Oggi forse la memoria è sbiadita o, semplicemente, c’è chi non era ancora nato o era troppo giovane per ascoltare musica: ci sta. Ma per tutti, bisognerebbe sempre tenere a mente cosa è stato, anzi, cosa ha rappresentato “Achtung Baby”, disco di cui oggi si celebra il trentennale (…e che regge l’età molto meglio di altri lavori usciti nel nuovo millennio, e celebratissimi). Oggi stiamo qui a magnificare le mosse iconoclaste di Kanye West, il fatto che usi il gospel o destrutturi il processo produttivo, ci sembra il massimo del coraggio e della stranezza nel gioco del grande pop, ma Kanye – così come tutti gli altri nessuno escluso, in questi anni, anni in cui invece grazie ad internet dovrebbe esserci molta più libertà artistica e di rischio aggirando il conservatorismo della grande industria – non fa altro che stare nel suo, stare nell’alveo. “Lavora” sul monumento di se stesso, invece che distruggerlo.
Il 18 novembre 1991, no. Con “Achtung Baby” gli U2 si prendevano un rischio pazzesco. Feroce. Un gioco che stava dilaniando loro stessi tra l’altro, visto che ad un certo punto della lavorazione del disco la band si spaccò in due fra conservatori ed innovatori: fu solo l’intervento di Brian Eno, il grande Brian Eno, a ricomporre la frattura, incoraggiando la band nel non abbandonare la strada intrapresa. Ma quale era questa strada? Gli U2 erano la band della musica impegnata e “pura” per eccellenza (seri, seriosi, tradizionalisti nel proporre un rock impregnato di wave), e già la mezza svolta americana intrapresa prima con “The Joshua Tree” (bene) e poi con “Rattle And Hum” (maluccio) aveva fatto storcere il naso a un po’ di fan: sì, dischi che avevano guadagnato finalmente popolarità planetaria alla band, ma il pubblico acquistato era un po’ meno integralista ed integerrimo dei fan della prima ora. Questi ultimi, si erano messi sul chi va là.
C’è un altro flashback da fare: in quell’inizio anni ’90 rock ed elettronica erano nemici giurati, ma davvero nemici giurati. Sì, nella Manchester madchesteriana e neworderiana così come nella Londra weatherollesca c’era chi improvvisamente aveva abbattuto i muri, creando una rivoluzione; ma fu una rivoluzione che in Inghilterra fu solo parziale, apprezzata da molti ma da molti altri no, e che nel resto del mondo venne invece capita solo qualche anno più tardi. Nel 1991, gli U2 che flirtano con l’elettronica, la dance, il disco-funk più modernista (…nemmeno quello passatista à-la-Chic in cui si tuffò Bowie con Nile Rodgers in “Let’s Dance”) era considerato da molti come una bestemmia, come un insulto alle radici del vero rock, dell’impegno, del rigore new wave. Se “Achtung Baby” fosse stato non bellissimo e non clamorosamente ispirato anche nella scrittura, beh, sarebbe stato fatto a pezzi. Oggi con giganteschi apparati comunicativi 2.0 puoi fare un po’ di maquillage, un bel po’ di maquillage: ovvero anche se un disco è ispirato così-così, con gigantesche campagne sui social media (e una grande capacità di gestirle) puoi comunque tenere alto l’interesse attorno a te. All’epoca quella carta non c’era. All’epoca dovevi piacere ai grandi media, e i grandi media erano tendenzialmente conservatori. E se proprio volevano lanciare delle mode innovative e di rottura – vedi il grunge – dovevano decidere di lanciarle loro.
(irlandesi a Berlino; continua sotto)
Gli U2 invece avevano fatto una fuga in avanti senza chiedere permesso a nessuno. Per certi versi paragonabile a quella fatta, un decennio più tardi, dai Radiohead con “Kid A”. Non che “Achtung Baby” sia un disco sperimentale, folle, destrutturato, spiazzante: a riascoltarlo oggi pare un solido, bellissimo disco di pop-rock, nient’altro. Ma a riascoltarlo oggi si perde il senso di rottura che quel cambio/aggiustamento di rotta rappresentava, nel momento in cui stava avvenendo. Gli U2 erano già una band planetaria, lo ripetiamo. Non erano un movimento locale di gente bizzarra, come Madchester; non erano una nicchia protetta con licenza di sperimentare, come le cose wave più “arty”. Avevano addosso pressioni e responsabilità. Erano già lì lì per diventare “tromboni”, tutti i media e – diciamolo – tutti i fan di allora glielo stavano già chiedendo (…e poi, purtroppo, lo sarebbero diventati: perché il successo finale di “Achtung Baby” gli fece tirare un sospiro di sollievo così lungo che, ancora oggi, hanno smesso di rischiare ancora). Invece presero il coraggio a due mani, fecero una cosa per certi versi prevedibile – affrontare la storia a due mani, immergersi in quella Berlino post-caduta del Muro di cui parlavano tutti – ma la svilupparono togliendosi davvero la terra sotto i piedi, stravolgendo il proprio suono, cambiando le abitudini di mixaggio, immettendo elementi prima semplicemente inimmaginabili per loro negli arrangiamenti. E, appunto, sfidando i (pre)giudizi dell’epoca, quelli per cui il rock era Valore con la “v” maiuscola e i trucchetti digitali o certo funk nei ritmi erano fighetteria da escapismo discotecaro o, almeno, qualcosa da tenere separato dalle chitarre (a meno di non essere degli sballoni da ecstasy ed altre droghe).
Davvero: se “Achtung Baby” non fosse pieno di canzoni scritte divinamente come è – e non pensiamo tanto a “One”, che per chi vi scrive è di gran lunga il pezzo più debole, retorico e prevedibile del disco – sarebbe stato una pietra tombale, per gli U2. E non ci sarebbe stato nessun Instagram, nessuna Naomi Campbell fidanzata con Adam Clayton, nessuna campagna promozionale basata sui pixel di Facebook a rimettere a posto le cose. Ci sarebbe stata solo la crudeltà della grande industria discografica a dire “Questi sono bolliti, ciao”. Gli U2 tutto questo lo sapevano, ne erano perfettamente consci. Trent’anni dopo, doveroso rendono onore al merito, onore al coraggio. E riascoltare, ancora una volta, un disco splendido. Ma la domanda onesta che dobbiamo farci è anche: oggi, nel mainstream, c’è chi ha ed ha avuto il coraggio di prendersi dei rischi così grossi, sia come scelte musicali che come “narrazione” attorno al proprio personaggio?
Qui sotto, potete risentire il disco. E qui, un gran bel racconto di Emiliano Colasanti sulla sua genesi, sui suoi travagli, sulle sue ricchezze.