Chi ha seguito bene i fenomeni musicali lo sa, tutto si risolve nel pop. Qualsiasi cosa in musica trova la sua immagine definitiva solo nel momento in cui conosce il pop. E questo, badate bene, non perché è il pop a trovare la giusta intuizione. Tutt’altro: il pop è quello che le intuizioni le prende in prestito da chi è bravo a trovarle, le ricicla, le porta a casa a un tanto al chilo, possibilmente unendo capre e cavoli nella stessa busta. Inventare non è tra i suoi interessi. No, la vera forza del pop sta nell’essere il detentore universale della forma. Le questioni d’immagine sono suo appannaggio, non si discute. Puoi aver dietro le spalle schiere intere di produttori e geni della musica con le più eclatanti invenzioni al loro attivo, ma le forme si decidono sugli schermi pop. E quindi l’r’n’b lo raffiguri nel mondo comune sotto il nome di Alicia Keys. Il dubstep è Skrillex. La house è Modjo. Se hai culo, Spiller. La techno sono gli Underworld. O, se ti va bene, gli Inner City. Se ti va proprio di lusso, “Sky And Sand“. E quando qualcuno verrà a chiederti “cos’è la musica elettronica?” (fidatevi, è capitato), mentre cerchi di riprenderti dal momento di smarrimento e ti passa davanti un treno di immagini frenetiche che va dai Kraftwerk a David Guetta, ti resta sempre da canticchiare “One More Time” e chi ha posto la domanda capisce. Almeno se è vissuto recentemente in questo pianeta.
Sempre stato così? Non del tutto vero. Ripensate ai tempi in cui questo era il ruolo del rock. Ai tempi in cui le intuizioni erano quelle jazz, blues e folk, in uno slalom tra icone come Kinks, Doors, Pink Floyd o Rolling Stones, mentre sull’altra sponda si davano da fare i vari Elvis Presley o Beatles. A un certo punto, però, quest’efficacia estetica, questo gusto nella presentazione, questa impareggiabile abilità nel lasciare tracce indelebili nel corso della storia, è divenuta la prerogativa del pop. E le cose sono iniziate ad andare sempre nello stesso modo, allora e adesso. L’immagine coincide col pop e il pop è l’immagine, la genialità è altrove eppure se sei pop sei il più genio di tutti. Non sei Aphex Twin se non fai “Windowlicker“. E vale prima e dopo, dai Depeche Mode ai Pet Shop Boys, dagli Alphaville ai Tears For Fears e via dicendo con Backstreet Boys, Spice Girls, Justin Timberlake, Craig David, fino a Rihanna e Lady Gaga. E guai a voi se ora fate i sofisticati e vi lasciate scandalizzare da un discorso evolutivo che comincia beatle e finisce gaga. Perché poi viene lo sfizio di fare i provocatori e dirvi che, a ben guardare, la stessa cosa vale per i Nirvana. Per i Velvet Underground. I Muse e i Queen (che poi è la stessa cosa). I Linkin Park, i Rage Against The Machine e Marilyn Manson. Volete che esagero? Radiohead. L’ho detto.
Allora, sempre stato così nell’era moderna? Diciamo di sì. Ma c’è una novità che è emersa solo negli ultimi anni: si inizia a non distinguere più quel che è pop per natura, perché lo è nel midollo, e quel che è pop perché sta cercando di trovare la sua immagine (e il successo collegato). La differenza tra chi ci è e chi ci fa. Mi spiego: se pigliaste la macchina del tempo parcheggiata giù in strada, andaste nell’anno 1991 e chiedeste all’uomo della strada di dirvi, senza pensarci troppo, cos’è il pop del tempo, quello probabilmente vi risponderebbe “Black Or White“. E magari riderebbe della semplicità della domanda. Certo, allora tutto era più facile. La dance stava nel movimento house e techno, l’hip-hop era nei Public Enemy o nei De La Soul, mentre il pop era (ancora) negli ultimi dischi di Madonna e Michael Jackson. Ogni cosa largamente differente dall’altra, non c’era molta possibilità di confusione. Peccato che a un certo punto certe sicurezze sono cadute, e i primi indiziati di tale delitto sono in certe hit stilisticamente ibride intercorse nel frattempo, quindi i vari MC Hammer, La Bouche, Fugees, Snap!, forse persino gli Aqua. Rifatevi quella domanda voi stessi, oggi. Tra le risposte istintive che vi verranno in mente potrebbero esserci “Poker Face“, “American Boy“, “Diamonds“, “I Know You Want Me“, “Titanium” o magari persino “Sunlight“. Alla faccia della semplicità. Gaga è il pop, o la dance che vuol rifarsi pop? Rihanna è pop o r’n’b? Pitbull non era un rapper? Davvero Guetta ormai è icona pop, senza nessun “dance-” o “house-” come prefisso? Cos’è rimasto di pop puro e genuino? Lana Del Rey? Naa, sbagliato. Gotye? Macché. Adele? Forse, infatti è la più classica. Michael Bublé? Ecco, mi sa che ci siamo.
Justin Bieber?
Questa non me l’aspettavo.
Viviamo in un mondo pop, dove tutto è pop, dove pop è tutto. Tu stesso, nel tuo piccolo, se non sei pop non sei nessuno. Non contano il titolo di studio e le abilità, contano l’iPhone e il numero di amici su facebook. Non è il pop che uccide quel che tocca, è il pop a dargli il soffio vitale. Radio, tv e internet ne sono cuore, polmoni e sensi. Il pop inghiotte tutto e non sputa via niente. E di questo passo, ci aspetta un mondo in cui non esisterà altro che quello, una eterna hit-parade di motivetti e videoclip. Qualcuno tra voi dirà: “Ma va’, vuoi che finiscano le produzioni intellettuali? Che i meandri di internet non siano sempre pieni di pensate musicali remote e sconosciute, oggi e sempre?”. La si diceva spesso ‘sta cosa, dieci anni fa, quando ancora non si capiva l’ineluttabilità dell’omologazione sociale. Allora la questione era la musicassetta come supporto audio. “Vuoi che in qualche mercatino dell’usato…”