a proprio agio.
Non serve neanche aspettare i numeri ufficiali per sostenere che C2C ce l’abbia fatta. Venerdì 3 e sabato 4 novembre gli spazi larghi e di chiara matrice industriale del Lingotto strabordavano di gente che si spostavano da un palco all’altro tra chiacchiere, bevute, sessioni di ascolto e ballate. Il nuovo sguardo internazionale ha portato artisti non necessariamente associati all’atmosfera “clubbeggiante” dello storico festival torinese che nessun minimalismo contemporaneo dei nomi ci convincerà a non chiamare Club to Club.
Ma guardiamoli comunque questi numeri. 35mila persone arrivate in massa da quaranta nazioni per assistere a 36 performance, ai dischi a agli strumenti, di artisti internazionali. Le line-up non alla portata di tutti (di tutte le persone con cui ho scambiato due chiacchiere durante il festival la frase che ho sentito più spesso pronunciare è stata “conosco solo Flying Lotus“) non si sono rivelati un limite per chi non legge Pitchfork, ma anzi una forza del festival in grado di suscitare comunque curiosità per gli habitué del festival e guadagnare nuovo pubblico. Dunque dopo il successo del ventennale il festival si è confermato come pubblico, avendo ragione che una proposta musicale più avanguardista è la formula giusta. E tra tutte queste “nuove proposte”, perdonatemi il gergo sanremese ma ormai è culturalmente inculcato nel cervello, ci sono state delle gemme nascoste scoperte.
La prima di queste si è esibita già al primo giorno di festival alle OGR di Torino, location che mostra qualche limite di dispersione sonora nonostante connoti la situazione underground voluta. Ma dispersioni sonore a parte il live dei Model/Actriz è stata una piacevole scoperta che ha fatto capire subito come la vena più di matrice rock sarebbe stata protagonista del festival aspettando i concerti del sabato. Il gruppo di Brooklyn, un place to be per le band indipendenti americane, ha confermato in live quanto c’è di buono nel loro album d’esordio “Dogsbody”. A rubare l’occhio è stato in particolare il cantante, Cole Haden, grazie alla sua estetica: giubbotto e pantaloni di jeans azzurri, canotta bianca sotto, stivaletti da sbattere sul palco a tempo, le movenze che ricordano un ibrido tra Freddy Mercury e Elvis Presley più disinibiti e uno spirito su di giri. Per dire alla seconda canzone è sceso a cantare in mezzo al pubblico, giocando con loro. Un vero animale da palcoscenico, con con un approccio molto viscerale e sessuale ben trasposto, e un live fatto da riff sferzanti e beat ossessivi che viaggiano tra post-punk, noise rock, e elettronica. Decisamente promossi, andate a sentire “Mosquito”, “Crossing Guard” e “Pure Mode”, ritratti incandescenti del loro sound. Prima di loro si era esibita Rachika Nayar, anche lei da Brooklyn, che aveva iniettato un po’ di ambient da contemplazione riflessiva. A chiudere la prima giornata un dj set di Caroline Polachek su cui francamente non c’erano grandi aspettative, solo un po’ di curiosità in attesa del live del sabato. Il risultato è stato un viaggio mixato molto strano, passando da SOPHIE, Massive Attack e Moderat ai Matia Bazar e MYSS KETA. La Polachek si è così fatta ben volere dal pubblico, seppur con set da canzoni preferite più adatte ad un diciottesimo che a un festival.
