Scorri la tua timeline di prima mattina, e una cosa che colpisce subito la tua attenzione è questa: nel corteo indetto ad Ostia “contro tutte le mafie”, nato sulla spinta della indegna testata data da Roberto Spada a Daniele Piervincenzi, giornalista di Nemo, un bel po’ di gente si è messa ad inveire contro chi?, ma certo, contro i giornalisti presenti. “Spegnete le telecamere, non vi vogliamo qui!”. Seguito da un “Dovreste esserci sempre, non solo quando succede qualcosa di eclatante”. Contestare violentemente la presenza di giornalisti in un corteo nato sulla spinta di una violenza contro un giornalista che faceva il suo mestiere è, insomma, paradossale.
Ma sempre nella tua timeline, sotto un tuo post, si era scatenata qualche giorno fa un’altra discussione abbastanza accesa in cui, ad un certo punto, uno dei discutenti se ne era venuto fuori bello sicuro con “I giornalisti sono il grado più basso della scala evolutiva della società”, raccogliendo anche un minimo di apprezzamento (e nessuno che gli dicesse “Eh, scusa?“). Si parlava di musica, non si parlava di mafia a Ostia, di Casa Pound, di quello che volete voi. Si parlava semplicemente di musica (di Liberato, nella fattispecie). Eppure evidentemente questa dinamica per cui “Giornalista primo nemico!” è ormai endemica ed epidemica. Pensateci: lo è appunto in politica (basti vedere le uscite di molti esponenti del M5S, a partire dal suo leader spirituale, giù giù fino all’estrema destra così come all’estrema sinistra). Lo è nel calcio: sappiamo bene cosa pensano gli ultrà dei giornalisti. Lo è insomma, fateci caso, in tutti quei momenti in cui c’è un forte, parossistico investimento libidinale: quello che metti ogni tanto nella politica, nella musica, nella tua passione sportiva. Quando lo fai, quando assumi una posizione forte ed intransigente su qualcosa, ecco che il nemico diventa “il giornalista”. E’ diventata una cifra dei nostri tempi. Soprattutto da quando l’opinione pubblica ha iniziato ad essere veicolata sui social: un medium “a metà”, che non è né il chiacchiericcio da bar né il sistema dei mass media editorialmente certificati e strutturati.
“I giornalisti sono il grado più basso della scala evolutiva della società”
La conclusione quale potrebbe essere? Che è il “gentismo” ad odiare i giornalisti? Che è un atteggiamento da condannare? Che i giornalisti e il sistema dell’informazione sono un argine contro il qualunquismo, e per questo sono odiati? Che “dare contro” ai giornalisti è un segno della maleducazione dei tempi, tanto sui grandi temi come la politica quanto nelle microdiscussioni di musica via Facebook sulle differenze tra Liberato e i Pan Sonic?
Oh no. Le cose non sono così semplici. E non sono così autoassolutorie per il mondo del giornalismo. Se chi fa questo mestiere – dal più alto dei quotidiani, al più inutile dei blog musicali – è diventato il destinatario di un tiro al piattello generalizzato, beh, qualche motivo c’è. E non sta solo nella supposta “ignoranza” o nel qualunquismo di chi lancia gli anatemi in questione. No. Il giornalismo tout court è diventato, questo il punto, un bersaglio facile, comodo, scontato; uno di quei bersagli che se lo miri non rischi di fare troppa brutta figura, questo il dato di fatto. Se è diventato tale, le colpe sono anche del giornalismo stesso. Decisamente. Una aspetto che magari chi lancia scritte o ululati rabbiosi manco sa bene nei particolari ma, in qualche modo, lo “percepisce”.
