Tra i mille motivi per amare Terraforma c’è, ovviamente, l’enorme gusto, classe e competenza nel mettere insieme anno dopo anno le varie line up. Line up che spesso mettono in campo progetti speciali, e spesso mettono in campo non solo eroi di nicchia e di sperimentazione ma vere e proprie leggende a trecentosessanta gradi: bene, Andy Turner ed Ed Handley, i titolari della ditta Plaid, mettono insieme entrambe le cose. Nell’edizione 2018 del festival (che, lo ricordiamo, si svolge nei boschi di Villa Arconati, alle porte di Milano) arrivano infatti con un progetto speciale, quello architettato assieme alle “macchine suonanti” di Felix Thorn, ma in generale portano con sé una storia ormai quasi trentennale, che li pone – se siete realmente appassionati di musica e non di cazzate, non ci sono dubbi su questo – al vertice assoluto di ciò che la musica elettronica è riuscita ad esprimere in questi decenni. Mai sopra le righe, mai disposti a sgomitare per il successo, hanno creato negli anni dei congegni assolutamente meravigliosi dal punto di vista del suono, del ritmo, dell’armonia e della melodia. Una creatività a trecentosessanta gradi, dal punto di vista musicale, che spesso si perde nell’urgenza dell’inseguire il qui&ora delle mode che funzionano sul dancefloor. Con Terraforma in questo c’è davvero un’affinità elettiva: cercare il significato più profondo delle cose (…e quindi della creazione, e quindi della musica, con un approccio vasto, elaborato, lontano dal qui&ora istantaneo). In attesa del weekend del festival in arrivo – trovate tutte le info qui, c’è davvero una miniera di cose splendide – ecco la bella chiacchierata che ci siamo scambiati con Ed ed Andy.
Vi ritrovate a Terraforma con un progetto molto speciale, quello che mette in campo le Felix’s Machines, ovvero le “macchine suonanti” di Felix Thorn. Non è un inedito: se non sbaglio, la primissima collaborazione fra di voi risale a quasi dieci anni fa. Come è nato questo incontro? Come si è sviluppato negli anni?
Abbiamo incontrato Felix per la prima ancora nel 2006, in un festival chiamato Faster Than Sound dal carattere molto sperimentale e dalla location particolare – un ex campo militare degli Stati Uniti in Gran Bretagna. Con le sue “macchine”, è stato amore a prima vista: sia per quello che vedevamo, sia per quello che sentivamo. Siamo subito andati a conoscerlo, e da lì negli anni si sono sviluppate molte collaborazioni. E’ stato tutto molto semplice, immediato e naturale.
Cosa dobbiamo aspettarci dal set che porterete assieme a Terraforma?
E’ un progetto nuovo, abbiamo ridisegnato la configurazione delle macchine e abbiamo creato anche dei nuovi sync tra musica, luci e visual. Il tutto si svolgerà all’interno di un labirinto. La speranza, ci auguriamo, è quella di un’esperienza davvero unica.
Ma sentite, le macchine sono dei “musicisti” bravi ed affidabili?
Beh, diciamo che quando manca l’elettricità non sono proprio il massimo… Scherzi a parte, Felix ha una conoscenza infinita delle sue creature, a tal punto che se vede che qualcosa sta andando storto sa benissimo come intervenire praticamente in tempo reale e rimettere tutto a posto. Le sue creature sono, ovviamente, degli oggetti meccanici: questo significa che col tempo sono sottoposte ad usura, cosa che fa variare in maniera più o meno percettibile la loro resa – il tempo, l’intonazione. In questo, sono molto “umane”. Sono i computer e il digitale quello che non sbagliano mai, che sono sempre uguali a se stessi.
C’è il pericolo comunque che la macchine arrivino a rimpiazzare i musicisti in carne ed ossa in modo sempre più netto e frequente, nel prossimo futuro? O anche in quello più remoto?
Beh, ci sono alcuni tipi di musica che in tutta onestà sono abbastanza facili da generare seguendo semplicemente degli algoritmi. Nella scena dance sta succedendo già. Crediamo ci sarà sempre voglia di sentire il tocco umano e di essere testimoni del virtuosismo di un essere umano in carne ed ossa, ma l’impressione è che sì, grazie al fatto che fanno risparmiare un sacco di tempo e soldi è molto facile che il ruolo delle macchine, in primis quelle digitali, sarà sempre più preponderante. Chiaro, un po’ ci incuriosisce sentire come sarà questa musica creata al 100% dall’Intelligenza Artificiale… ma questa prospettiva sì, un po’ la troviamo anche deprimente.
Già ora un sacco di live set, nel campo dell’elettronica ma non solo, sono pieni di parti pre-registate: all’artista il compito di sorridere un sacco, gettare le mani in aria, ballucchiare sul palco, aizzare la folla. Vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno? Diciamo allora che i concerti stanno diventando sempre meno “concerti” e sempre più “performance” a trecentosessanta gradi. Se lo vogliamo vedere un po’ meno pieno e un po’ più acido, diciamo che ormai siamo sulla strada di una specie di “moderno cabaret elettronico”… Voi come vi ponete di fronte a tutto questo?
