Tra le svariate “etichette di salvataggio” nate e cresciute in epoca contemporanea, la Private Records è una delle più attive. L’artefice è Janis Nowacki, capace di metter su un piccolo impero fatto di decine di rarità rimaste sepolte sotto la polvere per decenni. In principio tutto doveva limitarsi alla riedizione del “Captain Future” di Christian Bruhn ma poi le cose prendono una piega diversa. Al tedesco piace “resuscitare” cose che davvero in pochi ricordano (Ayisha, The Intergalactic Orchestra, Leda, Paradise Frame, Schaltkreis Wassermann, Alex Cima, Sergio Ferraresi, Frederic Mirage, giusto per citarne alcuni), e così le pubblicazioni aumentano di anno in anno abbracciando il mondo della cinematografia e smarcandosi dalla normalità attraverso meticolose quanto amorevoli attenzioni che vanno dal colore multiplo del vinile ad inserti descrittivi sino ad inusuali gadget annessi come un dildo (funzionante) in plastica ed un coltello da sopravvivenza con bussola incorporata.
A quando risale il tuo primo contatto con la musica, e più in particolare con quella elettronica?
Sono sempre stato un appassionato di musica. Iniziai da bambino col suono psichedelico dei Pink Floyd e col passar degli anni ho “scavato” praticamente in tutti in generi, dal punk al dub, dal gothic al trip hop sino a deep house, techno (soprattutto le produzioni provenienti da Detroit) ed electro pubblicata tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila. I miei artisti preferiti di allora erano Kerry Chandler, Theo Parrish e tutto ciò che animava l’underground.
Quando hai deciso invece di creare la tua etichetta discografica?
È una storia piuttosto lunga. Cercavo di fare fortuna operando nel settore della nightlife tedesca. Ho lavorato nelle discoteche riempiendo i frigoriferi di bottiglie e come barman sino a quando riuscii a diventare manager di un club, il Topsy Turvy a Karlsruhe. Finalmente ero a capo di una struttura a metà strada tra una discoteca ed un bar, contraddistinta da un fantastico design space age realizzato da uno studente di arte nel 1968, un vero capolavoro. Interamente era rivestito da lastre metalliche, sul soffitto c’erano pannelli di legno con colori psichedelici e sulle pareti delle grandi luci rotonde. Sembrava l’interno di un’astronave, persino tavoli e sedie furono customizzati per assomigliare il più possibile agli arredi tipici dei romanzi di fantascienza. Assunsi due bellissime ragazze al bar ma non prestando particolare importanza al DJ. Quando mi misi alla ricerca di qualcuno che potesse occuparsi della musica iniziarono a sorgere i problemi perché i tipi che ingaggiai non riuscivano a riempire il locale, anzi, in alcune occasioni arrivarono per giunta a svuotarlo a causa della pessima musica selezionata. Non potendo contare più su nessun DJ durante i fine settimana, pensai ad un nuovo concept: suonare musica vintage degli anni Sessanta e Settanta in una location del 1968. Tutto originale, non imitazioni. Iniziai a cercare un DJ che potesse fare al caso mio ma tra 2005 e 2006 non ne trovai nemmeno uno nel sud ovest della Germania, e credo che ancora oggi il risultato sarebbe esattamente lo stesso. Non mi restò che rimboccarmi le maniche e cercare da solo quella musica. Avevo circa 23 anni e due mie bellissime amiche mi aiutarono a fare promozione consegnando i flyer per le strade. Alle 22 di ogni weekend il club era letteralmente preso d’assalto e pieno come un uovo! Continuavo ad acquistare dischi per i miei party, ripiegando sulle ristampe in assenza degli originali. Ad un certo punto la disco che suonavo (anche in altri bar della regione) non aveva più un riferimento cronologico preciso e il pubblico iniziò a domandarmi che genere fosse e dove avessi comprato quei dischi tanto strani. Uno dei brani che suonavo più spesso era “Exalt-Exalt” di Azoto, un disco italiano del 1979: la gente era stupita che fosse così vecchio ma nel contempo tanto attuale. Nel 2007 iniziai a vendere qualche disco che avevo in doppia copia attraverso Discogs e mi resi conto di quanto fosse grande l’interesse per quel tipo di produzioni. Continuai a cercare e comprare rarità, senza sosta. Dopo qualche tempo mi imbattei in un negozio che stava vendendo oggetti usati appartenuti a persone decedute. Era molto grande, a due piani, e tra mille cianfrusaglie c’erano anche intere collezioni di dischi a prezzi irrisori, appena un euro a pezzo. Ero convinto che in quelle scatole avrei potuto trovare qualsiasi cosa così mi armai di pazienza ed iniziai a scartabellare il materiale ogni giorno. Nell’arco di qualche anno ho acquisito parecchia esperienza nel settore collezionistico del vinile in stile disco e mi sono accorto che sul mercato non c’erano sufficienti ristampe ma tantissima gente cercava rarità. Era giunto il momento di ristampare i miei dischi preferiti e così nacque Private Records.
