È solo l’ultimo di una lunga serie, ma di sicuro è un caso particolarmente eclatante: l’entusiasmo per il nuovo tour di mondiale di Madonna (ecco, capiamo che ci possa essere ancora chi si entusiasma per Madonna nel 2023: il mondo è bello perché è vario) si è immediatamente afflosciato quando è venuto fuori il pricing ufficiale dei biglietti. C’è un po’ di sense of humour, mutuato peraltro dall’ingessato mondo della classica e dei teatri lirici, nel mettere in vendita dei biglietti a “visione limitata” – non ci sorprenderemmo si trattasse della possibilità di restare nel parcheggio, con visuale in prima fila sulle code che si creano all’ingresso… d’altro quanto anche questo potrebbe essere “respirare l’evento” ed “esserci”, no? Ad ogni modo, ecco qua, lustratevi gli occhi:
Terrificante, vero? Beh: sì. Di tutte le osservazioni possibili, dalla rabbia contro gli artisti a quella contro i management finendo a quello verso i promoter, ce n’è una sola che è realmente appropriata: quella che va a constatare come il grande pop-rock stia diventando solo un mondo per ricchi, e va detto che è un esempio che pure il clubbing sta sempre più decidendo di seguire, coi suoi tavoli, i suoi biglietti vip, le sue location esclusive in giro per il mondo dove il pubblico è composto non solo e non tanto da popolazione locale, ma da una compagnia di giro di ricchi&ricchissimi che si possono permettere di lavorare poco, viaggiare molto e spendere ancora di più. Già: la musica, che inizialmente sembrava una arte molto popolare, sta definitivamente arrendendosi ai meccanismi del grande capitalismo e, alle sue sfere più alte, aspira al massimizzare il guadagno ad ogni costo: anche quello di tagliare fuori i fan e i simpatizzanti meno abbienti, quelli per cui ogni singolo euro è prezioso. Se sei povero, del tuo amore insomma non ce ne facciamo granché. Comprati i dischi. Anzi no, ascoltati gli streaming – è pure gratis, che vuoi di più?
Fermo restando che vivaddio ognuno è libero di muoversi come meglio crede, ci sta anche inveire contro Madonna e tutti gli altri che permettano che vederli dal vivo costi cifre a tre zeri, e puoi anche simpatizzare con Carl Cox quando aveva preso a scagliarsi contro il fenomeno dei tavolari a colpi di migliaia di euro (peraltro, dai meccanismi più commerciali e denarosi del clubbing lui non è che si sia sempre tirato indietro, anzi). Puoi maledire l’avidità degli artisti, che poi in realtà è spesso e volentieri semplicemente loro ignavia rispetto alla volontà di guadagno – lei sì acutissima – di tutto il carrozzone che li circonda: manager cinici, promoter amanti della bella vita, amici e cugini alle varie loro dipendenze, multinazionali con decine se non centinaia di dipendenti spremuti come limoni… Qualcuno tenta anche una difesa d’ufficio degli artisti, del tipo “Poverini, ormai dai dischi non si guadagna più un euro, devono comunque recuperare dai concerti”, dimenticandosi di notare che gli artisti che più sono danneggiati dallo streaming – quelli di nicchia – sono anche quelli che meno hanno potuto alzare il prezzo del biglietto delle loro esibizioni dal vivo. Cornuti e mazziati. Solo chi ha già il vento in poppa può permettersi di chiedere alti prezzi per i propri live. Un circolo vizioso.
Ecco. Proprio quest’ultimo è il punto. Circoli viziosi: già. E sapete che c’è? Se Madonna viene venduta a 345 euro per biglietto non è (tanto) colpa di Madonna, di Live Nation, di Ticketmaster, di quanto la signora Ciccone spende settimanalmente in botox e giardineri, di chi o cosa volete voi. No. La colpa in primis sarà di tutte quelle persone che acquisteranno quel biglietto a quel prezzo lì e, in generale, di tutti coloro che faranno registrare il sold out alla data milanese di Madonna, quella coi prezzi che avete potuto vedere lì sopra. E di tutti i concerti sovraprezzati che si susseguono ormai costantemente. Traslandoci al clubbing, la colpa è comunque di chi accetta di pagare millini in euro per i tavoli, centinaia di euro per ingressi supposti VIP (anche se poi magari finisci dietro, negli sgabuzzini dove depositano i vuoti di bottiglia, e se conoscete Ibiza avete già capito di che parliamo), e non ha nulla da ridire quando vede che certe serate si trasformano in una parata di famosi ed abbienti che si divertono solo a favore di Instagram e di hashtag, e misurano gli artisti solo a seconda di quanti follower hanno e di quanto gli fa fare bella figura taggarli.
