Molte persone ritengono che andare a un festival, a un free-party, in discoteca o a un concerto, sia una maniera per ridurre lo stress o per dar sfogo a energie altrimenti represse dalla quotidianità. Abbiamo capito che, talvolta, la partecipazione a eventi musicali può essere terapeutica. In particolare, le modificazioni di coscienza e i cosiddetti “stati di trance” che possono verificarsi nel corso di alcuni eventi collettivi sembra riescano a liberarci, almeno momentaneamente, dal fardello di oppressioni che ognuna si porta dietro. Ma il valore terapeutico dei rituali che uniscono musica e danza, è in realtà conosciuto sin dalla notte dei tempi e testimoniato all’interno delle più disparate culture. In particolare, studi su rituali musico-terapeutici e fenomeni di possessione hanno individuato degli stretti rapporti di relazione tra queste manifestazioni e le società in cui si inseriscono. L’origine dei dispositivi terapeutici di trance pare sia da ricercare proprio nella condizione di ultimi, di sfruttati, di oppressi, tanto per gli gnawa marocchini, quanto per gli schiavi di Haiti che praticavano il vodù o i contadini salentini che, un tempo, ballavano la pizzica. Il rituale ha dunque la funzione di controllare, incanalare ed esorcizzare le energie represse e “rivoluzionarie” dei soggetti che entreranno in trance, al fine di riconciliarli con la comunità, evitando in ultima analisi la loro espulsione dal gruppo o la loro psichiatrizzazione.
(Foto di Gianna Greco & François R. Cambuzat; continua sotto)
“Musica e trance”, titolava l’antropologo francese Gilbert Rouget nel 1980 in un saggio fondamentale che indaga i rapporti tra la musica, danza, rituali e stati di trance e possessione; “Dallo sciamano al raver”, gli faceva eco nel 1998 Georges Lapassade, colui che nei primi anni ’90, in Salento, aveva teorizzato la “techno-pizzica” intimando ai musicisti del luogo: “se riuscite a fare taranta-muffin unendo la tradizione della taranta e il raggamuffin, allora potete fare techno-pizzica”. Fu proprio lui, infatti, sin dagli anni ’80, a promuovere la riscoperta della tradizione musicale salentina, dando un respiro internazionale al lavoro di Ernesto De Martino e infervorando una nuova generazione di ricercatori fuori dagli schemi. Se oggi un tale connubio di elettronica e folk tradizionale (dalla natura ripetitiva e ipnotica) viene considerato quasi inflazionato, non si può dire che fosse così all’inizio degli anni ’90: all’epoca, alcuni artisti, primi fra tutti i Nidi D’Arac e i Mascarimirì, colsero il suggerimento di Lapassade e si ritrovarono a sperimentare contaminazioni che sarebbero fiorite in una vera scena musicale autoctona, quella che a partire dal ‘98 avrebbe calcato il palco della Notte della Taranta. Altri che erano impegnati a sondare, invece, le vie dell’avant-rock, avrebbero rielaborato successivamente, riprendendola da differenti prospettive, la lezione dello psicosociologo francese, come François-Régis Cambuzat (da non confondere con il cugino Amaury degli Ulan Bator) che all’epoca suonava assieme a Chiara Locardi negli indimenticabili Les Enfants Rouges (poi diventati L’Enfance Rouge in trio con Jacopo Andreini) mentre oggi si è imbarcato in un viaggio etno-musicale, ma anche socio-antropologico, estremamente peculiare.
