Ecco. Queste sono le giornate in cui ci si sta riempiendo la bocca omaggiando Steve Albini. Lo capiamo, eh: noi per primi ne abbiamo scritto di getto, sgomenti ed increduli per la sua scomparsa, provando anche ad inquadrarne in piccola parte la figura. È normale e doloroso ma anche bello e necessario che ora si parli tanto di lui, del suo ethos, delle sue prese di posizione radicali. Peccato che poi spesso non se ne capiscano le implicazioni. Il mondo raccontato e voluto da Albini era infatti un mondo duro, poco simpatico: un mondo che faceva a meno di tutte quelle facilitazioni che aiutano oggi la musica ad esistere meglio (nelle piattaforme, negli stream, nei post su Instagram, nelle discussioni sui social). Nell’universo di Albini ci sono etichette e management preferibilmente all’insegna del DIY, il rifiuto di qualsiasi volano commerciale e finanziario (sta girando molto la sua lettera al momento di accettare l’incarico per lavorare ad “In Utero” dei Nirvana, in cui vuole essere pagato con una cifra una tantum manco alta rinunciando a prendere delle royalty e – di conseguenza – un sacco di soldi per un sacco di tempo). Ed anche il rifiuto di qualsiasi abbellimento sonoro furbo:
Il problema è in tutto questo che c’è un sacco di passatismo (in buona fede) da un lato, o di ipocrisia (pelosa) dall’altro.
Sì: non siamo simpatici nel dirlo, lo sappiamo; ma manco Albini faceva dichiarazioni simpatiche nelle interviste (…anche se poi di persona era amabilissimo).
Il passatismo in buona fede è quello di chi – per eccesso di senso estetico, e/o carica ideale – dice che oggi la musica è un un po’ una merda, che il termine “indipendente” o “indie” un tempo focale ed identitario è stato oggi inflazionato e sputtanato all’inverosimile, fino a perdere ogni oncia della sua vera essenza, quindi sì, ieri si stava meglio di ora; l’ipocrisia è quella di chi piange e rimpiange Albini sbracciando per far notare il suo dolore, ma in realtà naviga benissimo – da ascoltatore, o da addetto al settore – in un mondo come quello attuale che è per certi versi l’antitesi di quello che Albini voleva e propugnava, oggi che appena hai stream a quattro cifre su YouTube o Spotify ti metta subito alla ricerca di un manager e pretendi una agenzia di booking di livello e, insomma, visto che tutti monetizzano e si fanno le strategie allora vuoi e devi farlo anche tu, sarai mica così scemo a non farlo, e anche se sei un ascoltatore/fan (wannabe) alternativo vuoi accapigliarti su tutte le discussioni-del-giorno, restando semi-immobile sul resto, anche quello che dovrebbe essere “tuo”.
Nulla di male nel giocare al gioco del mercato. Ma Albini da questo gioco si è sempre sfilato: non a parole, eh no, ma nei fatti; non con dichiarazioni, ma perdendoci direttamente dei soldi. Pochi sanno che dopo il lavoro per i Nirvana – che poteva e doveva essere una svolta nella sua carriera e nel suo conto in banca – in realtà Albini visse momenti durissimi, fino a dover vendere averi personali e strumentazioni per arrivare fino a fine mese. Questo perché l’underground lo vedeva ormai come “irraggiungibile”, mentre il mainstream (giustamente) continuava a non fidarsi: e lui comunque anche quando prendeva committenze da gruppi molto grossi continuava a chiudere se non “la paga di un idraulico” (come scrisse lui con un po’ di ironia) comunque cifre molto oneste e sensate, oltre a trattare nello stesso modo sia i potenti&famosi che gli esordienti&semidilettanti. Il modo perfetto per non entrare nel “salotto buono”.
Fatevi un esame di coscienza, cari addetti al settore ed appassionati che oggi lo rimpiangete e lo magnificate: sareste in grado di fare lo stesso? Vi è capitato negli ultimi di anni di fare lo stesso? Sia che lavoriate nella musica, che non lo facciate e stiate su altro?
Ecco. Queste problematiche rimbalzavano nella nostra testa mentre leggevamo le decine, centinaia di post in memoria del musicista/produttore americano; contemporaneamente accorpavamo nei nostri due ascolti due dischi davvero belli che, in qualche modo, parevano sposarsi perfettamente con queste considerazioni.
Come mai?
