Dopo la parentesi sulla Progressive di due settimane fa torniamo ad occuparci di album. Altri due, per l’esattezza, entrambi attesi con impazienza ed entrambi caratterizzati dallo stesso, enorme, spessore. Uno è il (bellissimo) secondo album dei “Dark Lords” Wellenrausch, maestri berlinesi della progressive più scura e introspettiva. L’altro, beh… L’altro è di un certo Deadmau5.
[title subtitle=”Wellenrausch – The Pages Of Time (Afterglow)”][/title]
I Wellenrausch fanno doppietta, bissando il successo della loro prima creazione, il sublime “Personal Epos” del 2011, mantenendo salda la propria identità e il loro stile unico. “The Pages of Time”, dieci brani attesissimi, carichi di pura potenza, di quella massiccia tensione elettrica e di quelle sonorità magnetiche e profonde che fanno del duo austro-tedesco una delle certezze più apprezzate dagli amanti della trance underground. Ascoltare l’album è, come suggerisce il titolo, sfogliare le pagine del tempo, in un viaggio in cui gli autori svelano e reinterpretano la propria essenza, cambiando forma a seconda delle direzioni in cui, traccia dopo traccia, dirigono i nostri passi. Difficile costringerlo in qualche limitante categoria di genere. Molto meglio ascoltarlo, tutto d’un fiato. Si inizia con “Sending Out A Light”, traccia perfetta per calarsi a pieno nell’atmosfera. Rilassante, di ispirazione ambient, una intro scandita da accordi di piano, un synth appena pizzicato. La voce profonda di Markus, il groove spezzato, i pad, gli arpeggi: è già estasi. La stessa voce accompagna tra “Love Over Mind Over Matter” e “Hypnotize” (da brividi!), fino al cambio di marcia di “City In Flame”, che insieme a “Dream Within A Dream” e “Rivers Deep” è una dei pezzi più dancefloor oriented. Il groove continua con “These Moments” (unica strumentale in un fiume di liriche), e “Virtual Self”, prima che i bpm subiscano una decisa frenata con la closing track “As The Silence Falls”, in cui la trance si mischia al trip hop, in un culmine di emozioni difficile da esprimere con le parole. Cala il sipario, ma abbiamo ancora sete di queste atmosfere. Attendiamo frementi nuovo materiale dal duo teutonico, ma nel frattempo non resta che consumare il tasto replay e immergerci da capo.
[title subtitle=”Deadmau5 – while(1<2) (mau5trap)"][/title] Recensire l'album di un artista come Joël Zimmerman dà la stessa sensazione che darebbe passeggiare bendati un un campo minato. E non solo per il timore di un sarcastico dissing su Twitter, di quelli che negli ultimi tempi hanno attirato l’attenzione sul topo ben più di quanto abbia fatto la sua musica, ma soprattutto perché affrontare un album del genere con la mente (e le orecchie) completamente sgombra da pregiudizi, legati tanto al personaggio e poco all’artista, è cosa tutto fuorché scontata. Ma quando si tratta di far parlare i sintetizzatori, anche il più accanito dei detrattori ha l’obbligo di lasciar da parte per un attimo le antipatie e premere play almeno una volta. Vuoi per merito della (foltissima) schiera di fans sfegatati, vuoi per via dei tanti, tantissimi, semplici curiosi, fatto sta che While(1<2) è uno di quegli album che ti ritrovi alla numero uno in classifica ancora prima di pre-ordinarlo (e infatti). Tra le 25 tracce che riempiono i due dischi dell’album c’è veramente di tutto: introspettivi esercizi di stile, sia acustici che conditi da beat spezzati, in cui a farla da padrone è il pianoforte, schitarrate che sfociano addirittura nel metal (“Errors In My Bread” è fantastica, a discapito di un titolo piuttosto nonsense, “Survivalism” è frutto di un featuring con i Nine Inch Nails), groove funky, wobble dubstep, ritmiche tech house, ma anche progressive, house, ed electro da club: “Phantoms” è la sintesi perfetta di tutti e tre i generi, “Pets” è un capolavoro di prog trance alla maniera di “The Veldt” e “Not Exactly”, quel tipo di traccia che, semplicemente, non riesci a smettere di ascoltare. Curiosa la parentesi sui vizi capitali: sette tracce, intitolate appunto come i peccati, legate da cordon rouge melodici e armonici, e chissà da quale altra, recondita, intenzione dell’autore. Il comune denominatore è un raffinato sound design, supportato da una produzione notevole, cosa che a questi livelli ti aspetti sia il minimo sindacale. Non è tutto rose e fiori, ovviamente, di tracce insipide ce ne sono, “Terrors In My Head”, ad esempio, o anche “Mercedes”, e non solo per motivi di loudness, ma si perdono, immerse in tanta abbondanza. Nel complesso è un album decisamente eterogeneo (il che appare ragionevole, se si guarda alle evoluzioni stilistiche che si sono successe negli otto anni in cui è stato concepito) ma coerente, con se stesso, e soprattutto con l’ecletticità del suo autore. Però, per favore, toglietegli Twitter!