Perché, come stanno le cose? Stanno che negli ultimi anni, a tutti i livelli – con diverse modalità – il giornalismo ha sistematicamente perso autorevolezza. La ha persa prima di tutto e più di tutto ultimamente nel suo “soft spot”: il giornalismo culturale e quello di costume
Perché, come stanno le cose? Stanno che negli ultimi anni, a tutti i livelli – con diverse modalità – il giornalismo ha sistematicamente perso autorevolezza. La ha persa prima di tutto e più di tutto ultimamente nel suo “soft spot”: il giornalismo culturale e quello di costume. Pensiamo per dire alla musica, per stare su un campo che conosciamo bene (e che, se siete su queste pagine, di sicuro appassiona anche voi): da un certo momento in avanti – diciamo dalla fine degli anni ’90 – c’è stata una ripida discesa di autorevolezza andata di pari passo con una improvvisa, costante diminuzione delle vendite in edicola. E questo, badate bene, prima dell’arrivo di internet, dell’informazione-gratis-per-tutti (fenomeno indubbiamente decisivo e che ha piantato molti chiodi su una bara che, ecco, sembra sempre più pronta per essere interrata). Cullata dall’eccesso di certezze per cui, fino agli anni ’80 e ai primi anni ’90, la carta stampata era il primo e unico motore di informazione e indirizzamento delle vendite, ci si era adagiati in una sistema che apparentemente conveniva a tutti: le etichette discografiche più o meno grandi imboccavano i giornali e ne dettavano i timoni (non i giudizi, ma i timoni sì); i giornali erano contenti perché avevano accesso a contenuti senza troppa fatica e senza fare troppa investigazione sul campo sul chi, cosa, come; le etichette erano contente perché avevano il loro spazio – più o meno grande – sull’unica fonte di validazione e di circuitazione. Lì per lì non ci si poneva troppi problemi su quanto questo meccanismo impigrisse tutti quanti: più o meno reggeva. Ma i lettori, anche solo inconsciamente, hanno iniziato a sentire puzza di bruciato. E hanno preso ad appassionarsi sempre meno alla causa di realtà editoriali che sentivano ormai sempre più “prevedibili”, sempre più “istituzionali”, lì dove invece erano nate per essere contro-culturali, re-attive e pro-attive, anche solo vagamente antagoniste rispetto alla cultura ufficiale paludata, quella dei quotidiani e dei telegiornali.
Quando è arrivato internet, ha fatto a fette un sistema che era già debole di suo. L’informazione-gratis-per-tutti ha definitivamente messo in ginocchio qualcosa che già aveva i classici sintomi della senescenza e/o del languore della pigrizia intellettuale da benessere. Per giunta lo ha fatto mettendo in campo un problema completamente nuovo, e particolarmente velenoso: la convinzione che fosse davvero sufficiente il mercato pubblicitario, con le sue inserzioni, a tenere in piedi il sistema informativo. Quello che trovi su internet (recensioni, interviste, anche questo articolo…) non lo paghi.
Allarghiamo ora l’obiettivo rispetto allo specifico campo musicale, allarghiamolo all’informazione tutta: con strutture nate e consolidatesi ai bei tempi andati delle vacche grasse, quando i numeri hanno iniziato a declinare (e/o lo strutture redazionali ad ingigantirsi sempre di più, come dimensioni e come stipendi garantiti ai contrattualizzati) si è pensato di rimettere a posto le cose nei conti finali ponendo più attenzione al dipartimento marketing. D’altro canto, la pubblicità ha messo (e tenuto) su sistemi giganteschi come quelli radiofonici e televisivi: perché non avrebbe dovuto farlo anche con la carta stampata? E’ successo così che nei bilanci aziendali dei grandi editori di quotidiani e magazine il ricavo da vendita diretta è diventata una voce sempre più trascurabile, fino ad arrivare al boom della free press, lì dove il ricavo da vendita diretta è per definizione zero. La carta costa, far scrivere degli articoli costa, distribuire le copie costa: se il giornale viene distribuito gratuitamente, chi finanzia tutto questo? Un mecenate? No. Gli inserzionisti? Esatto.
La carta costa, far scrivere degli articoli costa, distribuire le copie costa: se il giornale viene distribuito gratuitamente, chi finanzia tutto questo?
