Emi Lo Zio e il “Berlin” milanese: un legame di culto. Quartiere generale dei club Dogo, divenuto meta di pellegrinaggio per i fan del rap italiano, il “Berlin Cafè” ha ospitato la nostra chiacchierata per l’uscita di “Nato senza privilegio”, il libro di Emi Lo Zio che accoglie anche i contributi di Jake La Furia e di Deborah, sua moglie. Insieme ad Emi abbiamo messo a fuoco alcune fasi di un percorso professionale che ha trovato la sua strada sulla strada. Tra palco e realtà, Emi come pochi ha elevato a notorietà una figura fondamentale nelle crew di musicisti, figura all’inizio spesso sottovalutata o non contemplata in chi si muoveva nel mondo del rap italiano prima della grande esplosione commerciale: il tour manager. Di più: il tour manager che sale sul palco – e su questo lui può veramente mettere un trademark. “La mia presenza sul palco era nata per un’esigenza precisa, reale. Eravamo così tamarri che arrivavano sempre tamarri peggio di noi, e, per placare le risse all’interno dei locali, ero diventato il personal manager e il tour manager sul palco”. Ma non solo. Negli anni in cui le piazze erano ancora rilevanti per la scena e per il confronto, Emi Lo Zio è il testimone privilegiato di quella Milano di notte dove “I Ragazzi Dello Zoo Del Berlin”, appesi al sogno di un sound all’epoca in controtendenza, sono i protagonisti della rivoluzione che poi più ha modificato lo skyline musicale del nostro Paese. Dalle case popolari a San Siro, sempre insieme alla Dogo Gang. Tra qualche anno che cosa rimarrà di tutto questo? Rimarrà l’essere entrati nella storia di una città, aver realizzato quello che si sognava da piccoli, vivendo “…le sere più tese di Odissee e Iliadi”.
Nel 1973 Terence Hill è il protagonista del film “Il mio nome è Nessuno”. A Jack Beauregard, suo idolo d’infanzia, Nessuno propone un’impresa leggendaria: sterminare il Mucchio Selvaggio, un gruppo di fuorilegge messicani. Alla fine il protagonista porta a consacrare il suo idolo come pistolero più forte del West. Jack Beauregard può così guardare da fuori la sua fama di leggenda. Non credi di essere sia nella posizione di Nessuno che di Jack, per quello che hai fatto con i Club Dogo?
Questo è solo un film; noiabbiamo vissuto la realtà e abbiamo fatto la storia veramente! Mi sento di dire che quello che ho vissuto io e quello che io fatto io, per la musica e per i Club Dogo, è unico. Potrei scriverlo io, quel film. Potrei riscrivere questo film, ma ambientato nella vita vera. Adattato seriamente. Real.
Ancora prima dei Dogo, Jake e Guè non avevano nemmeno i soldi per stampare l’intera tiratura del disco delle Sacre Scuole. Quando ricevevano ordini via posta, andavano da soli a spedirli o addirittura a consegnarli di persona. Lo stesso accadeva per far arrivare il disco nelle cassette delle case discografiche. Qual è, secondo Emi, la differenza più grande nell’industria tra quegli anni così analogici e l’attuale epoca dei social?
Adesso è tutto molto più facile perché ci sono i social. Ti faccio un esempio: “Saluta Antonio!” è diventato famosissimo. Una volta, invece, ti dovevi spaccare il culo per emergere. Le radio snobbavano il rap e quindi dovevi già abbattere questo muro, che era durissimo. La stampa non considerava la musica rap perché era vista come musica sporca: non interessava il rap, non faceva notizia, spaventava, o semplicemente non era considerata degna. Quando ha cominciato a fare notizia? Quando le radio hanno dovuto riconoscere la potenza del nostro progetto! Da lì ha cominciato poi tutto a girarci attorno. Adesso è molto più semplice, perché i social network facilitano la pubblicazione della propria musica. Perché vedi, se torniamo a un po’ di anni fa, il “Pulcino Pio”, uscito in concomitanza con “P.E.S.” dei Club Dogo, è stata l’ennesima dimostrazione che sì, tu potevi scrivere la cosa più bella di sempre, ma poi arrivava il “Pulcino Pio” di turno a spostare completamente l’attenzione. Ora però è tutto semplice anche per noi. Infatti, guarda: i Club Dogo ritornano con un successo incredibile, Emi Lo Zio fa un libro. Il libro, se lo avessi scritto vent’anni fa, chi lo avrebbe comprato!? Non ci conosceva nessuno! Nessuno! Mentre ora, ringraziando Dio, sta andando tutto molto bene.
