Questa intervista è un romanzo. Lo è per lunghezza. Lo è per struttura narrativa. Lo è per come, partendo da fatti puramente biografici (e quindi narrativi), permette di allargare via via l’obiettivo su tutta una serie di considerazioni varie&vaste, dando vita ad una autobiografia ed (auto)analisi – anche dietro le quinte – non solo personale ma anche di certe dinamiche della scena della club culture italiana più colta e “gillespetersoniana”, così come delle imprese culturali in genere. Tutto questo facendo scorrere le parole di Khalab, alias Raffaele Costantino. Ex commesso in un negozio di dischi. Ex giornalista. Ex organizzatore di festival. Speaker radiofonico. Persone che si è inventata artista quasi dal nulla (per caso o, come potete leggere, per ansia e dolore), arrivando ad essere a sorpresa uno dei pochissimissimi italiani portati in un palmo di mano da entità sacre come BBC e The Wire, giusto per citarne un paio. E’ un romanzo lungo quasi trent’anni: con momenti belli, crolli e colpi di scena. Mettetevi comodi.
Allora. Partiamo dall’inizio. Da quando ci siamo conosciuti. Dai tuoi articoli sul defunto mensile musicale Rockstar. Che ricordi ti affiorano?
C’era tanta, tanta improvvisazione… (sorride, NdI) Non so se capita anche a te: io ho sempre convissuto con un’idea di inadeguatezza, sai? Mi sono sempre fondamentalmente sentito inadeguato rispetto a quello che faccio, sempre col terrore che arrivasse qualcuno a dirmi “Sei un genio o un fake? No, mi sa che sei un fake”, con io per primo a dargli ragione. Hai presente, vero? La consolazione era che il 90% delle persone che mi circondavano erano comunque dei fake pure loro (risate, NdI)… Ad ogni modo: ad un certo punto, ancora da ragazzo, avevo deciso che nella vita volevo occuparmi di musica, punto. Sono andato via dalla mia città di nascita, un paesino di 4000 abitanti in Calabria. Dove tra i 16 e i 18 anni avevo addirittura aperto un club – un garage in una casa ancora in costruzione di proprietà dei miei. Però ad un certo punto mi sono detto: “No, basta, vado a Roma, perché mi voglio occupare di musica”. C’era già mia sorella che lavorava e studiava a Roma; e diciamo che il caso ha voluto che il compagno di lei fosse proprietario di un negozio di dischi. Quindi ecco, tutto è iniziato con dei turni da aiutante nei periodi “caldi”, vedi Natale. “Ma lo sai che tuo fratello ci piglia? Perché non lo facciamo venire qua a lavorare part time in modo continuativo?”. Ed è così che, per mantenermi agli studi, ho iniziato a lavorare da lui. E’ stata la mia grande fortuna, quella, fin da subito: mi sono ritrovato a lavorare nel reparto di musica specializzata, quello che si occupava di jazz, Africa, elettronica, musica nera, hip hop, soul world…
…tutto quello che insomma non era pop e rock. Già. All’epoca si faceva così. Tutto in un unico calderone.
Infatti era la sala nel retro!
Quella tipo dove si vendono le videocassette a luci rosse!
(risate, NdI) Bravo, perfetto! Comunque: è lì che ho iniziato ad allenare la mia attitudine alla divulgazione musicale. Le persone arrivavano in quella saletta, si sedevano, io gli aprivo i cd, davo loro il telecomando e, mentre ascoltavano, aggiungevo qualche spiegazione a voce su quello che stavano ascoltando. Era meraviglioso vedere che, al termine di queste sessioni, la gente andava via con un sacco di dischi sotto braccio, tutta convinta! Ma la cosa migliore di tutto ciò è che proprio grazie a questo lavoro ho conosciuto Riccardo Petitti: sì, perché il responsabile di quel reparto era lui, all’inizio. Poi lo sono diventato io, perché Riccardo tra l’avventura di Agatha al Brancaleone e poi anche il suo lavoro di regista radiofonico in Rai aveva ovviamente mollato il colpo. Ma all’inizio lui ha fatto tantissimo per me, e non solo dentro il negozio: per dire, ha iniziato a portarmi con sé quando andava a fare i programmi a Radio Città Futura. Ad ogni modo, inutile spiegare che persona incredibile sia stato; di sicuro, è una delle due, tre persone nella mia vita che io devo, semplicemente, ringraziare per sempre. Comunque, torniamo a Roma, al lavoro in negozio: lì ho iniziato a capire che forse potevo davvero occuparmi di musica nella vita e quale era il passo successivo inevitabile e più facile? Scrivere di musica, ovvio. A differenza di oggi, allora farlo era forse meno facile – c’era meno output, c’era solo la carta stampata con le riviste specializzate – ma se ci riuscivi poi ottenevi molta più visibilità.
Anche perché l’informazione musica era fruita forse con più attenzione, più profondità, al di là del fatto che all’epoca i giornali si vendevano e oggi no.
Compravi un giornale e, insomma, sapevi che dovevi fartelo durare un mese, pochi cazzi: quindi lo studiavi, lo approfondivi. A Rockstar sono entrato in maniera abbastanza fortuita, perché conoscevo di persona il direttore di allora, Jean-Marc Caimi, che oggi peraltro è diventato un fotografo quotatissimo (siamo anche andati insieme recentemente in Mauritania per viaggio/reportage). Insomma, entro in Rockstar; inizio a scrivere. Facevo recensioni: ma mi sono quasi subito reso conto che non era il mio. Non potevo scrivere di musica. Per due motivi. Uno: non so scrivere. Due: c’era comunque la necessità di essere diplomatici. E’ difficile scrivere una recensione negativa, sai. Sì, lo puoi fare, ma devi essere o il grande critico musicale che parla lui e tutti zitti, oppure avere tre pagine di spazio per poter argomentare in modo convincente – e io avevo poche righe per disco, mica tre pagine. Insomma, molto presto non mi ci sono ritrovato, nel giornalismo musicale, e ho mollato il colpo.