C’è una particolare ragione dietro il nome e il logo dell’etichetta?
Quando decisi di crearla non pensai al logo e tantomeno al nome. Mi capitò sotto gli occhi un’immagine con sopra la scritta Private e pensai che potesse essere adatto ad un’etichetta devota alle rarità. Nel logo la A di Private è sostituita da un triangolo che indica la trinità: fu una scelta scaramantica e credo che, alla luce di come stanno andando le cose, abbia funzionato.
Il catalogo si apre nel 2010 con “Captain Future” di Christian Bruhn: quanto fu complesso, anche sotto il profilo economico, iniziare una missione così impegnativa?
Fu particolarmente costoso perché pagai erroneamente due volte la GEMA, la società tedesca che si occupa di diritti d’autore, a causa di un errore nella compilazione dei documenti. Fu difficile iniziare a causa di una miriade di dettagli: da un lato la necessità di imparare il funzionamento della discografia, dall’altro convincere a ripubblicare quel disco uno dei più noti compositori tedeschi, Christian Bruhn, che dal 1991 al 2009 è stato presidente proprio della GEMA. In qualche modo riuscii a spuntarla. Il resto è storia.
Nel tempo a Private Records hai affiancato altri marchi come Korusuro Records per il krautrock, Stella, Director’s Cut e Vagienna per le colonne sonore dei film e Viper Records per il minimal synth. Conti di crearne altri ancora in futuro?
Si, sto lavorando al lancio di un nuovo brand destinato a produzioni nuove, non ristampe. La prima uscita sarà l’album di Marc Almond, cantante dei leggendari Soft Cell. Ad occuparsi dell’artwork sarà Emil Schult, noto per la collaborazione coi Kraftwerk. Verrà pubblicato in autunno.
Private Records conta già oltre trenta pubblicazioni ma più di cinquanta considerando anche quelle sulle sublabel: qual è stata quella che ti ha portato via più tempo ed energie?
Senza dubbio “Disco Club” di Black Devil: il team che collabora con l’autore, in Francia, non è proprio facile da gestire e ci sono voluti oltre due anni per ottenere il contratto firmato.
Quanto tempo necessiti per completare i lavori di una pubblicazione?
Solitamente un mese a release ma per alcuni progetti i tempi possono allungarsi sensibilmente. Una delle iniziative più folli è stata quella della soundtrack del film “Bloody Moon” di Jess Franco, realizzata da Gerhard Heinz e composta da ben 85 brani incisi su triplo vinile. L’operazione mi è costata un anno di lavoro ed oltre diecimila euro per il remastering dell’intera opera.
Un lavoro vero e proprio quindi e non un semplice hobby.
Mi occupo di Private Records dalla mattina alla sera, anzi talvolta anche di notte. È un lavoro a tempo pieno che non conosce soste.
Cosa pensi della tanto sbandierata “rinascita” del vinile nel settore generalista? Sta diventando davvero un fenomeno di larga scala come stanno annunciando recentemente i media?
Molte major hanno distrutto il vinile ignorando le potenzialità di questo supporto. Adesso, annusando l’affare commerciale, stanno inondando il mercato con una miriade di prodotti senza senso, distruggendolo nuovamente. Alla fine riusciranno a sopravvivere solo i prodotti genuini.
Ti sei mai fatto un’idea sul target degli acquirenti di Private Records?
