Allora, la questione è semplice. Se “Promises” non vi commuove, non vi porta cioè quasi alle lacrime (o oltre), semplicemente vuol dire una cosa: non lo stato ascoltando nel modo giusto. Davvero. Oppure, altra ipotesi, può anche essere che la musica faccia parte della vostra vita, delle vostre emozioni, anche della vostra felicità; ma non della vostra anima. Stiamo esagerando? No: è che sul serio con questi tre quarti d’ora di musica Sam Shepherd – che attorno a tutto questo ha lavorato sottotraccia anni – è andato a scavare in profondità totali, assolute. Ha creato un capolavoro. E lo ha regalato a uno degli eroi assoluti del jazz “spirituale”, quel Pharoah Sanders che ha sempre avuto anche un altro dono: essere profondamente comunicativo. “Spirituale” insomma non per fare (anche) il difficile o (anche) lo “strano”, ma “spirituale” in maniera chiara, aperta, disarmata. E non per questo meno intensa.
…che poi, si fa in fretta a dire “capolavoro”. Cosa ci fa pensare che questo album meriti galloni così importanti? Prima di tutto il fatto di adagiarsi per tutta la sua durata su unico, semplice tema solo uno – e però non stancare mai. Questo perché ogni singolo elemento è calcolato e calibrato al millimetro. E’ come una gigantesca cattedrale gotica dove tutto è composto e porta alla meditazione, ma al tempo stesso tutto è grandioso e verticale e soprattutto ogni singola miniatura ha una cura assurda, pazzesca. Un disco anche di silenzi, “Promises”. Tanti. Un disco di sospensioni. Un disco con pochissimi picchi dove si sprigiona tutta la potenza della London Symphony Orchestra, perché quasi sempre l’energia emotiva è invece “seduta”, trattenuta, abbracciata; solo piccoli elementi sonori (un synth, due o tre archi, delle sottili parti percussive) arrivano a circuirla, a girarle attorno, a renderla più drammatica e penetrante.
Non c’è una singola nota che sia fuori posto. E la noia, beh, la noia c’è solo per chi dà un ascolto superficiale e da esso non si vuole staccare. Altrimenti, “Promises” ti cattura dai primi secondi e non ti molla più. Lo puoi, anzi, lo devi ascoltare dall’inizio alla fine. In raccoglimento. Non riesci a staccartene. E stai quasi male, quando al Nono Movimento capisci che è tutto finito, sì, dopo un bellissimo ricamo orchestrale che fa da sigla di chiusura che “aggira”, evita il tema portante dell’opera. Ora vi lasciamo all’ascolto. Ma più sotto, ad ascolto finito, fateci fare qualche osservazione più stringente sul contesto da cui emerge questo album (e sulla sua atipicità).
In anni in cui sembrano tutti aver (ri)scoperto il jazz, grazie alla meritoria aura che finalmente circonda Gilles Peterson o al fatto che a Flying Lotus piace il jazz come e più che agli Artistogatti, questo lavoro va in direzione ostinata e contraria, pur arrivando apparentemente dallo stesso humus. Floating Points infatti arriva dall’elettronica, un po’ come appunto Flying Lotus, e piace-alla-gente-che-piace; aggiungiamoci che appunto è il momento giusto per buttarsi sul “vero” jazz e allora voilà, può anche aver senso dal punto di vista mercantile ripescare il buon vecchio Pharoah Sanders, uno che quando i Galliano (i Galliano!) lo ripescavano nei primi anni ’90 con “Prince Of Peace” sembra un simpatico, esotico reperto del passato. A questo punto però Floating Points poteva stupirci con collaudati effetti speciali, un po’ come stanno facendo in molti (troppi) della nuova ondata UK-californiana-snarkypuppesca del jazz che piace agli hipster elettronici: esibizioni muscolari, collegamenti con la comunicatività del funk e del soul, grandiosità, groove ed assoli pronto-uso. E tra l’altro in un brodo del genere Pharoah Sanders poteva starci anche bene, eh, è stato il suo contesto spesso e volentieri nel passato.
Ma Pharoah Sanders ha ottant’anni. Non è un simpatico vecchietto da portare in giro per far divertire gli astanti con le gag, facendogli sfoderare una riproposizione (pallida e rallentata) dei vecchi trucchi. E’ un musicista emotivamente intenso che spesso è stato pure sfottuto, dai giri “buoni”, e in generale non ha mai ottenuto uno status da superstar vera – forse proprio perché in certe spiritualità ci credeva “davvero”, in modo quasi naïf, non era cioè abbastanza cinico da imparare a farle e praticarle nel modo più sgamato e vantaggioso possibile. Sam Shepherd, con infinita sensibilità, lo ha voluto allora calare in un contesto dolente, rarefatto; un contesto perfetto per ospitare un sassofonista che non può più permettersi doppi e tripli salti carpiati e nemmeno le gag “spiritual” più facili e cartolinacee di un tempo. Fa male il suo soffio nell’ancia, fa male quando improvvisa delle parti di scat. Fa male – ma nel senso più bello del termine: quello di una intensità straziante. Rispettosa, rispettata, e straziante.
Abbiamo letto in alcune recensioni, ad esempio in quella di Uncut, che il disco delude ed infastidisce un po’ perché offre troppo poco, perché ti lascia insomma lì con la voglia di “…averne un po’ di più”. In realtà è pure vero: se ci si è definitivamente arresi alla “instant gratification” per cui la musica deve darti tutto subito e poi la puoi buttare via passando ad altro è vero, “Promises” è effettivamente un disco che delude, che in tre quarti d’ora butta giusto una manciata di note ripetute quasi all’infinito, più qualche momento di sax (poco) e qualche canticchiamento al microfono, con in sottofondo un’orchestra di fama mondiale decisamente sottoutilizzata, se non per cinque minuti su quarantasei.
Ma questa è una faccia della medaglia. E, sinceramente, è la faccia sbagliata. Oh sì. Ne siamo certi. Se la musica deve fare bene all’anima ed alle emozioni, non possiamo decidere in partenza che non si può (più) ascoltare in maniera raccolta, godendosi il silenzio, il dilatare dei sentimenti, con un’attenzione spasmodica ai dettagli più piccoli. No? Con “Promises” recuperi veramente tutto questo. Te lo fa recuperare un artista, Floating Points, che ci ha (anche) fatto ballare, che con “Elaenia” ha (anche) fatto il riciclo più à la page della jazz fusion anni ‘60/’70 (quella bella, prima che diventasse una paccottiglia), che suona (anche) nei festival dove ci sono i grandi riempipista della “business teshno”, che l’ultima volta che ha suonato a Barcellona è stato probabilmente nella Off Sónar organizzato da Afterlife. E tutto questo, credeteci, è molto importante. Tornare ad una pratica pacata, profonda, spirituale dell’ascolto della musica è una occasione ed una necessità per tutti, senza per forza doversi dividere tra “buoni” e “cattivi”, tra “chi può” e “chi non può”.
“Promises” è veramente per tutti. Tranne che per gli impazienti e gli insensibili. Sì. E’ un disco che ti cattura subito, e ci riesce lavorando sulle sottigliezze, sul trattenere, sulle miniature, sulla qualità maniacale degli arrangiamenti. “Promises” è un disco importantissimo. Un disco di cui Floating Points dove essere orgoglioso come non mai. E noi con lui.