Occhio, ribadiamolo ancora: ognuno è libero di fare e di essere come meglio crede. Maledettamente, completamente, profondamente libero. Corollario: essere ricchi non è una colpa, né pensare solo al frequentare i circoli esclusivi e/o a farsi vedere sui social mentre si frequentano i suddetti circoli. Chiaro? Corollario però ancora più importante, del “ognuno è libero di fare ed essere” eccetera: se noi ci sentiamo tanti indignati dai prezzi dei biglietti dei live o dalle ande vippaiole del clubbing, abbiamo un totale ed assoluto potere. Sì. Quello del poter scegliere.
Se gli artisti che sparano prezzi siderali dei biglietti iniziano a vendere meno biglietti e a fare meno sold out sicuri, state pur certi che dopo un lasso nemmeno troppo lungo di tempo iniziano ad abbassare le pretese, oh sì. Finché succede che un concerto diventa “evento irrinunciabile” anche (e soprattutto?) perché dalla soglia d’accesso molto costosa (spesso infatti è una cosa che si autoalimenta, un po’ come quando una serata diventava esclusiva perché tenevi molta gente fuori dalla porta anche se dentro era vuoto), non ci sarà soluzione, mai; se però invece inizia a diffondersi la convinzione che un concerto dove il biglietto costa più di 40/50 euro è un voler lucrare sulla passione delle persone e non un’esigenza artistica, beh, guarda un po’ quanto possono cambiare in fretta le cose. Invece di prendercela con Madonna però per poi sentire l’irresistibile impulso di non perdersi quella sua data (perché lei c’ha settant’anni, perché chissà se fa un altro tour, perché metti mai che le venga la sciatica…), limitiamoci a dire “Ehi, Ciccone, grazie; ma stavolta passo”. È il favore migliore che potremmo fare a lei ed a noi: a lei, perché le facciamo capire che tutto ciò che la circonda è diventato troppo avido e bulimico, ed a noi perché (ri)gettiamo le basi di una musica che non sia un’arte ed un’entità classista, dove gode davvero solo chi ha i dané, e solo chi ha i dané ha accesso a ciò che è rilevante ed importante.
Per il clubbing, vale un po’ lo stesso, su dinamiche pratiche diverse, ma con meccanismi mentali speculari. Chi spende solo per farsi vedere e far vedere che c’è, lì, in quel posto, con quella gente, quanto si sta divertendo in realtà? E quanto invece sta solo lavorando al suo self-branding, un compito sempre emotivamente impegnativo, accumulando così pure ulteriore stress invece di rilassarsi e sfogarsi? E, altra domanda fondamentale: le serate che sono popolate da una grossa porzione di questa genìa di cavalieri del self-branding, quanto sono goduriose in realtà? Onestamente pochetto, diciamocelo. Sì, dai, ammettiamolo, a bassa voce. Stanno in piedi in primis per l’aura che hanno costruito attorno a sé (ti inducono infatti questo bisogno di “esserci”, di FOMO), e/o per le droghe che vi circolano. Oh, di nuovo, nessun problema se la propria priorità è sentirsi VIP o stonarsi euforicamente in stupefacenza; ma allora per favore non usate la musica come una scusa, o meglio, fatelo pure, ma ammettete onestamente che è tale: è una scusa. Non è insomma il centro della vostra esperienza. Ma manco per il cazzo. Liberi, eh. Liberi di fare e di comportarvi come meglio credete. Non c’è nulla di male ad essere ogni tanto un po’ presenzialisti. Ma non raccontante(vi) frottole.
La musica nasce come una esperienza molto democratica ed orizzontale, ed il ballo pure: lo raccontano la loro storia e il loro sviluppo nei secoli. Sarebbe bello riuscissero a restare tali: almeno in buona parte, almeno senza troppo deragliare. Ci si può arrivare a questo obiettivo sperando nel buon cuore degli artisti e delle persone che lavorano per loro (ma ecco, è una illusione); ci si può invece arrivare anche e soprattutto con le nostre decisioni, le nostre scelte, le nostre piccole azioni dirette. Incominciamo a far capire a chi usa la musica solo ed unicamente per estrarre guadagni dalla passione delle persone che quelli fuori posto e pure un po’ sfigati ed infelici sono loro, e non quelli che non hanno la macchina figa e la servitù a casa, non mangiano nei ristoranti fighi, non si possono permettere i retreat a cinque stelle e gli ammennicoli di Gucci, Prada, Givenchy.
Non è necessario l’odio di classe. Sarebbe sufficiente il buon senso. E la buona notizia, ehi!, è che il bastone del comando è ancora in mano nostra: con le nostre scelte, con le nostre decisioni di quali eventi e quali artisti sostenere. L’offerta non manca. Basta privilegiare chi sta attento a non lucrare troppo sulla tua passione, ma si pone dei limiti. Grazie a quel concetto demodé chiamato etica, rispetto e buon gusto, tutt’e tre insieme.