Cronache di questi giorni: Psy, il rapper coreano del “Gangnam Style“, si esibisce allo stadio Olimpico in occasione della finale di Coppa Italia e viene accolto da una bordata di fischi. Lui termina la performance senza reagire e la notizia scatena giusto qualche risolino sul web. Due giorni dopo, l’apparizione prevista a Radio Deejay salta e l’entourage fa sapere che l’intera promozione italiana è stata annullata. E, mentre sui social network sfilano gli sfottò e le prese in giro, tra le file dei musicofili cosiddetti colti italiani si leva un coro di “chissenefrega, è Psy”. Come se la gravità di episodi come questo si possano misurare in base alla statura (qualitativa? Intellettuale? Economica?) dell’artista in questione.
Fosse stato Bruce Springsteen ovvio, sarebbe stato totalmente diverso. Invece è solo un fenomeno commerciale, e questo ci esonera dal riflettere amaramente sull’ennesima figura di merda collezionata dall’Italia, che conferma il suo posizionamento stabile ai margini periferici dei fenomeni musicali internazionali più grossi e dimostra ancora una volta un livello di apertura mentale verso la cultura di massa che è indietro anni luce rispetto a tutti gli altri. Perché l’italiano ama mostrarsi superiore a certe cose. Mentre altrove si scrivono trattati di sociologia su questi temi, dalle nostre parti si demonizza ogni cosa attribuibile alla definizione “commerciale” e ci si vomita addosso tutto il fango possibile. Un pò come andare a parlare ad un parroco cattolico di matrimoni gay.
Come dite? “Fa musica di merda, se l’è meritato”? Mah, sinceramente c’è tanta roba molto meno innocua in giro. Qui parliamo solo di un fenomeno demenziale, dove usualmente la soggettività dell’apprezzamento collettivo vale dieci volte di più rispetto al solito. Magari uno ama Mr. Bean, detesta il Ben Stiller di Zoolander e gli Elio e le Storie Tese proprio non li capisce, senza specifiche motivazioni. Tutto possibile, l’importante è mantenere il rispetto verso forme espressive semplici e in fondo positive come queste. Il caso di Psy è emblematico: uno che ha passato dieci anni a rappare pezzi pop più o meno seri ed a un certo punto ha inforcato un paio di occhiali di dubbio gusto estetico e ha iniziato a prendersi per il culo alla grande, con enorme autoironia ed umiltà, passandosi tutti i grandi show con le stesse ambizioni di un bambino alle giostre e andandosene nei talk-show USA a insegnare i suoi balletti alle Britney Spears di turno. Come se fosse tutto buttato lì per ridere. Magari è l’inizio di una vera ondata, prevista per i prossimi mesi, di cosiddetto “K-pop“, ma sarebbe anche comprensibile. Perché funziona, è scanzonato, non si prende sul serio e si porta dietro una benefica mole di buonumore.
Indignarsi per fenomeni come questo? No, le cose per cui bisogna indignarsi sono ben altre. Sono tipi come David Guetta, che a colpi di jingle e immagini pop prodotte in serie sta sputtanando irrimediabilmente l’efficacia di meccanismi dance elaborati in anni di ricerca. O, per restare in casa, sono gli eserciti di stellette formato televisivo partorite da Maria De Filippi, che vanno avanti secondo meccanismi fondamentalmente mediatici e che, a guardarsi in giro, sembrano l’ultimo serbatoio di forza giovane rimasto al nostro paese. Ecco, sarebbe bello che ci si indignasse per cose come queste. Perché sono i veri elementi dannosi di questo sistema, perché generano un giro di visibilità ottundente e lobotomizzante che annulla gli stimoli e deprime ogni ambizione al salto di qualità. La commediuola calcolata di Psy no, quella non fa alcun danno. Sarà anche stupidotta e tendente al trash, ma la rabbia e i fischi teniamoceli per qualcos’altro.
Alla fine ovviamente arrivano tutte le attenuanti del caso. Il discorso si sposta su un piano diverso e si rileggono quei fischi come un’anomalia di contesto, l’espressione del disappunto dei tifosi che volevano sono la partita per cui avevano pagato il biglietto (non esattamente il modo più elegante per manifestare il dissenso, ma pur sempre il linguaggio d’uso comune tra gli spalti quindi oh, niente di cui stupirsi). Ci si diverte pure a dare una parte di responsabilità agli organizzatori, che hanno inserito l’evento in un match sportivo particolarmente teso come il derby di Roma (mentre invece il Super Bowl americano con Beyoncé è una mezza amichevole). E magari si punta anche il dito contro lo stesso Psy, che poteva anche evitare di offendersi per quattro fischi degli ultras. Quando poi le giustificazioni non reggono, tagliamo la testa al toro e buttiamola sulla qualità. In fondo è solo Psy, l’italiano medio è troppo raffinato e certe facili ironie da esportazione non le concepisce. “Ivvilevante sir, assolutamente ivvilevante”. E l’indomani fa il sold-out per Gigi D’Alessio: la genuinità del made in Italy.