Sì, ok, ci eravamo già sbilanciati al momento della presentazione “guerrilla” via YouTube: qui sta succedendo qualcosa di decisamente interessante e significativo, dicevamo. Beh: eravamo in errore. Nel senso: ci sbagliavamo per difetto. “La terza estate dell’amore”, il nuovo disco di Cosmo, effettivamente mette in piazza quello che pensavamo mettesse in piazza, quello che pareva promettere. Ovvero, una dichiarazione d’intenti quasi “politica” nel buttare a mare tutte le buone maniere e i manierismi dell’(indie) pop italiano, in favore di un abbandono ormai definitivo ai verbi danceflooriani e, in generale, un fottersene del manuale delle cose-fatte-per-bene per ottenere prevedibile presa sul mercato.
Tutto questo, tutta questa voglia di scompaginare e far saltare le cose per aria, c’è. Effettivamente c’è. Non è che non ci sia. Anzi. Ma praticamente al terzo secondo di ascolto della prima traccia, sulle nostre labbra si è disegnata un’altra cosa. Si è disegnato un: “Puttana eva quanto suona bene questo disco, l’ascolto in anteprima via YouTube gli faceva zero giustizia, ma zero proprio!”. Eggià. “Dum Dum”, il primo brano, mette insieme Laurie Anderson, gli ORB, il big beat e il Carnevale di Notting Hill, con tanto di coda che ricorda un po’ i Weather Report di “Mysterious Traveller”. E’ una partenza strepitosa, che nell’anteprima non avevamo gustato, non certo così. Proseguendo, “Antipop” pure guadagna parecchio, ascoltata per bene, e il cantato molto sguaiato una volta incapsulato nel suono e nel mixaggio giusto, beh, raddoppia di senso, di ragione, di coerenza, di intensità.
Proseguendo ancora, si continua a stare bene. Intensamente, dolorosamente, euforicamente bene. “La musica illegale” potrebbe essere stata suonato nell’antro oscuro di Despacio, almeno all’inizio ti dà questa idea; poi però vira fino ad essere na combat-hit del nuovo millennio (un po’ per il testo, un po’ anche per l’anima musicale, davvero), come insomma dei 99 Posse catapultati nel futuro e nella civiltà disco-house più nobile ed oppiacea. “Fresca” fa rivibrare le corde di “Miura” dei Metro Area con però molti elementi in più, tra acido e pad atmosferici raffinatissimi. “Mango” è una figlia illegittima – ed etnico-surreale – di “Two Months Off” degli Underworld. “La cattedrale” è acid electro di livello superiore (col coup de theatre di un assolo di chitarra classica). “Puccy Bom” è un oggetto surreale non solo nel titolo, ma anche e soprattutto in come ruba una costola di Micheal Cretu (!!) mettendola in un frullatore un po’ modeselektoriano, aggiustando il tutto con trucchetti mutuati dalla trap: detto così pare una puttanata, invece è un capolavoro, probabilmente il pezzo migliore del disco.
Proseguiamo? “Fuori” è insieme una botta di adrenalina e un campionario di piccole e geniali attenzioni nei particolari. “Gundala”, subito dopo, l’adrenalina la sfila e la fa evaporare in un gas di malinconia e incertezza, con un lavoro magistrale sul mixaggio e sulle sonorità d’ambiente come “scheletro” rilevante. “Io ballo” sono i Future Sound Of London di “Dead Cities” tornati fra noi e calati nel 2021, “Vele Al Vento” è il migliore brano dei Bicep nell’ultimo disco dei Bicep, senza però essere stata fatta dai Bicep. “Noi” è la sigla finale perfetta.
Vi pare poco tutto questo? Ed attenzione: abbiamo riempito questa recensione traccia-per-traccia di riferimenti non perché nella “Terza estate dell’amore” Cosmo sia stato bassamente derivativo e scopiazzevole.
No.
Per un cazzo.
Non sono copiature: sono piuttosto riferimenti, suggestioni. Sono la ricchezza di un artista che la musica elettronica più nobile l’ha studiata per davvero, spaccandocisi la testa, invece di pensare unicamente a “rapinarla” prendendone solo gli elementi più faciloni ed immediati tanto per “stupire la borghesia” (e/o passare all’incasso, o allo spaccio). “Cosmotronic” era davvero un gran disco che riusciva nell’impensabile, far combaciare un’estetica dance vera, appropriata e non superficialotta coll’indie italiano. “La terza estate dell’amore” però fa di più.
“La terza estate dell’amore” fa letteralmente a brandelli ogni traccia di indie e di cantabilità per fare invece un disco violento e raffinatissimo al tempo stesso, viscerale ed ultracerebrale nello stesso momento. Quasi non sappiamo come sia possibile far combaciare questi estremi; ma di sicuro sappiamo che l’effetto fa girare la testa, sì. Nell’accezione più bella ed emozionante della sensazione. Può piacere di più piacere di meno, ma crediamo sia davvero oggettivo il fatto che dall’Italia un disco così non sia mai venuto fuori. Al massimo è venuto fuori da espatriati italiani all’estero (ad esempio, il Not Waving di cui parlavamo qualche giorno fa); ma un disco del genere, nato in italia, fatto in Italia, emerso dall’humus del panorama musicale nazionale, capace di fronteggiare le grinfie del pop e del mainstream senza cadergli dentro (…anzi, facendogli un po’ il dito medio…) e immergendosi nell’elettronica da club più alta, non solo non s’era mai visto – ma forse non era nemmeno immaginabile.
Porca puttana Cosmo, che disco che hai fatto.