Musicista underground, protagonista di interminabili tour negli angoli del mondo, Cambuzat ha una biografia che parte da lontano. Negli anni ’80, a 17 anni, è sul palco del Blue Note di New York con Dizzie Gillespie; si trasferisce a Berlino dove lavora al Gran Teatro Amaro che coinvolge anche Luciano Berio; poi a Londra e Roma, dove da frontman della garage band The Kim Squad firma un contratto discografico con la Virgin con annesso tour internazionale ed esibizioni in programmi televisivi come DOC di Renzo Arbore. Infine, dopo una parentesi da chansonnier, inizia l’inabissamento nei circuiti sotterranei, con il nome di Les Enfants Rouges che sfoderano una serie di splendidi album rigorosamente autoprodotti, eccetto quello del ’98 “concesso” al Consorzio Produttori Indipendenti.
Scioltasi la band, nei primi anni 2000, Cambuzat assieme a Gianna Greco forma il Putan Club, teatro di selvagge e inclassificabili sperimentazioni (avant-rock, electro, industrial, metal, no wave) messe in scena con basso, chitarra, campionamenti e manomissioni elettroniche, in una muscolare performance che si tiene rigorosamente in mezzo al pubblico anziché sopra un palco. Senza agenzie di booking, in tre anni, il Putan Club ha suonato oltre 600 date tra Europa, Africa e Asia, inclusi diversi concerti insieme a Lydia Lunch. Ma la peculiarità di questo nuovo progetto sono i periodici cambi di pelle che si verificano quando la coppia entra in contatto con comunità che praticano rituali di possessione. In Asia, dunque, nello Xinjiang, la band è diventata Trans-Aeolian Transmission e ha prodotto un documentario, Xinjiang, Taklamakan & Karakoram: Shamans & Dolans in the Uyghur County, dall’incontro con le tribù che praticano lo sciamanesimo delle origini senza l’utilizzo di sostanze psicotrope.
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In Tunisia, nel 2015, il Putan Club è diventato Ifriqiyya Eléctrique assieme a una comunità che pratica il rituale della Banga nel deserto del Djerid. “La comunità della Banga arriva portando il fuoco – ha spiegato Cambuzat – per portarti nel tuo lato più selvaggio in un crescendo frenetico fino alla perdita totale dei sensi. È un rituale terapeutico, di possessione e trance, in un sincretismo sviluppatosi tra l’Islam e alcune tradizioni animiste. Si pratica nei marabout, ma soprattutto in case private e per strada.” Sono stati prodotti due album e la band ha suonato nei festival più importanti del mondo tra cui Roskilde, Sziget, Vieilles Charrues, Womad, Womex, FMM Sines, Offest, Pohoda, Ostrava, Plai, Notte della Taranta.
Oggi invece François e Gianna sono approdati in Senegal, dove si sono reincarnati in Ndox Eléctrique prendendo il nome dal rituale di possessione delle cerimonie n’döep senegalesi. Il manifesto di questa musica è abbastanza eloquente: “Selvaggia, oscura e solare, femminile e potente, chiama gli spiriti a sfidare il mondo moderno con incantesimi, danze e percussioni ancestrali, chitarre elettriche e computer. Sul palco, maestre guaritrici e musicisti fanno un patto con i demoni: ci vorranno molto di più delle buone intenzioni, ma sudore e volume enorme per raggiungere l’emancipazione, la liberazione.”
Per comprendere meglio di cosa si tratta, li abbiamo intervistati.
(foto di Gianna Greco & François R. Cambuzat; continua sotto)
Al giorno d’oggi è molto difficile individuare l’esistenza di cerimonie autentiche, non folklorizzate, ma soprattutto non è semplice prendervi parte. Come avete acquisito la fiducia di piccole comunità, stavolta in Senegal, che solitamente non sono avvezze all’apertura verso altre culture?
