I recenti fatti accaduti negli Stati Uniti hanno per l’ennesima volta messo la questione razziale al centro del dibattito pubblico planetario. Al di là di quello che ciascuno di noi può pensare in merito alla vicenda, che non ritengo sia opportuno sviscerare in questa sede (questo spazio è dedicato alla musica prima di tutto), da commentatore del rap Italiano quale provo ad essere, sono rimasto molto colpito da una storia IG di Gemitaiz, in cui diceva grossomodo:
“Dite nigga di qui, nigga di là nei pezzi, poi quando c’è da esporsi sul serio nessuno dice niente”
L’uscita di Gemitaiz ha riposizionato nella mia mente un discorso mai risolto, ovvero l’utilizzo della n-word all’interno del rap italiano (non da parte di tutti, sia chiaro, ma di alcuni). E quindi vorrei provare a camminare su questo terreno scivoloso, per gettare un po’ di luce sulla questione, e capire cosa spinga autori spesso giovanissimi ad usare quella parola (che ha un valore e un peso specifico notevole) con così tanta leggerezza. Vorrei sfruttare insomma il rap come fosse il buco di una serratura attraverso cui guardare al paese intero, uscendo però dalla retorica per cui chiunque usa questo termine sia per forza un suprematista bianco.
Ma chi sono io per imbarcarmi in un discorso del genere? Sicuramente la persona meno adatta: sono un privilegiato, un ragazzo borghese di venticinque anni che viene da una famiglia benestante, che ha fatto il liceo classico, e finito l’università. Sono il prototipo della persona meno indicata per parlare di ciò, ma, dal momento che non ho letto articoli in cui si prendesse posizione in materia (se ci sono, io non li ho visti), ci provo lo stesso.
Prima di tutto però vorrei iniziare da un excursus di tipo personale. Ho avuto la fortuna di viaggiare molto negli ultimi due anni, e di lavorare per un breve periodo in Africa l’anno passato (lavoro nel vero senso del termine, non volontariato), a Lagos in Nigeria, per il Lagos Photo Festival edizione 2019. Questo mi ha permesso di vivere e confrontarmi con una realtà profondamente diversa da quella europea. Ho avuto insomma – per quanto possibile considerando il tempo di permanenza, e la posizione privilegiata che anche lì avevo, in quanto occidentale – un assaggio della vita nigeriana del 2020. Al mio ritorno in Italia, moltissime persone mi hanno chiesto cosa avessi fatto o meno, come fosse andata, eccetera. E ciclicamente tornava fuori quella maledetta parola.
Ora, mi rendo conto che la mia esperienza non possa avere un valore universale, e non pretendo ce l’abbia, ma vivo nell’Italia del 2020 e ascolto come parla la gente, soprattutto quando ci sono di mezzo gli stranieri. Tuttavia, rifiutandomi di credere che chiunque usi quella parola sia un razzista conclamato come XYZ (scegliete voi il nome del politico o avvelenatore da social che ritenete più giusto…), ho provato a cercare una spiegazione diversa.
Credo che nel nostro paese, non si sia mai affrontata la questione coloniale con serietà e quindi moltissimi non posseggono proprio gli strumenti di base, per parlare con cognizione di causa di temi legati alla black culture. Di conseguenza, non hanno idea di quello che dicono. Cosa intendo con questa frase, che non vuole giustificare nessuno, ma vuole essere un tentativo di spiegazione: per gli africani (ma non solo), le tematiche legate al colonialismo (e soprattutto ai suoi danni) sono centrali all’interno della loro discussione culturale, soprattutto in termini di riscoperta identitaria e riappropriazione delle proprie radici. Al contrario, per gli italiani tutto ciò è assolutamente secondario, perché il nostro passato da colonizzatori è fallimentare.