Buona parte ha 50 (ed anche più) anni, veri appassionati di disco e synth music, ma c’è anche una fascia d’età che va dai 25 ai 35 anni. Ci sono persino alcune ragazze che sono venute a comprare i dischi direttamente nella sede a Berlino.
Qual è il best seller del catalogo?
Sinora il citato “Disco Club” di Black Devil e “Psychotron” di Schaltkreis Wassermann, che hanno venduto oltre 1500 copie. Il resto si stanzia su soglie più limitate, tra le 500 e le 1000 copie.
Pare che oggi la gente sia più disposta a spendere denaro per dischi vecchi che per quelli nuovi. Come mai? Il passato risulta più attrattivo rispetto al presente?
I social media e il marketing su internet alimentano lo status delle rarità cresciuto per anni e talvolta decenni. Solo il tempo ci dirà se è un fenomeno destinato a durare.
Possiedi tutte le stampe originali dei dischi ristampati su Private Records?
Si, le ho tutte fuorché Black Devil. Non l’ho mai trovato in vendita in condizioni perfette o ad un prezzo abbordabile. Di alcune pubblicazioni ho persino copie multiple che vendo attraverso il mio e-shop su Discogs.
Trovi che Discogs sia diventata una risorsa irrinunciabile per il tuo lavoro, sia per la ricerca di titoli che la vendita?
Si, assolutamente, lo uso dal 2006 anche se purtroppo il marketplace non è più quello dei primi anni. Con un po’ di attenzione si possono fare ottimi affari, sia come venditori che acquirenti.
Ho notato che il mastering del recente “Auf Der Suche Nach Der Vierten Dimension” di 4D è stato curato da Anthony Rother.
I 4D/Supersempfft/Roboterwerke sono leggendari a Francoforte, considerati a tutti gli effetti i mentori di moltissimi nomi contemporanei come Sven Väth. Franz Aumüller, ad esempio, ha lavorato al Cocoon Club nella veste di organizzatore culturale sino alla sua chiusura. Anche Rother appartiene a questa “famiglia”, ecco il perché della sua presenza.
Cosa bolle in pentola adesso?
Da pochi giorni sono disponibili sia la compilation “Computered Love”, una ricca raccolta di brani rari degli anni Settanta ed Ottanta ispirati dal computer, sia “Love In Space” di Rene Riche And Her Cosmic Band, pubblicato originariamente in Sud Africa nel 1978 e prodotto da Mike Pilot, lo stesso di Blush per intenderci. A seguire ci sarà una collaborazione tra Roland Sebastian Faber (che ha prodotto il citato album di Marc Almond) ed Emil Schult: il disco è di impostazione krautrock ma ha un particolare fascino che potrebbe stuzzicare anche i DJ. È incredibile che sia proprio lo stesso Faber ad aver prodotto in passato le hit pop di Boy George ed aver remixato brani di Culture Club, OMD, Missy Elliott, George Michael, Amanda Lear o Bananarama.
Sulla lunga distanza invece cosa ci riserverà Private Records?
Un inedito di Bernard Fevre aka Black Devil.
C’è un disco che avresti voluto pubblicare ma che non ti è stato possibile per varie ragioni?
Si, “The Unexplained” di Ataraxia (il compianto Mort Garson). Avevo già contattato chi di dovere per ottenere la licenza ma poi sul mercato è giunto un bootleg (su Fifth Dimension, nda). Non nascondo che la cosa mi ha intristito parecchio.
Ormai da anni assistiamo alla continua invasione di ristampe illegali di rarità del passato. Pura speculazione oppure, come dice chi tenta di giustificare tali operazioni, desiderio di diffondere musica rimasta per troppo tempo nelle mani di pochi eletti?
Di solito i bootleg vengono registrati in bassa qualità audio (non è novità che i “bootlegari” ricavino i master dei brani da YouTube o da MP3 scaricati dalla rete, nda), e quindi chi li produce sfrutta il vinile per altri fini.
Come immagini la Private Records tra dieci anni?
Non so se l’etichetta esisterà ancora. Nel 2010 volevo solo ripubblicare uno dei miei dischi preferiti ed ora mi ritrovo ad avere un catalogo con circa cinquanta titoli. È pazzesco e sono talmente felice che vorrei mettere in atto progetti grandiosi per il futuro.