E se il costo della carta non è comprimibile più di tanto, ad un certo punto ci si è resi conto che quello della scrittura degli articoli lo era. Coi contratti blindatissimi all’italiana, non potevi certo licenziare chi era già assunto (e aveva ottenuto, negli anni, una serie notevole di benefici, tutele e gratificazioni); quindi non restava che rivalersi sui collaboratori, sui free lance, la categoria meno tutelata dell’universo. Una categoria che accettava tutto senza indignarsi troppo, perché comunque l’offerta era molto superiore alla domanda: siamo pieni di gente che vuole scrivere, di gente che vuole sentirsi definire “giornalista”, no? Questo per due motivi, anzi, volendo tre: il primo, quello del “volendo”, è che effettivamente scrivere per informare il mondo, che tu parli di Jlin o di Putin, è gratificante, ti fa sentire protagonista, ti fa sentire utile; il secondo è che arriviamo da decenni e decenni, per non dire secoli, in cui il prestigio sociale attorno al mestiere di giornalista è stato molto alto (per intenderci, quello che oggi è messo sotto duro attacco, e ora ci torniamo sopra); il terzo è che sia gli editori hanno capito che tutta questa massa di giornalisti più o meno wannabe poteva essere tenuta buona a un costo molto contenuto, concedendo non tanto denaro quanto privilegi vari assortiti. Privilegi che a qualcuno costano (ma l’editore, mica scemo!, ha fatto ricadere questi costi sui brand, sugli inserzionisti), avendo peraltro la simpatica caratteristica di porre un ricatto morale al giornalista. “Ma come, vuoi parlare male di me dopo che ti ho offerto il viaggio e pagato l’hotel per assistere alla sfilata / essere presente al festival / vedere o ascoltare l’anteprima in un luogo figo? Veramente vuoi farlo?”.
Pensavamo, noi giornalisti, che non se ne accorgesse nessuno. Ci schermavamo dietro il “Eh, che ne sai tu delle dinamiche professionali, tu che ne stai al di fuori”. Invece la gente se ne è accorta. Magari inconsciamente, ma se ne è accorta. Lo ha percepito.
Peccato che abbia, come inevitabile, reagito nel modo sbagliato. Lo ha fatto iniziando a dare patenti di credibilità altrove in modo indiscriminato: il fenomeno delle fashion blogger è la punta di diamante fra gli epifenomeni generati da questo approccio, per dare un primo ed ovvio esempio concreto. Perché loro, le fashion blogger, erano “autentiche”, “spontanee”, “non compromesse dal sistema di scambi e favori dell’informazione ufficiale”: sta lì la loro fortuna, non certo nella sola qualità dei loro outfit, del loro styling o della loro scrittura. La verità è che sì, effettivamente il giornalismo legato al sistema fashion è diventato ostaggio di un gioco di veti e favori contrapposti orchestrato da grandi brand e dai loro uffici stampa e PR; ma ora questa ragnatela ha intrappolato le fashion blogger tanto quanto. Con la differenza che le fashion blogger, affascinate dalla possibilità di guadagno per una cosa nata come hobby (o dalla possibilità di grande guadagno, se ti ci metti fin da subito a fare le cose con serietà e determinazione feroce) si sono svendute come e più della stampa ufficiale. C’è ormai più libertà e spontaneità in un epicentro di potere e di interessi incrociati come un grande magazine femminile (dove i contenuti che trovate in un magazine sono frutto di una lunga contrattazione tra l’ufficio marketing dell’editore e le agenzie di PR o i dipartimenti marketing dei brand, non di scelte editoriali, però almeno il magazine può permettersi un minimo di discrezionalità), che nel più periferico fashion blog casalingo di una ragazzina dell’Abruzzo o del Wisconsin con un minimo di views (e quindi già nella lista dei canali da monitorare, indirizzare, foraggiare). Paradossale. Questa dinamica poi applicatela pure su altri settori dove è diventato strategico il bacino dei blog, non solo quello del fashion; non cambia, ‘sta dinamica. Non cambia.