“Lo spirito di aggregazione che avevamo noi non lo ritrovo” come sottolinei tu nel libro “nelle crew dei rapper di oggi”. L’entusiasmo che portavate in giro valeva veramente più dell’hype?
Assolutamente sì! Qui al Berlin, dove stiamo parlando, conta che era la nostra prima casa. Per seconda casa, c’era la nostra casa vera. Ma solo come seconda. Qui noi arrivavamo e c’erano tutti i giorni, 7 su 7, almeno venti persone della Dogo Gang e 300/400 che venivano fisse. A livello personale tutto questo era molto più soddisfacente che vedere i rapper di oggi fare le finte sfide, i finti dissing e far vedere chi ha più soldi… Qua noi non avevamo un cazzo! Qua al Berlin c’era la gente che aveva il conto, come si faceva cinquant’anni fa: c’era il libretto dei conti dove Teo del Berlin segnava ad ognuno che cosa prendeva, e ogni tot doveva anche richiamarli per farsi dare i soldi. Poi la gente si indigna quando legge delle rapine… Ci credo! Tutti i giorni si mettono l’orologio da 50 pali! C’è una costante ricerca dell’ostentazione, ma in Italia c’è la fame. Quelli che non hanno niente vanno a rapinare. Perché c’è la fame! Quello che i ragazzi di oggi vedono sui social è tutto finto. Io conosco un sacco di rapper che hanno i soldi; ma non fanno così, non vanno in giro ad ostentare. Ostentare è un’azione che mi ha sempre dato parecchio fastidio. Non ostentare perché in Italia c’è la fame!
“Ho mancato solo un concerto in vita mia, nel giugno del 2006 quando è mancata mia mamma. Per il resto sono sempre stato con loro perché erano, e sono, i miei fratelli”. Qual è il più grande insegnamento che ti hanno lasciato i tuoi genitori?
L’insegnamento più grande che mi hanno lasciato i miei genitori è quello di non mollare mai. Non arrendersi mai, e cercare di raggiungere gli obiettivi che ti sei prefissato. Nella mia vita sono sempre stato ambizioso, ho sempre voluto arrivare ovunque. Qualsiasi cosa abbia fatto, l’ho fatta per arrivare sempre più in alto. Ti faccio un esempio: nel 2019 sono entrato a lavorare in Amazon come responsabile della flotta e adesso, invece, sono responsabile dell’intera regione Lombardia. Non mi sono mai fermato davanti a niente e questo è l’insegnamento che mi hanno lasciato mia mamma e mio papà.
Hai raccontato spesso di aver imparato tutto rubando con gli occhi. Non solo imparato, anche innovato: “Con i Dogo ci siamo inventati una cosa che poi hanno copiato tanti altri: il tour manager sul palco”, che prima di te non faceva nessuno. Avresti mai creduto che la tua figura sarebbe stata così dirompente e sei soddisfatto dell’impronta che hai lasciato?
Sì, sono soddisfatto dell’impronta che ho lasciato. La mia presenza sul palco era nata per un’esigenza, concreta, non per sfizio. Eravamo così tamarri che arrivano sempre tamarri peggio di noi e, per placare le risse all’interno dei locali, ero diventato il personal manager e il tour manager sul palco. Comunque sì, hai ragione: mi sento di dire che l’ho inventata io questa cosa! Poi negli anni ho lasciato il testimone a tanti altri e adesso lo fanno tutti. È diventata una moda. E posso aggiungere di aver lanciato tanti di loro.
(Emi, a guidare il Club Dogo; continua sotto)
I cellulari e internet sono arrivati quando eravate ragazzi e così siete riusciti a vedere il mondo cambiare. Nel frattempo hai visto scomparire le piazze, simbolo di una società sempre presente nei testi dei Club Dogo. Quanto manca oggi la piazza vissuta in quel modo e perché aveva meno paura del confronto?
Eh sì, manca tanto. Le piazze avevano meno paura del confronto perché non sapevano cosa poteva succedere. Il massimo che c’era per me… era la piazza! La piazza e il gruppo. C’erano piazze che contavano 200/300 persone al giorno. Tu sapevi che dalle 15 alle 19 trovavi gente. Altrimenti andavi a trovare a casa i ragazzi o citofonavi. Non c’erano altri modi per comunicare. Zero. Ora non sento che mi manca la piazza, perché comunque ho 44 anni e 4 figli: non avrei nemmeno il tempo di andare in piazza. Però vedo le nuove generazioni veramente lobotomizzate. Fanno tutto virtuale. Soprattutto non c’è contatto fisico, e questa cosa è gravissima. Ci sono ragazzi di 18/19 anni che dicono che la loro vita è già finita perché hanno già provato tutto: ti rendi conto? Si scrivono, diventano amici e si lasciano sui social…“Mi ha tolto l’amicizia!” e magari non si sono manco visti di persona! Ti racconto un episodio che mi ha fatto rimanere male. In occasione della cresima di mio figlio Francesco, il prete disse questa cosa: “Ragazzi fate un gruppo Whatsapp della chiesa”. Cioè mi ha indotto a dipendere da un telefono, capisci? Siamo arrivati a queste dinamiche! Siamo arrivati ad avere preti tiktoker. È finita. Ci sono anche le maestre tiktoker. Ecco, i ragazzi oggi non possono manco dire “Rimpiango quando non c’era Tik Tok”, perché non c’erano, visto che sono nati con il telefono in mano. Questa è una cosa che mi fa male, perché le nuove generazioni non sanno cosa si stanno perdendo . Quello che abbiamo fatto noi non lo faranno neanche in due vite. Purtroppo questa è la realtà.