François: “Lo n’döep fa paura a tutti in Senegal, anche a quelli che non sono dell’etnia lebu, perché i suoi spiriti si impossessano dei corpi. Dunque è stato difficile, abbiamo quasi rinunciato dopo due mesi di domande e ricerche senza esito. In seguito a innumerevoli tentativi di contatto eravamo sul punto di ripiegare sul piano B, il coro femminile di Ndar. All’inizio abbiamo viaggiato tantissimo, da Mbour fino a Matam, lungo l’Atlantico e le sponde del fiume Senegal. Abbiamo chiesto a tutti, dal venditore di chincaglierie alla polizia, finché un tassista ci ha detto di conoscere qualcuno, Pape Laye, maestro guaritore e custode del tempio di Rufisque. Mentre guidava, ha telefonato a Pape Laye il quale ha spiegato di averci sognato. Naturalmente abbiamo pensato che fosse solo un’altra trappola per toubab (bianchi europei, n.d.r.), finché Pape non ha indovinato esattamente il giorno e l’ora del nostro sbarco in Senegal. Io e Gianna siamo atei, ma di fronte a cose del genere non c’è proprio niente da dire: eravamo a Podor e abbiamo percorso 500 chilometri il più pericolosamente possibile per arrivare puntuali all’appuntamento che lo ndöepkat ci aveva fissato a Guéréo quella stessa sera. Questo è stato il nostro ingresso nella comunità. Subito dopo è iniziato un percorso di accettazione che è durato mesi e si è svolto con grande naturalezza. Abbiamo spiegato il perché del nostro interessamento, quanto ci incuriosisse il ruolo sociale del rituale. Come sempre, alla base del progetto ci sono domande personali, senza alcuna velleità di creare band, pubblicare, promuovere e girare in tour: tutto questo, ancora una volta, è arrivato successivamente, rispondendo al desiderio di certi griot (cantante, poeta e/o musicista, n.d.r.) della comunità.”
(foto di Massow Ka; continua sotto)
Quali differenze, anche in termini musicali, tra gli esperimenti in Xinjiang, Tunisia e Senegal?
Gianna: “Musicalmente lo Xinjiang è totalmente a parte: le melodie sono precise e non c’è quasi mai nessun format “call and response”. Invece c’è molto terreno comune tra la Banga e lo n’döep: melodie basate per lo più sulla metrica dell’invocazione, niente strumenti armonici, ma solamente percussioni; niente strutture definite, ma solo l’obiettivo di aiutare e curare, quasi improvvisando le strutture, senza preoccuparsi di ripetizioni o lunghezze e tutto è sempre nel format “call and response”. Nello n’döep ci sono meno “stop & go” e nessuna “suite” di inni/incantesimi, ma tutto è ben separato… e poi c’è la famigerata “pulsazione” africana che è quasi inesistente nella Banga.”
François: “Nelle nostre ricerche non è quasi mai la musica in sé ad attrarci, quanto piuttosto il ruolo sociale che essa ricopre. Come per molti dei nostri progetti, è l’estrema curiosità verso il ruolo sociale della musica a muoverci e motivarci. Lo n’döep – ma come molte altre musiche delle tradizioni terapeutiche (possessione, adorcismo, trance, elegie, ecc.) provenienti da tutto il mondo – ci è apparso come un vettore per esplorare le cose in un altro modo, lontano dall’estetica e dai canoni artistici occidentali – e anche lontano dallo mbalax senegalese, per lo più solo festivo. In Senegal, le credenze e le pratiche animiste sono profondamente radicate nella società e hanno prevalso, creando una visione del mondo in cui malattie mentali inspiegabili possono essere concettualizzate come il risultato di forze soprannaturali e poi curate dai guaritori tradizionali, nonostante le influenze dell’Islam e delle colonizzazioni. Sostenersi, aiutarsi a vicenda, parlare, fare del bene e guarire; tutto questo con la musica e le canzoni. È questo ruolo sociale che ci interpella, dal falak tagìco allo n’döep senegalese. Una resistenza comunitaria, spesso in un anarchismo applicato, non nel senso da punk-col-cane ma quasi Bakunin-iano, in cui ognuno è responsabile della società. Il primo obiettivo era cercare di capire, il secondo imparare, il terzo suonare con loro. Tutto ciò che è seguito (registrazioni, pubblicazioni e tournée) è stato piuttosto un obiettivo del collettivo di musicisti con cui abbiamo collaborato. Perché ovviamente non siamo scienziati, piuttosto una sorta di Jean Rouch dell’avant-rock.”
