C’è un momento preciso dello spettacolo che Kendrick Lamar sta portando in giro per il mondo ormai da quasi un anno in cui tutto si ferma.
Tutto. La musica, le luci, gli effetti speciali. Tutto.
Si ferma anche Kendrick: immobile al centro del grande palco, vuoto, sguardo fiero a cercare di incrociare gli occhi del pubblico. In silenzio.
Come in un film di Sergio Leone. Come all’inizio di un duello.
Muto.
Il senso di Kendrick Lamar (ehm) è tutto lì. In quei due minuti di silenzio passati a fissare la folla che, in risposta, impazzisce. L’applauso diventa un boato, il boato si trasforma in coro. Gridano tutti il nome di Kendrick e lui si gode ogni secondo di quell’incredibile attestato di stima come se fosse la cosa più normale del mondo.
Prende tempo, e alla fine si scioglie. Ringrazia. “È dal 2012 che mi state ricoprendo di amore puro“, dice, e in quel momento tu che lo stai guardando hai la sensazione precisa di poterti fidare di lui. Che tutto quello che si è guadagnato è anche per merito tuo.
Tuo e della altre diciannovemilaenovecentonovantanove persone che sono insieme a te in quel momento. D’altronde è questo che il pop fa e dovrebbe fare sempre: mettere in contatto tra di loro persone provenienti da nazionalità, culture e generazioni diverse. Tutte nello stesso momento.
Questo è quello che succede col pop e questo è quello che succede con Kendrick Lamar, la più importante popstar contemporanea.
Uno che non ha mai sognato di diventare come Michael Jackson, ma che suo malgrado si ritrova a ricoprire un ruolo simile, facendo una cosa che del pop ha però schivato i lati peggiori. Perché la musica del fu K-Dot è libera, vitale, senza compromessi.
Pura e fedele ai vincoli imposti dal genere musicale e dalla cultura alla quale sente di appartenere. Hip hop.
Solo e soltanto hip hop, ma inteso nel senso più 2018 e fresco che vi possa venire in mente ora. Con grande rispetto e senso di appartenenza nei confronti di chi c’era prima. Senza inventare niente, ma spostando sempre l’asticella un po’ più su.
La cosa che sanno fare solo i grandi, nel momento in cui stanno diventando grandi.
Il momento preciso di cui siamo tutti testimoni.
Ma andiamo avanti con ordine.
Mentre James Blake – ormai sempre più a suo agio nel ruolo di opening di lusso – sta scaldando la folla con un live come sempre di qualità altissima (la formazione è la solita in trio con chitarrista e batterista) e le bordate dei bassi che arrivavano dritte allo stomaco anche sulle gradinate, comincio a guardarmi intorno per individuare le persone che potrebbero alzarsi in piedi subito all’inizio del concerto in modo da poterci liberare tutti dalla schiavitù dei posti a sedere.
Mi concentro su tre ragazze che sembrano essere uscite dall’Instagram di una a caso delle due Jenner. Ingollano una birra dietro l’altra – ah, inglesi – e si muovono come chi non vede l’ora di poter cominciare a ballare.
Punto tutto su di voi, ragazze, penso. E nel frattempo continuo a guardarmi intorno.
La O2 Arena è grande, immensa, il più impressionante palazzetto che abbia mai visto.
E anche se siamo in culo ai lupi il palco si vede benissimo, l’acustica è ottima e tutto sembra andare nel verso giusto.
James Blake suona per circa un’ora: comincia con Life Round Here e tira dritto fino a Retrograde. In mezzo c’è spazio per qualche canzone nuova – Can’t Believe the Way we Flow – i classici del suo repertorio (CMYK, Limit to Your Love etc etc) e la versione remix di Stop What You’re Doing degli Untold che dal vivo fa letteralmente tremare tutto.
Il tempo l’ha reso uno dei producer e ambiti sulla scala del pop mondiale.
Sta collaborando con chiunque – Kendrick compreso – è stimato da chiunque e la sensazione comune è che ormai il suo lavoro principale sia diventato quello.
E sì, fa un po’ strano vedere uno della statura di James Blake – statura artistica, visto che è già altissimo di suo – intrattenere un pubblico in maggioranza distratto e che sfrutta il suo set per buttare giù birrette, scrollare e parlare dei cazzi propri.
Ma chi se l’è goduto l’ha fatto davvero.
Neanche il tempo di riaccendere le luci e il palco viene coperto da un sipario che reca al centro la scritta – tutta in caps lock – DAMN. TOUR.
La prossima mezz’ora scorre così, col tipico tempo tecnico e poi, improvvisamente, il buio.
Il sipario cala, sul maxischermo lungo tre metri compare come intro la storia di Kung-Fu Kenny, il personaggio interpretato da Kendrick, che come in un film exploitation ha una missione da compiere e diversi intoppi da superare.