Ma vogliamo tornare alla musica? Torniamo alla musica. La sete di conoscenza attorno alla musica e ai suoi protagonisti, che sempre c’è stata e sempre ci sarà, ad un certo punto ha iniziato a distribuirsi ed atomizzarsi in svariati blog e magazine online, tutti rigorosamente gratuiti, aiutati dal fatto che la spesa di gestione può essere pari a poche decine di euro come investimento iniziale (cosa impossibile con la stampa, tra produzione e distribuzione). Qualcuno che vale c’è, e sono di solito quelli dove opera almeno un pugno di persone che conosce davvero il mondo dell’informazione dal punto di vista professionale, perché ci mette un determinato know how, un determinato impegno, una determinata attenzione; ma la qualità media di molti magazine on line musicali, è proprio bassina. Io stesso più di tanto non me ne rendevo conto, lo ammetto, poi un po’ di tempo fa mi sono trovato in mano la rassegna stampa di un evento recensito anche qui da Soundwall un po’ di tempo fa, e nel leggere in bozze la recensione preparata per noi avevo manifestato ai collaboratori in questione la mia perplessità “Potevate fare decisamente di meglio”. Poi però ho visto, qualche giorno più tardi, cosa era stato pubblicato da altri siti: articoli raffazzonati, scritti male, poverissimi di contenuti, con considerazioni banali e prevedibili (nel bene e nel male) messe giù con una approssimazione stilistica spaventosa. Un panorama di macerie.
La sete di conoscenza attorno alla musica e ai suoi protagonisti, che sempre c’è stata e sempre ci sarà, ad un certo punto ha iniziato a distribuirsi ed atomizzarsi in svariati blog e magazine online, tutti rigorosamente gratuiti
Un panorama di mezze macerie dove tra l’altro, assieme al dilettantismo, emergeva un’altra caratteristica, peraltro strettamente correlata: la voglia di “esserci all’interno del sistema”, la voglia cioè di sentirsi in qualche modo protagonisti e non semplici spettatori. Strizzatine d’occhio non richieste agli organizzatori, ai musicisti citati negli articoli, “Vedi come parlo bene di te? Mi vedi, eh, mi vedi?”. Ma: come biasimarlo del tutto, questo? Scrivere costa fatica. Imparare a scrivere bene, anche in campo musicale, costa tempo e fatica. Ma se quello che fai non viene ricompensato da un corrispettivo economico (perché sempre meno chi scrive di musica viene pagato), potrai almeno ambire a un minimo di gratificazione, diamine? Quel minimo c’è, ed è “sentirsi parte del sistema”. Sentirsi parte di un sistema non da semplice fruitore, non da semplice spettatore. Questa soddisfazione ripaga il tempo e la fatica mentale spesa per vergare un articolo.
Si chiude il cerchio, così. E si chiude male. Uno: i magazine non sono più seri ed autorevoli come un tempo, vittime della routine e dell’eccessiva sicurezza sulla propria ineluttabile centralità nelle dinamiche dell’informazione culturale; due: i lettori vanno a cercare l’autorevolezza altrove, in un circuito nuovo e fresco che per giunta non richiede un esborso monetario; tre: non avendo pagato, diventa meno esigente il lettore, si abitua a leggere peggio, ma nel farlo è anche consapevole che sta leggendo peggio – ecco che quindi, di rimbalzo, quello di “giornalista musicale” diventa un titolo con sempre meno valore. Visto che, insomma, se ne possono fregiare anche quelli approssimativi e raffazzonati, non solo ed unicamente quelli seri e preparati. Se ne fregiano anche quelli oggettivamente cani, detto come va detto. Tanto più che ormai, vista la facilità con cui si apre un blog e/o un magazine on line, il titolo di “giornalista” è diventato praticamente un’autocertificazione.
