Sono anni che con Benny Benassi ci si incrocia. Una cosa resta costante: la sua gentilezza, la sua piacevolezza umana. Quello assolutamente. Ma tutto il resto, beh, tutto il resto è radicalmente cambiato: perché se un decennio fa ci capitava di fargli da tour manager in una serata un po’ strana al Bolgia – e lui musicalmente era ancora un fenomeno difficile da inquadrare, di sicuro non era ancora una star – negli anni poi le situazioni si sono fatte via via più rutilanti (noi imbucati, lui protagonista). Da una terrazza a Miami con vicino Carl Cox a serate di gala al Fabrique a Milano dove era co-headliner con Cerrone, più volte l’idea è stata di fissare su registratore una nostra chiacchierata, ogni volta però era tutto un po’ complicato, un po’ incasinato. Grazie invece ad un evento assai ben confezionato per il lancio del nuovo Magnum della Algida, per cui è stato requisito e personalizzato tutto il Plastic di Milano (non un club qualunque) e per cui è arrivata anche una discreta batteria di vip assortiti (oltre ai soliti, inossidabili presenzialisti milanesi), abbiamo avuto finalmente modo di ritagliarci una mezz’oretta tranquilla, prima che dovesse salire in console per fare l’headliner della serata. Il risultato? Se leggete con attenzione, ci sono un po’ di risposte alla domanda non da poco del perché una persona tranquilla e un dj di provincia come Benny Benassi è diventato, zitto zitto, uno degli artisti italiani più famosi al mondo. Che in millemila vorrebbero essere al posto suo – anche molti di quelli che non lo ammetterebbero mai.
Guarda, mi piacerebbe iniziare parlando di un bel po’ di anni fa – quando cioè ci eravamo conosciuti. Era un periodo strano: “Satisfaction” era sì uscita, ma la tua dimensione non era ancora molto chiara. Non eri ancora un nome grosso all’estero come sei adesso, anche in Italia non si capiva bene, e più di tutto c’era il sospetto che tu fossi una mera “one hit wonder”, uno che ha azzeccato il singolone ma di cui non era chiaro lo spessore… Cosa ti ricordi di quel periodo?
Una cosa mi ricordo molto bene: che non avevo minimamente coscienza di quello che sarebbe successo dopo, quando le cose sono cambiate per davvero! Chiaro, non è che arrivassi dal nulla, anzi: avevo già un lungo curriculum da resident in vari locali in Italia. La mia esperienza era quella lì. Fare il resident: uno al servizio della serata, che deve preparare la pista nel modo migliore per chi arriva dopo di lui. E invece subito dopo “Satisfaction” le cose hanno iniziato a cambiare… Mi ricordo ancora adesso la mia prima data all’estero, anzi, ancora di più mi ricordo come mi sentivo pochi giorni prima che arrivasse: avevo chiamato Rocca, che aveva già una bella esperienza come headliner di un certo tipo in giro per club, dicendogli “Ma senti un po’ Luca, hai da fare? Ti va se ci vediamo un attimo? Avrei bisogno di fare due chiacchiere…”. Poi, quando le cose hanno definitivamente ingranato, ho capito una verità molto semplice: in realtà basta lasciarsi andare. Suonare quello che ti pare. Una cosa a cui non ero abituato, raramente potevo suonare tutto quello che volevo in Italia. Un certo tipo di electro, le cose della Gigolò: tutto questo mi piaceva un sacco, ma non era certo un suono facile da mettere se aprivi una serata. Invece ecco, da un certo in poi mi sono ritrovato nella condizione di potermi lasciar andare, senza troppi calcoli, ed è stato semplice così. Cosa che ho continuato a fare in tutto questo tempo. Sai, il fatto è che me piace mescolare melodia – che è una cosa a cui mi è sempre piaciuto potermi appoggiare – e un certo tipo di suoni in grado di darmi un po’ di emozione vera. Alcuni ce ne sono. E ti dirò, ancora oggi quello che mi emoziona più di tutti è il basso ad ottavi – per me quella è la dance per eccellenza. Ed è una cosa molto “nostra” se ci pensi, è una soluzione che è stata abbracciata in tutto e per tutto dalla italodisco, e comunque in sostanza è nient’altro che la declinazione che la disco aveva preso nei primi anni ’80. Però sì, se ripenso a quell’esatto periodo in cui ci siamo beccati, hai ragione, era strano, ero un po’ perplesso… Arrivavo da tutta una vita in cui il mio compito era far ballare la gente senza potersi permettere chissà quali voli di fantasia, all’improvviso lì ero nella posizione di avere molta più libertà.