Indubbiamente hai ragione quando dici che sì, in certi casi è veramente più giusto parlare di “performance” se non addirittura di “cabaret”. Ma fino a che punto è un problema? Se è un patto scoperto tra artista e pubblico, va benissimo così; il punto è quando invece si “finge” che ciò che si offre sia in realtà un tradizionalissimo concerto. Comunque non è mai semplice portare avanti un concerto fatto solo di computer, soprattutto se hai un pubblico abbastanza smaliziato di fronte a te: sì, il computer fa un sacco di cose per te (anzi: al posto tuo), ma far respirare “vita” in quello che fai è già più difficile – e questo resta un ingrediente fondamentale per qualsiasi esibizione dal vivo. Nulla di insormontabile, comunque, se hai il set up giusto e la sensibilità giusta.
(Plaid & Felix’s Machines all’opera; continua sotto)
Una cosa che amo profondamente della vostra musica è la enorme cura che mettete nel confezionare armonie e melodie davvero preziose. Qualcosa che avete sempre fatto. Anche quando farlo era dannatamente demodé e, quindi, controproducente. Vi è mai venuta la tentazione di dire “Al diavolo, vediamo di fare qualcosa di più semplice, che tra l’altro ora come ora è anche più efficace, basta perdere tempo in cose che interessano oggi solo a pochi”? Commercialmente, vi sarebbe convenuto. Credo ne siate consapevoli anche voi.
Ma sai, ci è anche capitato di provare di seguire il “suono del momento”… ma poi cosa succedeva? Succedeva che le regole di questo suono non riuscivano ad incastrarsi bene con quella che era la nostra sensibilità artistica in quel preciso momento. Perché insistere? Tanto il risultato non sarebbe stato buono ed efficace comunque. No? Ad ogni modo, nella nostra musica c’è comunque sempre un ruolo per quelli che sono i grandi filoni della musica elettronica passata e presente, filoni che per un certo periodo sono stati anche mode. Impossibile, del resto, fare musica elettronica ed esservi impermeabili.
Tra l’altro ad entrambi negli anni è capitato spesso di andare a fare i dj. Un ruolo in cui devi ascoltare per forza quello che esce in giro, fiutando anche “l’aria che tira” in un determinato periodo. Trovato ancora divertente, oggi, dover stare dietro alle varie novità in giro per avere sempre un’identità musicale aggiornata nel momento in cui siete chiamati a fare non dei live ma dei dj set?
Un sacco! Anche perché pensaci: le opzioni oggi sono molto più vaste rispetto a qualche anno fa, con tutte le novità nella musica dance ed elettronica che arrivano da posti come Africa, Asia e Sud America, prima quasi nulli come output in tal senso. Onestamente, tutt’e due non siamo più degli avidi recuperatori di novità come potevamo essere un tempo, ma anche oggi selezionare attentamente quello che potrebbe finire in un nostro dj set è un’attività che ci piace e a cui dedichiamo del tempo. Tra l’altro non è più come un tempo: oggi i vari generi musicali si moltiplicano e si mescolano fra di loro a un ritmo molto più veloce rispetto a prima, e in contesti sempre più differenti. Hai dei territori molto più vasti su cui appoggiare il tuo sguardo e le tue ricerche.
Il che mi fa pensare a come in effetti per anni proprio la musica elettronica di taglio dance è stata la vera “frontiera musicale”, quella che ti spingeva ad esplorare suoni nuovi, contesti nuovi, situazioni nuove… Lo è ancora, onestamente?
Nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad una cosa ben precisa: il venire progressivamente meno di nette divisioni fra generi ed ambiti, in musica. Oggi esiste qualche campo che sia più innovativo di altri? Ci pare difficile rispondere affermativamente. A questo, aggiungi il fatto che la musica elettronica è in giro da un pezzo, non ha più e non può più avere il fascino della novità, dell’inedito. Sai cosa? Forse davvero un modo per andare a scorazzare su campi inesplorati è quello di vedere l’effetto che potrebbe fare l’interazione fra fattore umano e le dinamiche dell’intelligenza fatta di algoritmi, quella puramente tecnologica. Forse è solo in questo modo che ci sarà occasione per vedere rivoluzioni significative nel campo della composizione e del sound design.
Guardando in retrospettiva al vostro catalogo, quali sono le release di cui siete più orgogliosi? Ce ne sono alcune che, secondo voi, sono state colpevolmente sottovalutate?
Ci sono alcune tracce che reggono molto bene al passare del tempo, altre onestamente meno. Una cosa però lo possiamo dire: tutto quello che abbiamo fatto è sempre stato decentemente preso in considerazione quindi no, non ci sembra di poterci permettere di avere dei rimpianti, di dire che qualcosa sia stato “sottovalutato”.
Domanda finale: avete una traccia, o al massimo un album, da indicare, nel momento in cui vi chiedo di dire qual è stato il massimo momento di epifania musicale per voi, quando cioè avete sentito qualcosa che davvero vi stava cambiano la vita; cosa indichereste?
1988, “The New Dance Sound Of Detroit”: una compilation in cui potevi trovare Juan Atkins, Kevin Saunderson e un altro sacco di leggende detroitiane. E’ lì che abbiamo fatto la conoscenza di una musica elettronica radicalmente “nuova”, capace di emozionare in un modo completamente diverso e rivoluzionario rispetto al passato, ed è stato lì che davvero ci si è aperto un mondo.