Se i rituali di possessione come la banga e lo n’döep hanno uno scopo liberatorio all’interno del contesto comunitario che le accoglie, allora anche il tour in occidente di Ndox Eléctrique ha uno scopo terapeutico?
Gianna: “La Ndox Eléctrique ovviamente non può essere un rituale dello n’döep: per questo ci vorrebbe innanzi tutto la comunità di riferimento, ma bisognerebbe anche praticare sacrifici che sono vietati in occidente. Invece il lato terapeutico c’è, come sempre, sotto le forme che abitualmente ci muovono (vedi Putan Club, Ifriqiyya Eléctrique, Machine Rouge): liberatorie e selvagge, esattamente come il punk o la techno, ma senza nessuna zona di conforto (palco/platea), quando possibile, e senza paura di toccarsi fisicamente (vedi pogo, mosh pit, ecc…). Non è world-music, è solo musica senza ego, ma comunitaria. Farsi del bene, insieme.”
(foto di Martin Vogric; continua sotto)
Chi ha avuto la fortuna di assistere a una performance dei precedenti progetti, sa che dovrà aspettarsi uno spettacolo indomito e dirompente. Attualmente la band è in tour, iniziano ad apparire alcuni appuntamenti italiani per il prossimo ottobre, ma suggeriamo di tenere sott’occhio il sito, perché il calendario è in perenne aggiornamento: https://trasportimarittimi.net/ndoxelectrique-it
10/07 – Pod’Ring Festival, Biel [CH]
12/07 – Pohoda Festival, Trencin [SK]
28/07 – WOMAD Festival, Malmesbury [UK]
01/08 – Urkult Festival, Näsåker [S]
23/08 – TrutnOFF Open Air Festival, Trutnov [CZ]
17/10 – Magazzino sul Po – Murazzi, Torino [I]
18/10 – Biko, Milano [I]
19/10 – Festival Il Ciclo dei Classici, La Notte delle Voci, Teatro Astra, Vicenza [I]
20/10 – Firenze [I] – tba
07/11 – L’Ampli, Billère Pau [F]
08/11 – Le Métronum, Toulouse [F]
21/11 – Espace Django, Strasbourg [F]
23/11 – Gueulard +, Nilvange [F]
03/12 – Les Mardis du Grand Marais, Riorges [F]
14/12 – Festival No Border, Brest [F] – tbc
17/12 – Théâtre Hexagone, Meylan [F]
14/03/2025 – Noumatrouff, Mulhouse [F]
Per saperne di più su lo n’döep:
– Le N’döep – Transe thérapeutique chez les Lébous du Sénégal – Omar Ndoye, L’Harmattan
– Treating the Spirit: An Ethnographic Portrait of Senegalese Animist Mental Health Practices and Practitioners in Dakar and the Surrounding Area – Caitlin McKinley
Film Trans-Aeolian Transmission:
– Xinjiang, Taklamakan & Karakoram – Shamans & Dolans, Xinjiang, People’s Republic of China, 2013 – https://youtu.be/DAHnXiSFNsc
– Ifriqiyya Electrique – Adorcist ritual of Banga, Djérid desert, Tunisia, 2015 – https://youtu.be/10fRuKxTQHQ
– Alevilik Aşkına – Alevism, Dersim, Kurdistan, Turkey, 2018 – https://youtu.be/Jv297YqhZ_Y
– Ndox Electrique – N’döep lébou adorcist ritual, Senegal, 2021 – https://youtu.be/O-A9swOfkPQ ou https://tinyurl.com/NDOXmovie
– Kabar Nwar – Ritual of struggle and curse, Indian Ocean – Work in progress