Via dalla pazza folla (o dalla folla hipster, meglio detto). Via dai chilometri scarpinati sul cemento. Via dalle sanguinose sovrapposizioni, per cui se ti vuoi vedere il gruppo x sai che ti dovrei perdere il gruppo y e z, che ti interessano altrettanto. Via da un sacco di cose. Ma benvenuti in una città, Porto, che è di una bellezza commovente. Insomma, credeteci: ci sono davvero tanti motivi per non andare ad ammassarsi a Barcellona e scegliere il Primavera Sound “di riserva”, quello nato da qualche anno in Portogallo, su iniziativa degli stessi organizzatori catalani. Era una soluzione che ci incuriosiva da un sacco di tempo; l’ingolfo mostruoso – ed assolutamente meritato, ne scrivevamo all’epoca degli annunci di line up – che quest’anno ha investito il Primavera originario, quello barcellonese, è stata la spinta giusta per ritagliarsi un po’ di ferie e andare ad esplorare il NOS Primavera Sound.
Un’esplorazione che si è rivelata meravigliosa. Se avete già familiarità con Porto non dobbiamo stare lì a spiegarvi molto, per tutti gli altri bisogna dire che la seconda città portoghese è un gioiello di commovente bellezza – anche e soprattutto lì dove non sono arrivati i restauri, le facciate rifatte bene, gli intonaci perfetti. Il ponte sul Douro che domina il centro cittadino da solo varrebbe il viaggio, ma ci sono scorci ancora più affascinanti, di una poesia infinita e di una bellezza che toglie il fiato. Tolgono il fiato anche i saliscendi tra salite e discese ripide, ma questo fa parte dello splendore del nucleo storico cittadino. La gente è gentile, i prezzi sono bassi, i trasporti pubblici funzionano meravigliosamente bene (la metropolitana leggera che taglia tutto il centro e che collega tutti i punti nevralgici – a partire da stadio del Porto e aeroporto – dovrebbe essere portato ad esempio a praticamente tutte le città italiane, e di sabato va pure tutta la notte), si mangia gran bene. Insomma, qualità della vita turistica: mille.
Poi c’è il festival. Ovviamente: molto ma molto più piccolo rispetto al Primavera catalano. Il confronto non parte nemmeno. Ma questa cosa si riflette anche sui prezzi d’ingresso (se prendete gli early bird il costo di un abbonamento è francamente ridicolo, ma in realtà anche a prezzo pieno si tratta di cifre decisamente più che appetibili ed invoglianti). E, vi diremmo, ad un certo punto l’effetto-bulimia del cartellone di Barcellona può affascinare molto, come inevitabile, ma dopo un paio d’anni se inizi a viverlo sulla tua pelle, beh, ti può piacere come non piacere. Il Primavera originario resta un festival unico, imperdibile e fondamentale, è lo specchio migliore a trecentosessanta gradi di quello che succede in musica fuori dall’alveo del pop e del commerciale più becero, il Primavera portoghese è giusto un buon festival con dei nomi ben scelti. La differenza in questo è forte. Però ecco: non abbiamo avuto i Radiohead, ma abbiamo avuto PJ Harvey, Air, Moderat, Sigur Ros. In tre giorni. Così come abbiamo avuto Battles (in forma come non mai), Explosions In The Sky (bravissimi), Floating Points col live (sempre affascinante), le Savages (una delle band migliori dal vivo che possiate incontrare oggi), i Tortoise (stagionati ma gustosissimi). Ed è solo un elenco parziale, anche se comunque gli highlight del festival sono stati decisamente questi (…un giudizio sugli headliner? PJ Harvey maestosa ma un po’ fredda e un po’ troppo teatrale nel costruire uno show molto complesso; Air onesti; Moderat uno dei live più belli dell’anno e si è confermato tale; Sigur Ros parta male, ma termina che ti sembra di aver vissuto un’esperienza epica, magica, bellissima).
Certo, non venite per l’elettronica. Perché se il fratello maggiore ormai ha un cartellone di elettronica di tutto rispetto, pur stando attento a non pestare (troppo) i piedi al Sónar, da questo punto di vista in Portogallo la situazione è un po’ miseranda, messa lì per onor di firma: Red Axes, John Talabot, Black Madonna, Holly Herndon, Fort Romeau, stop. Altro non c’era, non è una selezione dei migliori. In più coi cambiamenti logistici di quest’anno il palco deputato alle robe “nostre” è di gran lunga quello meno affascinante, l’unico adagiato su una spianata di cemento. L’impianto è buono, si sta comodi, però ecco, gli altri palchi incastonati fra le colline del bellissimo parco all’estremità occidentale della città che ospita il festival sono un’altra cosa. Lì si respira veramente un’atmosfera intima – anche quando vi sono assiepate 25.000 persone, come nel caso di PJ Harvey – e di grande familiarità. Merito anche del fatto che per il Primavera portoghese pare assolutamente bandita la figura, esecrabile, dell’hipsterino che è tanto attento alla line up (è lì per vedere i gruppi “giusti”, non quelli che gli piacciono!) quanto al vestire, ma poi quando si tratta di vero amore e curiosità per la musica beh, si sa che non si intona benissimo col vestito e col ciuffo. Una figura che ha preso a contaminare pesantemente Barcellona, anche se non siamo ai livelli ormai letali di Coachella. Non ci stupiremmo insomma di veder comparire la Ferragni con codazzo al seguito al Primavera di Barcellona (al Coachella ci è venuta già, come ampiamente instagrammato), al Primavera di Porto proprio non avrebbe senso e sarebbe vista come un ridicolo, patetico UFO. L’aria che si respira è sciallata al massimo grado e di fashion hipsterista ce n’è meno di zero. Una boccata d’ossigeno, onestamente.
Insomma, siamo entusiasti. Siamo entusiasti, e siamo anche in imbarazzo: per certi versi non vorremmo pubblicare queste righe. Vorremmo che il Primavera “di riserva” portoghese restasse un best kept secret, come è stato per un po’ di anni; ma l’incanto sta svanendo, in questa edizione per la prima volta sono andati esauriti gli abbonamenti, quindi vuol dire che sta iniziando a spargersi. Ripetiamo: Porto e Barcellona non sono assolutamente sullo stesso livello, la seconda batte la prima cinque a uno in quanto a ricchezza dell’offerta, ma non di sola imponenza di line up si nutre un festival. Vero?