Ma lei, l’artista su cui c’era più curiosità per hype nella line up, si fa davvero volere bene dal pubblico. Il suo concerto è stata l’esibizione più riuscita per coinvolgimento nella prima serata al Lingotto. La scenografia non è ricca e psichedelica come per gli altri artisti. C’è la sagoma di un vulcano, un riferimento in realtà tutto italiano, come ricorda lei in tutina nera, emozionata per il suo primo concerto in Italia dato che proprio da noi ha cominciato a concepire l’album Desire, I Want to Turn Into You. Lo aveva fatto durante una vacanza molto ispirata in Sicilia, quindi diamo per scontato che quello sarebbe l’Etna (anche se sulla copertina del disco si nota l’adesivo del Vesuvio, strano). Forse non è l’artista preferita di tutti, il Guardian aveva scritto di lei come una «Kate Bush per la generazione Z». Io azzardo definendola la “Dua Lipa degli hipster“. Il pubblico infatti sa le sue canzoni a memoria. Durante il suo live si è percepita la presenza più giovane e genderfluid del festival, riconoscibile dal look queer. Una piacevole novità per il ClubToClub, un merito per lei e per gli organizzatori. Caroline è partita carica proponendo subito il meglio del già citato album da subito, scaldando la folla e facendo perdere la voce a molti già alla terza canzone, chiudendo il live con la sua hit storica “So Hot You’re Hurting My Feelings”. Usa tutto lo spazio del palco, saltellando da destra a sinistra, tra balletti e acuti (un po’ deboli bisogna ammetterlo). I suoi testi sono molto adolescenziali, i suoni cavalcano la nostalgia per gli anni ’80, e il pubblico è lì per lei. Chi per adorarla, chi per analizzare, chi per lasciarsi andare nella spensieratezza di un momento pop meno banale del solito. Che non fa mai male, ogni tanto ci vuole.
Dopo di lei tocca ai fratelli Russell, in arte Overmono, uno dei fenomeni elettronici degli ultimi 3 anni. La loro si che è stata una perfomance visuale, con immagini che vanno a ritmo dei loro banger, tra cui non poteva mancare la sequenza dei due doberman che li rappresenta, scorsa sugli schermi mentre eseguivano “Blow Out”. Interessante e in grado di richiamare in pista chi aveva preferito il ritmo dritto di Avalon Emerson e Tiga alla voce della Polachek, non è stato un atto del tutto raffinato, per quanto promettente. Gli Overmono si stanno ancora facendo le ossa quando si tratta di comandare il pubblico, e non a caso il set si è trascinato leggermente a metà percorso. Dopo di loro c’è stato il momento di Evian Christ, esibitosi con la maglietta della Juventus come Romy lo scorso anno. Ha cominciato il suo set con l’inno della Champions, esaltando qualcuno e facendo ridere qualcun altro, prima di cominciare il suo percorso sonoro trance poco fortunato come ricezione visto che il pubblico è stanco.
Il sabato invece ha visto il festival separato distintamente musicalmente tra i due palchi la maggior parte del tempo: nel Main Stage era il giorno dei concerti più rock-oriented. In particolare quello attesissimo di King Krule. Arcy Marshall non ha neanche 30 anni ma ha una reputazione da genio musicale, grazie al viaggio sonoro che ha plasmato dal primo disco “The Oz” fino all’ultimo “Space Heavy!”. La trasposizione live corrisponde. Note blu sporche, accartocciate nel riverbero, pronte a stordirti, trascinate dalla sua voce unica che racconta il suo tormento, la sua vulnerabilità, ma anche la forza. L’autenticità è palese, il pubblico occupa ogni spazio libero tra le colonne del Lingotto e ascolta attento, cullato dalla chitarra distorta. Forse alla lunga dal vivo si vedono i suoi limiti, ovvero la tendenza della sua scrittura a cascare nella ripetitività, ma non delude.
