Per capire veramente la sentenza sul Cocoricò bisogna leggere l’atto sanzionatorio del questore, dove si abbandona ad alcune considerazioni per giustificare la sanzione, e le dichiarazioni del sindaco di Riccione. Non pare un atto giuridico, pare quasi una vendetta; o, a seconda dei punti di vista, un regolamento di conti in cui ad un certo punto le istituzioni scaricano un socio in affari non più gradito. A farti pensare male (e si sa che a pensar male…), ti fa dire che di ridurre il danno, tolte le ipocrite prese di posizioni più superficiali, non gliene frega niente a nessuno: le istituzioni in realtà sanno bene che non è chiudendo il Cocoricò che si risolve il problema della gente che si droga, inutile che glielo ricordiamo mille volte coi nostri status di Facebook. Era più importante l’atto simbolico: il far vedere chi ha veramente il potere, chi può decidere se tu puoi lavorare o meno (e quando le leggi vanno applicate in modo stringente e quando invece possono essere gestite elasticamente). Bella roba vivere in una nazione dove le istituzioni ragionano così. Ma vabbé. Ormai lo sappiamo.
Per quanto riguarda il Cocoricò, il paradosso è che questa mannaia arriva nel periodo in cui c’erano più controlli e più vigilanza. Come mai in passato. E arriva quando, pur di restare aperto, il Cocoricò era disposto a combattere contro il consumo di stupefacenti più di cento unità operative di polizia messe assieme: furbo decretarne la chiusura ora, proprio ora, se vuoi combattere il consumo di droga… nevvero?
Sconta delle “colpe” passate, il Cocoricò; che poi occhio alle virgolette, perché colpe non sono: si tratta infatti dell’essere entrato nell’immaginario collettivo come il superclub più estremo d’Italia. Su questo ruolo, costruito con la gestione “creativa” degli anni ’90, c’ha campato di rendita e ha stampato fatturati enormi, diciamolo chiaro. Doveva tuttavia essere meno ingordo, col senno di poi (ma non solo con quello), questo lo si potrebbe dire: non pensare cioè solo a macinare fatturati e a stipare più persone possibili dentro il locale (fino a condizioni di quasi invivibilità), ad esempio; ma anche credere di più alla necessità di fare una line up e una programmazione con delle idee “alte”, ragionate, sofisticate, intriganti, pure più “difficili” e rischiose volendo – perché questo avrebbe portato ad un miglioramento del pubblico. Gente più consapevole, magari anche con qualche anno di media in più, che è lì (anche) per la musica e non solo per strafarsi abbestia con la sicurezza che “Ah sì, c’è uno fortissimo in console, un mito”; e pazienza se la massimizzazione dell’investimento in questo modo non sarebbe stata (almeno all’inizio) massimale. Ci fu ad esempio un esperimento ben specifico che andò benissimo, in quest’ottica che qua stiamo ipotizzando come occasione mancata: mai qualità della vita fu più alta sul dancefloor (senza per forza trasformarla in un oratorio con Dj Aniceto in console, santiddio) come quella sera lì, magari chi legge avrà anche capito a cosa ci riferiamo. Bene: quella via non fu più seguita, fu completamente disconosciuta, la proprietà stessa con vari gesti concreti successivi all’evento fece capire quanto quel momento fu visto come un incidente di percorso, un errore: insomma, il segnale su quanto si credeva in una “svolta” verso un clubbing un po’ più qualitativo era chiaro. Quanto questa scelta sia stata lungimirante, beh, diventa interessante valutarlo proprio ora.
Vogliamo bene al Cocoricò. Vogliamo più bene al Cocoricò di Loris, del Morphine “storico”, di quando non era una macchina da numeri&soldi ben oliata come ora ma una geniale e malefica allucinazione dove c’era tutto e il contrario di tutto, insomma, il Cocco degli anni ’90, quello che avrebbe fatto inorridere il Codacons se solo c’avesse mai messo piede e che di leggi ne infrangeva parecchie, soprattutto quelle più stupide. Ma vogliamo bene anche al Cocoricò attuale, a molte persone che ci lavorano (chi scrive c’ha pure collaborato, e con piacere). Troviamo che sia un luogo comunque affascinante dove ascoltare musica e mischiarsi all’umanità, anche se non tanto quanto in passato ma ok, il passato non può tornare sempre e il presente qualche volta può essere accettabile uguale. Attenzione: mille volte meglio la peggiore delle serate tamarre al Cocoricò odierno dei bar fighetti del cazzo disseminati in tutti i luoghi della Penisola (isole comprese), dove persone dal buon potere d’acquisto e/o dall’alta ignoranza vanno ogni tre per due in bagno a pippare offrendo a destra e manca pur di poter scopare a fine serata. Lo diciamo chiaramente? Quelli sono i posti che chiuderemmo non per quattro mesi, ma per quaranta; ma quelli guarda un po’ sono spesso e volentieri i posti intoccabili, “buoni”, normali, anche per l’opinione pubblica; almeno finché non pestano i piedi a qualche maggiorente locale, allora improvvisamente diventano un problema.
Dite che non pensiamo alla salute dei ragazzi che vanno al Cocoricò e lì si sballano? Che un Cocoricò aperto e funzionante a pieno regime così come funziona adesso è un evidente pericolo per loro, anche vedendo gli episodi che si sono succeduti negli anni, come appunto evidenziato nella sentenza del questore che stabilisce la sospensione per quattro mesi della licenza? Sapete che c’è: se pensiamo che l’educazione di un ragazzo e la sua autoconsapevolezza dei limiti debbano essere delegate ad un locale (Cocoricò od altri), deresponsabilizzando su questo completamente famiglie, scuole ed istituzioni, allora siamo veramente delle mezze persone con poca onestà e dignità, degli scaricabarile miseri. Oppure, siamo gente che usa come un manganello l’articolo 100 del TULPS (siete andati a leggervello?, è meraviglioso, se lo metti giù in ideogrammi penseresti sia un parto di Kim Il Sung) per lavarsi la coscienza. Tanto si sa, un certo tipo di ipocrisia in Italia è sempre stata molto popolare, lo raccontano tutti i libri di storia: è comoda, fa fare bella figura, soprattutto non impegna (informare onestamente e capillarmente è molto faticoso e tocca varie convenienze di annidate nel sistema). Soprattutto, non risolve mai nulla veramente.
Sul rapporto tra droga e club culture, abbiamo già detto ampiamente la nostra. Nessuna difesa d’ufficio del Cocoricò: non ne ha bisogno (ha abbastanza mezzi per difendersi, ammesso e non concesso che non gli tolgano l’ossigeno economico per sopravvivere), né sappiamo abbastanza dei suoi meccanismi di funzionamento interni. In più le difese d’ufficio aprioristiche non ci sono mai piaciute, senza contare il più delle volte danneggiano soprattutto chi si vorrebbe difendere. Tuttavia ecco, un’idea su tutto quanto è successo e sta succedendo ce la siamo fatta, e abbiamo voluto buttarla giù qua nero su bianco.