Però fino ad un certo punto.
Già.
Perché eri solo una canzone, per certi versi.
Bravo. Io ero in quel momento solo quello. Ero una canzone, e per giunta una canzone strana: per me come l’avevamo concepita io e Alle (Alessandro Benassi, cugino di Benny, suo totale “partner in crime” in studio, NdI) doveva essere un pezzo da discoteca, una cosa da ballare insomma, qualcosa che restava nel circuito dei club e non aveva chance di uscirne. Invece è successo che molti paesi, a partire dalla Francia, hanno iniziato a programmarlo anche in radio, nei programmi generalisti. Insomma, era diventato un pezzo pop, o comunque anche un pezzo pop. Eravamo spiazzati, sai? Manco noi sapevamo bene come dovevamo comportarci. Ma da lì in poi abbiamo capito che non era nemmeno il caso di porsi certi problemi: basta essere se stessi. Ti dico solo la giornata di oggi: prima mi è capitato di avere uno scambio via Whatsapp con Tiga, uno al 100% immerso in quella che è la club culture. Ecco però, prendi Tiga: hai visto che recentemente ha fatto una release anche per la Spinnin’? Te lo saresti mai immaginato pochi anni fa? E’ che lui è uno aperto, uno che non si fa problemi, che non ha preclusioni… Ad ogni modo: appena sento il pezzo nuovo che ha fatto con Audion (un altro che mi piace da impazzire) gli ho subito mandato un messaggio, “Wow, mi piace ‘sta traccia”, e lui mi ha subito risposto chiedendomi se mi interessava fare un remix. Subito dopo però mi sono trovato a parlare col mio manager e con la mia casa discografico del nuovo singolo di Chris Brown, una cosa completamente pop, che abbiamo prodotto. Mi piace questa cosa, questo alternare le dimensioni.
Ti trovi perfettamente a tuo agio in questo.
Oh be’, qualche hater ti dirà che tutto questo fa schifo, che non ho una direzione, che non ho coerenza… Gli hater… Sono quelli che qualche anno fa si appoggiavano alla console e, schifati, ti dicevano “Oh, ma che cazzo stai suonando! Che è ‘sta roba!”: oggi manco quello, possono dirti su anche stando comodamente seduti a casa, sai che lusso. Ma questa gente mi sembra sempre meno numerosa. Non credi?
In particolar modo negli ultimi anni. Vedo meno rigidità in giro, diciamo.
C’è, come dire?, un insieme di cose. Oh, io non parlo del contesto dell’elettronica pura, quella di ricerca: quello è proprio un altro campionato. Nel nostro mondo le regole sono diverse: devi riuscire ad essere contemporaneamente molto cool, sintonizzato sullo spirito del momento, e avere qualcosa che ti distingua dagli altri. Per dire: chiaro che oggi non mi metto ad usare gli stessi effettini che usa Kygo – li usa già bene lui! Però devi trovare qualcosa che sia interessante, non scontato, ma che suoni comunque un po’ l’occhio alle radio. Anzi, più che radio, ormai una cosa che conta moltissimo è Spotify. Che, se ci pensi, è come se fosse una radio gigante. Oggi lo magari lo criticano in molti, e non tutto è perfetto, ma c’è una cosa molto importante che io sottolineo sempre: quando ascolti la musica su Spotify, puoi decidere tu come ascoltarla. Ascolti Benassi, ascolti Van Buuren? Bene; ma magari parti delle hit del momento poi però se hai tempo puoi tranquillamente esplorare anche cose vecchie, quelle che la radio oggi non si sognerebbe di trasmettere. In questo modo si genera un po’ più di business per tutti: le case discografiche, gli editori, si riesce insomma a tirare fuori qualcosa di più anche dal catalogo, cosa che un tempo era quasi impossibile. E per fortuna. Sennò sarebbe tutto mezzo morto, visto che di dischi non se ne vendono più. Per me Spotify è utile.
Ma le polemiche sui diritti troppo bassi accordati ai musicisti?