Il motivo per accorpare “Tempo” di Edera e “Take My Hand” di Monoposto è abbastanza facile: Luca Garuffi (metà del progetto Edera, ed anche parte degli Apes On Tapes) e Marco Tonni (il titolare della sigla Monoposto, un tempo noto come Touane) arrivano entrambi dallo stesso background, da quel meraviglioso incubatore di talenti che è stata l’esperienza di Homework, festival bolognese che fra i primi andò ad indagare l’elettronica non-prettamente-dance, quella sperimentale ma non troppo, destrutturata ma non troppo, quella più accogliente che snob, facendolo in tempi in cui una scelta del genere era veramente scommettere su se stessi, anzi, contro se stessi. Andavano infatti per la maggiore o le grandi adunate minimal/house/techno o, al contrario, le asperità da intellettuali-del-digitale-senza-compromessi-che-non-ridono-mai-e-sono-fighissimi. Homework non era né l’uno né l’altro: e non lo era non perché cercasse un posizionamento alternativo, una nicchia di mercato nuova da sviluppare e far crescere, ma semplicemente perché questo era il suo DNA e l’attitudine delle persone che lo portavano avanti.
Non ci si poneva proprio il problema di monetizzare, di diventare famosi&potenti, di scalare le gerarchie del business; con spirito molto naïf e disincantato, si ammetteva in partenza l’impossibilità/incapacità di scalare il mercato (anche quello dell’elettronica in senso lato, su cui già in tanti ci stavano costruendo delle carriere e delle fortune) e si faceva e cercava, molto semplicemente, musica bella. Musica coraggiosa. Musica che piacesse a chi, in Homework, ci stava spendendo tempo, energie, amicizie, sogni, suggestioni. Senza aspettarsi granché in cambio.
(pezzi di storia; continua sotto)
Abbiamo ritrovato tutto questo sia nel disco di Edera che di Monoposto. Attenzione: non abbiamo ritrovato quella musica che un tempo si chiamava “beats”, quello sciabolare di destrutturazioni funk / hip hop in chiave digitale, che era la prima bandiera estetica di Homework come collettivo e come evento. Abbiamo ritrovato tutt’altro, già, o comunque molto altro.
Ma proprio questo è il punto.
Chi è uscito fuori da quell’esperienza, pare geneticamente incapace di fare marketing di se stesso: e questa – tornando al discorso di prima – la troviamo una cosa incredibilmente “albiniana”, molto più del darsi le toccate di gomito su quando Albini mandava affanculo Powell, o raccontando con (finta?) ammirazione di quanto non volle massimizzare i dividendi della sua esperienza con “In Utero”. Luca Garuffi (col suo socio Salvo Ridolfo) e Marco Tonni hanno fatto uscire due dischi notevolmente fuori dal tempo, fuori dalle mode attuali, fuori anche dalla loro storia più “visibile” in carriera. Dischi legati più al post rock alla Tortoise ed al pop elettronico gentile, coraggioso ed angolare del passaggio tra ’90 e 2000, che a qualsiasi cosa possa vagamente funzionare oggi, essere rilevante oggi, essere centrale oggi nel discorso collettivo sulla musica. Dischi di persone che, diventando adulte, hanno levigato le spigolosità&giocosità digitali degli esordi.
(“Tempo” di Edera, continua sotto)
In una parola: non gliene è fregato un cazzo di sembrare quello che non sono (più), ed hanno fatto quello che si sentivano di fare. Non sono nemmeno stati urticanti, o programmaticamente anti-moderni, tanto per attirare simpatie ed attenzione, ed indossare l’armatura del “Eh, ai miei tempi sì che c’era la musica vera“: perché non è questo il loro modo di fare, non è questa la loro personalità, non è mai stata questa la loro identità né musicale né umana.
E allora, il nostro personale omaggio ad Albini è dare oggi spazio a questi due dischi. Perché sì, abbiamo speso tempo, fatica ed ingegno per costruire questo articolo; sarebbe stato molto più facile planare, come recensione del venerdì, su altre cose molto più chiacchierabili e chiacchierate. Lo abbiamo fatto in passato, lo faremo in futuro, per carità. Ma oggi, per ricordare a modo lo spirito di chi ha incarnato davvero la rettitudine dell’indipendenza nel mondo musicale, nel nostro micropiccolo, facciamo così.
(“Take My Hand” di Monoposto; continua sotto)
Ascoltateli questi dischi. Meritano. Le lunghe cavalcate cinematiche di Edera e le miniature preziose di Monoposto, filtrate da quello spirito “post” che, negli anni ’90 e nei primissimi 2000, era ancora sinonimo di avventura, mentre oggi è stato relegato ad innocuo modernariato per fare posto all’indie che disperato s’agita e s’annacqua per essere pop o all’urban più vogliosa di fatturare senza se e senza ma e senza pugnette artistoidi, che si sa, la musica sarà mica arte – è, come dire?, un modo per emergere bene, tanto ed in fretta, conquistando il chiacchiericcio quotidiano generazionale e/o mainstream a cui tutti – tutti! – guardano e tendono.
Fun fact: per come lo conosciamo e per alcune sue uscite storiche su lavori altrui, ad Albini avrebbero fatto abbastanza cagare sia “Tempo” che “Take My Hand”. Ma li avrebbe rispettati tanto, tantissimo.