Si chiude il cerchio, così. E si chiude male
Vi dirò: va anche bene che sia diventato un’autocertificazione, sapete? Perché parliamone: i giornalisti “veri”, quelli col tesserino, iscritti all’Ordine, con magari anche regolare contratto, come sono messi, un po’ in tutti i settori? Ne parliamo un po’? A parte lodevoli eccezioni, sono abbarbicati al loro lavoro (quando c’è); soprattutto, hanno un margine di discrezionalità nullo perché anche se volessero fare articoli fatti bene, indipendenti, ben documentati, incisivi, quasi sempre hanno sopra di sé dei caposervizio – regolarmente contrattualizzati – che hanno il terrore di perdere il posto di lavoro (che ha emolumenti per cui un freelancer dovrebbe sui 70/80 articoli al mese per raggiungerli) se si mettono a perturbare le acque. E lo perderebbero: perché gli editori già fanno fatica a far quadrare i conti, temono che se hanno una redazione che rompe i coglioni e scalfisce lo status quo prima o poi si finisce col pestare inevitabilmente qualche interesse amico (un’inserzionista affezionato, un finanziatore…). Col risultato che salta tutto per aria. Addio lavori, addio contratti, addio privilegi. E’ un sistema malato nel suo complesso, insomma. Lo è a tutti i livelli. Chiaro allora che un semplice cittadino inizia a percepire il “giornalista” come un ruolo poco autorevole, poco credibile, poco rispettabile. C’ha le sue ragioni, il cittadino. Ci sono le eccezioni? Ci sono i giornalisti coi controcazzi che nella musica, nella moda, nella cronaca, nella politica fanno articoli notevoli, sono preparati e non guardano in faccia a nessuno? Certo. Certo che ci sono. Ma anche loro sono inglobati all’interno di un sistema che, complessivamente, è strutturato in modo tale da perpetuare ed incoraggiare la medietà (tendente al ribasso) e la commistione insana di interessi. Col risultato che, dall’esterno, si tende a fare di tutta l’erba un fascio. Non bello, ma comprensibile.
Ci sono le eccezioni? Ci sono i giornalisti coi controcazzi che nella musica, nella moda, nella cronaca, nella politica fanno articoli notevoli, sono preparati e non guardano in faccia a nessuno?
Bene. Arriviamo allora al punto: di chi è la colpa? Colpa degli editori disonesti, che comprimono il costo e quindi la qualità del lavoro senza scrupolo alcuno? Dei giornalisti, quelli bravi, che non sanno ribellarsi e farsi valere? No, accidenti. Non è questo. O meglio: certo, c’è un concorso di colpa, va bene; ma il problema nasce essenzialmente nel momento in cui si pensa che la cultura e l’informazione siano beni che sia normale ricevere gratis. Lì è il punto. Perché è vero che il mondo dell’informazione ufficiale si è progressivamente incancrenito e pure un po’ corrotto accartocciandosi sui suoi privilegi, ok, ma la soluzione definitiva ed autosufficiente difficilmente potrebbe essere quella di rivolgersi al dilettantismo, a chi fa informazione per diletto, al “giornalismo diffuso”. Oggi, oggi che il progresso tecnologico permette a tutti di essere “giornalisti” (su un blog, un magazine on line, anche solo sulla propria pagina Facebook o Twitter… così come su Instagram si è tutti fotografi), l’offerta di giornalisti-per-diletto è enorme.
Non c’è nulla di male, ad essere giornalisti-per-diletto (anche perché spesso è fra di loro che si nascondono i giornalisti “bravi” del futuro); ma nel momento in cui vi va bene tutto questo, nel momento in cui lo ritenete accettabile, sufficiente e sostenibile, trovando normale&scontato (anzi, addirittura giusto) preferire l’informazione che vi arriva gratuitamente a quella in cui dovete pagare visto che l’informazione non è un bene prezioso (portando così chi di dovere, ovvero l’editore, a preferire un giornalista-per-diletto-o-appecorato a un giornalista-professionista-che-magari-rompe-i-coglioni), sappiate che voi siete parte del problema. Anzi, ne siete il primo motore. Quindi vi lamentate del fatto che quella del giornalista non è più una figura seria e non è più una figura autorevole, e il trend effettivamente è questo; peccato però che questa succeda in primis perché si è abbandonata l’informazione a se stessa: la si è considerata cioè scontata, inevitabile, non ci pone più il problema se riesca a camminare con le proprie gambe o meno.