Nel libro citi “I guerrieri della notte” per il senso di comunità e di compagnia vera che generava nonostante gli atti di violenza. Quali film, oltre a quello, ti hanno ispirato maggiormente?
Guarda, sono solo film brutti: “Arancia Meccanica”, “Scarface”, “King of New York”, “La storia infinita”. Però devo dirti che i film di Natale mi piacevano molto. Sono vittima del cinema italiano anni ’60 e ’70 e tutt’ora me li vado spesso a rivedere. Fantozzi e Lino Banfi su tutti. Proprio prima di vederci per questa intervista a casa stavo riguardando su Netflix “Al bar dello sport”. Devo dire che questi film qui mi rilassano tanto.
Nel 2006 caso volle che prendesti in affitto una casa a Napoli e da lì, racconti, passarono tutti, anche i Co’ Sang. Dici: “Quello evidentemente era il mio destino. Far gravitare le persone intorno a me, creare famiglie. E chissà che non sia stato un dono di mia mamma”. Come ti è arrivata questa cultura del darsi agli altri?
Mia madre è sempre stata una donna generosa. Ha sempre cercato di aiutare il prossimo. Noi abbiamo vissuto in case di ringhiera e qui tutti aiutavano tutti. Il senso di darsi agli altri l’ho preso da lì. Non mi faccio e non mi sono mai fatto fregare dal primo che passa, ma se posso ti do anche il mio cuore. Tanto che ho fatto con Genny dell’Area 51 a Rozzano questa associazione per aiutare le persone in difficoltà. A me, vedere la gente che sta bene, che impara a stare bene, fa sempre piacere. Devo dirti che nella vita, anche se ne ho passate di tutti i colori, ho sempre aiutato chi aveva più bisogno di me.
Nel backstage dei Wind Award incontrasti Lucio Dalla. La sua visione ti lasciò senza parole, tanto che non riuscisti a chiedere nemmeno una foto. Perché questa emozione così forte? C’è una sua canzone a cui sei particolarmente legato?
A me Lucio Dalla e Pino Daniele hanno quasi folgorato. Ho avuto la fortuna di incontrarli tutti e due e Lucio Dalla mi ha fatto emozionare perché non mi aspettavo di incrociarlo. Ero al bar con Biagio Antonacci e ad un certo punto mi sono girato e ho visto Lucio Dalla. Un’emozione indescrivibile. Per me lui è stato un grandissimo cantautore, mi sono imbarazzato e non sono riuscito a proferire parola. Mi piace tutta la sua discografia, non mi sento di indicarti un brano preciso.
Del concerto a San Siro dici che la possibilità di mostrare ai tuoi figli che cosa fosse un concerto dei Dogo è stata impagabile. Tua moglie scrive nel libro che hai sempre messo gli altri prima di te stesso. Quanto è stato difficile nel 2019 lasciare il mondo della musica, e come vivi oggi lo scorrere del tempo?
Devo dire che mi è stato veramente poco difficile, perché da una parte è stata una scelta obbligata e dall’altra era finito il mio percorso nella musica. Ormai avevo già fatto tutto. Non avevo più niente da dire e niente da dimostrare a nessuno. Oggi la vedo come una cosa che mi compare spesso su Instagram e mi fa piacere. Sto bene dove sto, ho un lavoro che mi appaga e una famiglia, fortunatamente, senza problemi di salute. Questa è la cosa più importante. Tutto quello che ho fatto nella vita l’ho fatto come conseguenza delle mie scelte. Sono contento di aver potuto scrivere questo libro che sta avendo un sacco di successo. Era una storia che doveva essere raccontata e ti dico, in esclusiva, che non è finita! Eh no, questa è solamente una parte della storia… Ci saranno modo e tempo per scrivere un altro libro. Comunque vedere i miei figli felici è una sensazione impagabile.