Il palco glielo avevano scaldato due eccentrici rappresentanti dell’etichetta Warp, ovvero Slauson Malone 1 e Yves Tumor. Molto intriganti, due live dall’approccio turbolento e irrequieto, in grado di avvolgere il pubblico, soprattutto Yves che si dimena sopra e sotto il palco, capelli che si scompigliano ulteriormente ad ogni suo movimento, giacca di pelle di cui si è sbarazzato molto presto rimanendo a petto nudo e quella voce intrigante. Slauson Malone 1, all’anagrafe Jasper Marsalis, è un affascinante artista performativo da viaggio sonoro spigoloso. Come hanno detto Emiliano Colasanti e Daniele Manusia nell’ultima puntata del podcast PVC, ha tutto per farsi odiare (vi consiglio di ascoltare il podcast se volete sapere qualcosa in più su di lui e il suo ultimo album Excelsior).
Allo Stone Island Stage, allestito come un muro di casse e proiettori di luci per richiamare un’atmosfera da raver ma che celava i volti e le gesta al mixer degli artisti, c’è stata la festa per il 15esimo compleanno della PAN (che la settimana prima aveva festeggiato al Berghain di Berlino), incaricato di allietare i momenti di salti tra uno stage e l’altro prima con reggaeton non convenzionale di Sangre Nueva (ovvero il trio di dj e producer composto da DJ Python, Florentino e Kelman Duran) e poi con un house/techno più di casa a C2C. Sicuramente ci è riuscito il padrone di casa Bill Kouligas con un set oscuro e potente. Spendo qualche riga in più per raccontare due cose che mi hanno colpito tra i dj set, poiché curiosamente in questa edizione di C2C hanno vissuto anche loro dei momenti più pop che club. Già al venerdì i Two Shell avevano mashuppato (si dice così?) “Complicated” di Avril Lavigne con “Avril 14th” di Aphex Twin. Al sabato invece BAMBII ha messo una dopo l’altra le versioni più dancefloor di “Toxic” di Britney Spears e “A Thousand Miles” di Vanessa Carlton. Momenti divertenti, estemporanei e riconoscibili (come Romy e Gigi DAG lo scorso anno), che stanno diventando un tendenza. Sporcano le performance o funzionano? Lasciamo che siano i gusti personali a rispondere.
A chiudere la serata è tornata la vecchia e cara elettronica anche nel Main Stage, con un caldissimo Flying Lotus, particolarmente divertito e accompagnato da immagini spettacolari sugli schermi del festival, tra tutti quello rettangolare lungo tutto la console su cui si esibiva. FlyLo ha letteralmente coccolato il pubblico dall’inizio del set (se “Dragonball Durag” di Thundercat non vi coccola non so cosa dirvi), giostrandosi bene nell’alzare il ritmo e creare una situazione più familiare per il pubblico abitudinario del festival, senza sdegnare momenti trap, glitch e banger da dancefloor. La sua performance è quella promossa più a pieni voti nel sabato, a conferma che la voglia di ballare ha sempre la meglio su quella si ascoltare a C2C, e non a caso a dare la buonanotte dopo FlyLo è lo zio Moodyman con i suoi colpi da abile selector, senza risparmiarsi al microfono qualche lezione di strada appresa a Detroit come “Don’t ever anyone tell you who the f*** you are“. Sogni d’oro augurati, si va via, senza pioggia per fortuna che aveva rallentato i trasporti del pubblico nella serata madre, stremati per i balzi ma soddisfatti.
C2C cercava conferme e le ha avute. Lo dico con forza: non esiste indoor un Festival come C2C in Italia, per capienza delle location, contesto indoor invernale, act ricercati e provenienti da tutto il mondo, potentissima iconografia bastato sull’hype (o sulla FOMO, a voi la scelta) costruita negli anni e un pubblico variegato che si svecchia a ogni edizione. Possiamo affermarlo visto il successo di questa edizione. Certo ora che siamo arrivati a questo punto il festival deve lavorare su qualche standard, come l’annosa questione dei braccialetti, le poche stazioni di ricarica e quelle di restituzione del bicchiere (2, poche per oltre 15mila persone a sera al Lingotto) o mettere delle stazioni per l’acqua. C’è da migliorare qualcosa dunque, ma per il resto è ormai un appuntamento imperdibile.