Questo ci ha portato ad una sottovalutazione della reale portata del periodo coloniale in sé, che per noi è chiaramente un momento storico senza troppo valore, mentre è invece centrale per una larga fetta di popolazione del mondo. Perciò, quando si parla di questioni razziali in Italia mancano proprio le fondamenta sulle quali poggiare una discussione. Da qui l’utilizzo in libertà della n-word, il cui peso sfugge alla comprensione comune delle persone, perché mancante degli strumenti di base per decodificare la realtà. Chiaramente, questo discorso non vale per tutti: non mi riferisco a razzisti conclamati che fingono di non esserlo, o che si nascondono dietro la bandiera del partito X o Y per gettare odio insensato contro lo straniero; mi riferisco invece a tutta quella fetta di persone (e in Italia non sono poche, considerando il tasso di analfabetismo funzionale) che non vedono alcuna differenza tra dire “nero” e “negro”.
Nel nostro paese non si è mai affrontata la questione coloniale con serietà, e quindi moltissimi non posseggono proprio gli strumenti di base per parlare con cognizione di causa di temi legati alla black culture
Cosa c’entra tutto ciò con il rap Italiano? Moltissimo. Il principio è il medesimo con aggravanti, perché se per l’uomo della strada una comprensione storica e sociale di tutto ciò è decisamente consigliabile, ma non obbligatoria. Nel momento in cui un giovane qualsiasi si abbevera alla fonte del rap, ha il dovere di possedere una comprensione di base del sottotesto culturale da quale esso proviene. Ripeto: è un dovere conoscere il retroterra su cui si radica il rap. Questo non vuol dire conoscere tutti gli autori del rap da Kool Herc in avanti, ma capire il senso di quello che si fa ad un livello meno semplicistico. Ogni canzone infatti, ogni disco, rappresenta un mattoncino di un immaginario più ampio, e chi ha l’onore di costruire questo immaginario, ha l’onere di rispettarne la cultura.
E questo non perché lo dico io, ma perché altrimenti si ripetono a pappagallo modelli aspirazionali, stili e modi di fare che hanno di loro una profondità storica, scalfendone però solo la superficie, risultando così ridicoli. Per un ragazzo afro americano che fa rap il valore della n-word è specifico, e si rifà alla riappropriazione di un passato schiavistico e coloniale, sul quale esercita di nuovo un controllo; per un ragazzo bianco che viene da Milano, Roma, Napoli o chicchessia, questo discorso non vale, anzi diventa la riproposizione di volgari dinamiche razziste, dalle quali la cultura hip hop in primis, e il rap di conseguenza, cerca di svincolarsi.
La superficialità nell’approccio di questi tematiche così delicate, è anche, a mio modo di vedere, uno dei motivi per cui il rap fa così fatica ad attaccarsi realmente alla cultura Italiana, al di là della moda del momento. Non riuscendo a capire il valore di determinati termini, gesti, pose, diventa impossibile una vera assimilazione da parte degli artisti, che si limitano a copiare ciò che fanno i loro colleghi d’Oltreoceano e rimangono, così, solo degli “interpreti”. Il risultato è quindi spesso parodistico, da macchietta, e in quanto tale non ha alcuna dignità agli occhi del pubblico generalista, che vede in esso solo un desiderio di essere ciò che non si è.
E questa è la punta dell’iceberg. Il discorso si potrebbe ampliare, perché se in questa sede abbiamo parlato della n-word per ragioni di attualità, non vuol dire che il discorso si limiti solo ad essa: dall’utilizzo della parola “trap”, alle armi nei video, fino all’utilizzo delle bandane sventolate come fazzoletti – quando anche esse hanno uno specifico valore culturale, soprattutto in relazione all’appartenenza alle gang, e che invece in Italia sono trattate come lenzuoli colorati – gli esempi non mancano.
Quindi vorrei chiudere il tutto facendo un appello a tutti gli Italiani che usano la n-word con leggerezza di smetterla di farlo: perché non fa ridere, non è simpatico, non è una parola come le altre, è solo un termine razzista. Ma vale pure per gli artisti che usano questo termine nelle canzoni: non fa ridere, non è simpatico, non è una parola come le altre, è solo un termine razzista.