Quella polemica ci sta, per l’amor del cielo. Ma la soluzione qual è? Possiamo fare come Neil Young, che si era creato il suo sistema di distribuzione e fruizione della musica. Com’è andata a finire, però? Chi l’ha supportato? Tutto quello che aveva da parte l’ha investito lì, non credo gli sia andata gran bene. Io sono un suo enorme fan, mi dispiace da un lato, ma dall’altro la tecnologia va avanti. E tu devi tentare di essere sempre al passo.
(continua sotto)
Dalle tue parole traspare una visione per certi versi abbastanza “business oriented”: però senti, quanto è pericoloso il “business” per la libertà creativa?
Dovrei risponderti “Molto!” per fare bella figura, vero? Secondo me invece sta tutto nel trovare il giusto equilibrio. Ci sono dei momenti in cui contare solo sulla propria creatività non basta: hai bisogno di un aiuto, di un riferimento, di un ancoraggio molto concreto. Io e Alle siamo una coppia molto affiatate e sappiamo bene come procedere, già da anni, ma anche noi ogni tanto abbiamo bisogno del ragazzo della casa discografica che arriva lì e ti suggerisce con convinzione delle cose: perché molto spesso non sta limitando la nostra creatività, semmai sta tentando di aiutarla. Poi oh, magari sei un genio, puoi andare avanti per la tua strada da solo, perfettamente autosufficiente, facendo delle cose pazzesche: ma allora appunto sei un genio, non un dj, un vero genio non farebbe il dj – i geni sono un’altra cosa. Nel nostro mondo, quello del clubbing, la collaborazione serve molto, gli aiuti esterni servono molto. E questi aiuti possono arrivare anche dagli uomini di business: perché oggi il business comunque è una componente necessaria. Serve avere un video di un certo tipo, un singolo capace di andare in certi contesti. Poi, guarda: è bello vedere che molta gente lavora per te e con te. E’ bello che attorno a un tuo progetto si radunino il lavoro, la conoscenza e la professionalità di molte persone. E’ una grande soddisfazione. Se mi guardo indietro e vedo quanta gente, negli anni, ha lavorato in vari ruole alle nostre cose non posso che essere molto contento: abbiamo lavorato in tanti, abbiamo lavorato bene. A partire da quelli delle case discografiche. Sì, magari all’inizio loro ci hanno guadagnato tanto e noi poco, ma diciamoci la verità – non ci fossero state all’inizio le case discografiche io dove sarei ora? Ancora a Reggio a fare il resident in provincia? Insomma, capisci: il business ci vuole, è utile.
Com’è stato quando il jet set internazionale della musica ha iniziato a cooptarti? Perché prima c’è stata l’ascesa europea, che già era tanta roba ed era immagino sorprendente, poi è arrivato proprio il mondo, l’America, Madonna… Cosa inimmaginabili per la stragrande maggioranza di chi fa musica. Te ne stavi rendendo conto, mentre accadeva?
Noooo, per carità! Non te ne rendi assolutamente conto, mentre ti accade. Ed è molto meglio così. Perché nel momento in cui inizi a rendertene conto, beh, allora vai in agitazione. In realtà ci arrivi anche, ma ci arrivi dopo; perché lì sul momento sei troppo preso dalle cose da fare: suonare in giro, produrre, creare cose nuove con Alle in studio, qualche intervista in giro. Non hai mica il tempo per pensare. Io poi ho avuto tre persone fondamentali, che dovrò ringraziare sempre e che mi hanno aiutato a mantenere sempre la giusta dimensione. La prima è la mia compagna: che c’era da prima ancora che iniziasse tutto questo, e che quando arrivo da un tour mondiale di quelli lussureggianti dove magari la sera prima ero con Paris Hilton in console a bere champagne mi accoglie con “Oh, bene che sei tornato, c’è da andare al supermercato, e prima di uscire mi raccomando butta la spazzatura”, e questa cosa è bellissima. Poi, Alle: lavoriamo insieme da sempre, lui è quello che riesce a stare sempre in studio, poi è anche uno che riflette molto sulle cose – è fondamentale. Infine Paul, il mio manager: è più vecchio di me, quindi mi ha sempre trattato un po’ come se lui fosse il fratello maggiore.
Giusto, Paul Sears: quando vi siete incontrati, lavorativamente parlando?