Il problema nasce essenzialmente nel momento in cui si pensa che la cultura e l’informazione siano beni che è normale ricevere gratis
L’informazione no, non cammina sulle proprie gambe. Così come Nike non camminerebbe sulle proprie gambe se le sue scarpe non fossero a pagamento e Apple sarebbe stata il passatempo serale dell’impiegato alle poste Steve Jobs se i suoi vari prodotti non fossero stati a pagamento. Ma un paio di scarpe o l’iPhone siete pronti a pagarli, anzi, vi sembra assurda l’idea di poterli avere gratuitamente. L’informazione no, si fa sempre più strada l’idea che sia normale sia gratis. Così la indebolite. E quando la indebolite, cosa succede? Succede che lei, per stare a galla ad un livello professionale (cosa che implica dei costi), deve “mettersi in vendita”. Affidandosi o a manodopera poco qualificata, o alle ugge dei brand e/o degli “azionisti di riferimento” di turno. Di nuovo, un circolo vizioso. Che vi permette di dire, fiutando l’aria e sapendo di rischiare poco, “I giornalisti sono il grado più basso della scala evolutiva della società”. Peccato che l’informazione in mano a chiunque indiscriminatamente possa essere ancora peggio.
Come se ne esce? Non c’è un’unica ricetta magica. Zero. Se ne esce prima di tutto iniziando a rendersi conto del problema, ragionandoci sopra, coinvolgendo più persone possibili nella discussione, a partire da quelli che sparano a zero contro i giornalisti. Sì, i giornalisti hanno le loro colpe, eccome, e non devono nasconderle sotto il tappeto; ma da un lato sono vittime di un sistema spesso più grande di loro, dall’altro le difficoltà di questo sistema sono moltiplicate proprio dalla pretesa che l’informazione sia un bene illimitato e gratuito. Un gran casino. Vogliamo aiutarli, i giornalisti seri? Vogliamo aiutare quelli che ci mettono un certo tipo di impegno e professionalità, anche quando hanno opinioni diverse dalle nostre? Vogliamo (ri)valutarne il ruolo e l’utilità? Fino a che punto stiamo confondendo i nostri gusti e le nostre personali preferenze con quello che invece oggettivamente è qualità del lavoro? Perché sempre più, ora che è inoculata in noi questa percezione (per molti versi inconscia) che il giornalismo è “in vendita”, pretendiamo che esso rassicuri le nostre certezze piuttosto che spingerci a farci delle domande che altrimenti non ci saremmo mai fatti e ad occuparci di cose di cui pensavamo di non occuparci. Pretendiamo insomma che il giornalismo sia un nostro possedimento, un nostro bambolotto personale, buono-silenzioso-ubbidiente-sorridente, che ci ripete instancabilmente che “Va tutto bene, hai ragione su tutto, chi non la vede come te e me è una testa di cazzo ignorante o in malafede”.
Tutto questo è molto pericoloso.
Tutto questo fa sì che ci siano tanti metaforici Roberto Spada, oltre al Roberto Spada vero, che possono prendere a testate giornalisti tra gli olé della gente (…perché anche fra i critici di Spada e del suo gesto, abbiamo percepito che il problema fosse più che altro che Spada fosse associabile ai fascisti, o un fascista tout court). Fa sì però anche che il giornalismo non è più un paziente lavoro d’indagine o di analisi, il cui frutto viene ascoltato, rispettato, tenuto in alta considerazione una volta che emerge, ma si guadagna il palcoscenico solo ed unicamente se riesce a provare la reazione “forte”, spettacolare, a favore di media e di meme di reazione emotiva immediata del lettore, visto che invece un serio lavoro di inchiesta, di giudizio e di cronaca è diventato irrilevante e poco valutato. In questo modo il giornalismo serio si consegna ai suoi nemici: quelli che non lo tengono (più) in alta considerazione.
Postilla:
Abbiamo mescolato piani molto diversi fra loro? Spada, le fashion blogger e la recensione di un disco? Certo. E’ che vediamo delle dinamiche ricorrenti, sempre più le stesse, solo applicate a contesti di volta in volta diversi per importanza e gravità. Da qui la scelta. Poi: abbiamo concentrato l’analisi sul “soft spot” del giornalismo, cultura e costume, come mai? Certe dinamiche, lo ripetiamo, ci sono dappertutto. Quando entra in campo la politica, gli interessi e le pressioni si fanno enormi: questo si sa, da sempre. Almeno la cronaca sociale e culturale spicciola avrebbe (avrebbe avuto?) qualche possibilità in più di essere più sana…