Il primo atto è quello dell’allenamento, e così mentre il palco si riempie di ghiaccio secco e le immagini sullo schermo passano dalla grana anni ’70 del film di arti marziali a quella altrettanto riconoscibile dei notiziari di Fox News, eccolo spuntare accovacciato da una pedana che parte dal sottosuolo.
Boom. Fuochi d’artificio. Si parte.
L’inizio è dirompente: DNA. ed ELEMENT. e King Kunta sono un tornado.
Lamar è da solo al centro dello stage, non c’è spazio per nient’altro.
Per nessun altro.
La sensazione però è da subito strana perché i brani sembrano arrangiati in modo diverso dal solito. Come se fossero eseguiti da una band.
Una band che c’è, ma non si vede (scopriremo poi, a smontaggio iniziato, che i musicisti suonano nascosti dietro una tenda nera a lato palco).
Il pubblico canta a squarciagola ogni rima, esattamente come era successo la primissima volta che l’avevamo visto dal vivo, a Milano, ai tempi del tour di “Good Kid, m.A.A.d City” quando ancora non era così scafato e i club venivano riempiti a colpi di biglietti omaggio. Quell’empatia tra la gente sotto il palco e Kendrick al centro della scena era la cosa che ci aveva più colpito di una performance non del tutto convincente. Ed è bello notare come questo – la connessione continua tra lui e il suo pubblico – non sia cambiato nonostante gli schermi più grossi, le scenografie più complesse e il trionfo di fari. Durante la “senza titolo numero sette” viene raggiunto da una ballerina che sventola una katana. I brani sono eseguiti come colpi di un mitragliatore.
Uno dopo l’altro, senza pause. Ecco quindi Goosebumbps di Travis Scott e Collard Greens di ScHoolboy Q entrambe in versione ritornello-strofa di Kendrick- ritornello e che fanno da preambolo al momento in cui vengono eseguite le hit del primo album. Swimming Pools (Drank), dove metà maxi schermo si sgancia e diventa tetto in cui viene proiettato un mare che avvolge tutto il palco, e Backseat Freestyle che fa letteralmente saltare in aria la folla (e noi che temevamo di essere costretti a stare seduti non lo siamo stati neanche per un secondo).
LOYALTY. continua il momento di sing along collettivo, mentre durante l’intro di FEEL. Lamar sparisce per lasciare spazio a un piccolo intermezzo danzante.
Ricompare solo qualche minuto dopo in un palchetto minuscolo al centro del palazzetto immenso. È vestito, fin dall’inizio dello show, come uno strano incrocio tra un frate e un pappone col pellicciotto. Sembra un mistico from da hood che vuole pagare il dazio a tutti i mistici prima di lui: Gesù Cristo, Luke Skywalker, Confucio, Joan Lui, Dre e 2Pac nel video California Love…
Arrivano LUST. e Money Trees: la prima la canta nascosto da una gabbia di luci, mentre la seconda la fa in piedi sul tetto della struttura. Con loro inizia la parte più soulful del concerto: lo schermo gigante diventa la bandiera americana per XXX. e poi, di seguito, sempre senza sosta, m.A.A.d City, PRIDE. e LOVE. (le due canzoni più belle di “DAMN.”, almeno per me). Archiviata la riflessione è subito tempo di tornare alle hit e con Bitch Don’t Kill My Vibe avviene il delirio puro. È alla fine di questa che Kendrick Lamar si ferma e ci fissa, prima di ringraziare tutti e poi partire con Alright.
Siamo alla fine. Al ritorno di Kung-Fu Kenny e all’esplosione di HUMBLE.
Dopo l’intro la musica si blocca e lui continua a cappella facendo cantare tutto il pezzo al pubblico. Poi come in una serata dancehall riavvolge il nastro e la rifà da capo.
Il concerto è finito. Il mondo non è stato salvato ma qui siamo tutti felicissimi.
Come sempre accade con i live dei rapper americani non ti regala un cazzo, un’ora e dieci pronti e via. Ma questo non ha la minima importanza.
Il live è intensissimo, senza un minuto di tregua, pieno di trovate e di hit.
Dura quello che deve durare e arriva alla fine che davvero non hai nient’altro da chiedere. Tutto è curato in ogni dettaglio, non c’è niente di improvvisato eppure l’impatto emotivo è devastante. Non è normale che una cosa del genere succeda in uno show dentro una maxi arena. Ma con Kendrick Lamar niente è normale. Tutto è straordinario.
Le luci sono ancora spente quando la gente comincia a lasciare il proprio posto, ma è chiaro che il concerto non è ancora del tutto finito.
Si prende il suo tempo, Kendrick, e poi torna sul palco per GOD. perché il Gesù in sé è decisamente più grande del Gesù in me.
Saluta e ringrazia tutti: “Londra è la mia seconda casa“, dice.
E anche se sai che probabilmente la stessa cosa l’ha detta a Dublino, Austin, Manchester, Ripatransone e Vico nel Lazio, non riesci a non credere di avere assistito a qualcosa di speciale. Perché lo è stato, speciale.