Quando è uscita “Satisfaction”. Lo conoscevo già: curava le edizioni e il business di questo gruppo di produzione di Reggio Emilia chiamato Off Limits, aveva sottomano cose un po’ più pop, tipo Whigfield. Quando la traccia è esplosa io, insomma, ero messo un po’ così: l’inglese non lo sapevo, dovevo iniziare ad occuparmi di cose di cui non mi ero mai occupato prima, a partire dai rapporti con mercati che non erano quello italiano. Sono andato da lui e gli ho detto: “Paul, ti va? Mi dai una mano? Ce la studiamo un po’ assieme?”. Da lì non ci siamo più separati e lui, davvero, è stato per me come un fratello maggiore. La cosa fantastica di lui è che è inglese, perché è inglese, ma vive da venticinque anni in Italia. Quindi è come se fosse anche italiano, riesce ad essere entrambe le cose, capire entrambe le mentalità. In più è appassionato di musica. E tratta la musica dance e quella elettronica esattamente come trattava il rock negli anni ’80: con la stessa serietà, con la stessa professionalità. La sua presenza ha fatto la differenza.
Ti sei mai chiesto perché tu hai funzionato e altri invece no? In molti avrebbero voluto fare la carriera che hai fatto tu: ma tu ci sei riuscito, loro no.
Me lo sono chiesto, ma la risposta sinceramente non la so. E’ una domanda che mi faccio ancora oggi. Mi capita di collaborare con altre persone, ragazzi anche giovani, e può succedere che pensi proprio “Accidenti se sono bravi, questi sono più bravi di noi”. Però non so, tra me e Alle c’è questa specie di alchimia magica. Lui viene dal Conservatorio, ha un background musicale completamente slegato dall’elettronica, tant’è che ancora adesso ogni tanto succede che in studio quando c’è una discussione se ne venga fuori con cose tipo “Io alzo le mani, vengo dalla musica classica, non rompetemi i coglioni, decidete pure voi va’…”; ma credo che proprio questa diversità fra di noi abbia funzionato. Perché davvero, io in giro ho visto gente brava, ma veramente brava… E’ che appunto, forse il segreto è essere bravi il giusto, non troppo bravi: perché devi arrivare a tutti. Anche a quelli che non sono strettamente appassionati di un certo tipo di roba. Gli appassionati vanno benissimo, sono importanti, per fortuna fra chi mi ascolta ce ne sono molti, ma non sono il cento per cento di chi ti ascolta. Arrivare a tutti è fondamentale. Arrivare a tutti è una cosa strana.
Devi essere meno sofisticato e più comunicativo, diciamo.
Noi siamo stati sicuramente un bel mix di cose. Guarda: oggi io sono a Milano, faccio questa serata, sicuramente accumulerò stimoli, idee ed energie; Alle è rimasto in studio, sicuramente sarà lì ora a smanettare. In questo modo io porterò a lui informazioni dall’esterno, lui ne darà a me di nuove dall’interno. E lavorare, come stiamo facendo adesso, al nuovo materiale sarà un’esperienza ancora più soddisfacente così. In più comunque noi lavoriamo sempre in team, questa è una cosa molto importante. Lo dicevo prima: puoi essere un genio, vivere nel tuo mondo, fare cose incredibili, performance, installazioni, eccetera. Ma non è la mia storia.
La tua è una storia comunque molto spessa e particolare. Ti capita che ragazzi di vent’anni vengano da te a chiederti consigli?
Io posso anche darlo, qualche consiglio, ma i giovani è molto più importante ascoltarli che consigliarli. Oggi più di prima. Guardati attorno: è cambiato tutto. Ti faccio un esempio – l’altro giorno è uscito il video del nuovo singolo di Chris Brown, a cui abbiamo lavorato, e in un amen ha fatto 750.000 views. E’ bastato un solo tweet da parte sua. Capisci? Prova ad immaginare: un’azienda un tempo cosa doveva fare se voleva raggiungere 750.000 clienti? E quanto tempi ci metteva? Oggi basta un attimo. E queste sono cose che i ragazzi sanno meglio di tutti. E’ a loro che devi chiedere, oggi. Perché nel passaggio dal 2000 al 2010 il mondo è cambiato molto di più rispetto a, che so, il passaggio dagli anni ’70 agli anni ’80: questa è la verità.