(continua sotto)
Aspetta. Credo però che già in quel periodo ti sentissi parte di una piccola lotta partigiana per far conoscere un determinato tipo di musica in Italia – quel territorio tra elettronica, hip hop strumentale, musica da dancefloor atipica e ricercata… Ci si sentiva un po’ dei piccoli guerriglieri culturali. Per me almeno era così.
Per me agli inizi no. Ma non per altro: perché già tutto così preso dalla mia battaglia personale, per pensare a quelle più generali. Arrivavo da un paesino, ero nella “grande città”: già rimanere a galla era complicato, figurati riuscire ad emergere, arrivando ad avere una visione complessiva. Perché come ben sai, o riesci ad emergere o resti in quell’eterno limbo di appassionati che si occupano di musica per hobby – in modo magari accanito, ma comunque a tempo perso. In Italia era già una sfida pazzesca pensare di poter vivere solo di musica. Comunque, ecco: ad un certo punto inizio piano piano a proporre delle serate…
Ma di questo ti parlavo, questo un po’ intendevo: perché le serate che organizzavi tu proponevano una scelta musicale che era, sotto molti punti di vista, una scelta di “resistenza culturale”. Quello che proponevi aveva un grado di popolarità e diffusione decisamente basso.
Vero.
Che poi c’era stato anche il momento in cui il trip hop è andato per la maggiore, rendendo improvvisamente popolare l’abstract hip hop, ma poi la moda si è sgonfiata e l’abstract hip hop è diventato – o tornato ad essere – qualcosa che interessava a, beh, cinque sfigati.
Perfetto, proprio così. C’è da dire una cosa: essendo io arrivato come background dalla musica nera, facevo comunque fatica a staccarmi da lì. Che poi, paradossalmente, a Londra continuava ad essere super hype come indirizzo musicale. Ad ogni modo, l’estate che facevamo alla Palma, nel weekend, aveva delle residenze di enorme spessore il sabato… la Ninja Tune, la Compost… e avevamo ospiti tipo Amon Tobin, Jazzanova, anche Groove Armada – all’epoca non così baciati dal successo. Il venerdì eravamo invece un po’ più di nicchia, meno “pop” relativamente ai canoni del genere: facevamo quelle cose che oggi, diciamo, finirebbero nel folder “La Nuova Rinascista Del Jazz Inglese”…
…o cose alla Flying Lotus.
Esatto. Io come attitudine musicale sono sempre stato un beatmaker. Per me sono i grandi beatmaker quelli che hanno rivoluzionato davvero le cose, nell’ultimo ventennio. L’ho sempre detto, l’ho scritto: Flying Lotus, Madlib, Prefuse 73, tutta la scena di Los Angeles. Io poi sono sempre stato appassionato di hip hop, fin da piccolo. Però occhio, non ho mai ascoltato l’hip hop italiano. Mai! Lo vedevo come un surrogato. Oggi magari sono un po’ più possibilista, ma… non più di tanto. All’epoca, sia come sia, l’idea era questa: il rap in Italia era un po’ come i ristoranti cinesi in Italia. Che dicono di cucinare cinese; ma tu in realtà sai bene che se vai in Cina trovi dei gusti completamente diversi. Venendo però all’hip hop anche americano, quello dove c’erano degli mc strepitosi che ti dicevano cose pazzesche con un flow della madonna e che invece mi aveva conquistato, pure lì ad un certo punto ho iniziato tuttavia a percepire un senso di pesantezza, di inutilità. O meglio: più crescevo, più mi dava fastidio che ci fosse qualcuno che a parole mi dicesse cosa dovevo fare e cosa dovevo pensare, e quali parole era meglio che scegliessi, tutto questo in un modo spesso così chiaro, ostentato ed esplicito da diventare quasi didascalico. E’ lì che ho iniziato ad avvicinarmi veramente all’abstract hip hop, all’hip hop strumentale. Lì non parla nessuno. Ancora oggi mi porto dietro questa cosa dello scarso entusiasmo verso l’aspetto testuale, parlato o cantato, è anche per questo che ascolto poco pop e poco rock. Sai, quando hai sedici anni e ascolti il rocker di turno con la chitarra in mano che ti dice, anzi, ti urla quanto devi spaccare il mondo perché il mondo è dei cattivi, la cosa ti fomenta; dai ventincinque in poi, inizi a dire “Vabbé ragazzi, dai, s’è fatta una certa…” (risate, NdI). Sia chiaro, non è che non ascoltassi più i rapper. Quelli conscious o comunque strani e creativi li ascoltavo ancora, MF Doom, Madlib, ma abbastanza presto virai deciso su cose più astratte e strumentali, in campo hip hop. Prefuse 73, per dire. O Dimlite. Ecco, Dimlite: l’ho sempre trovato un artista incredibilmente sottovalutato, per me è un genio.
D’accordissimo.
Vero? Lo trovi anche tu?
Assolutamente.
Insomma, l’abstract hip hop era la musica perfetta per me. La proponevo a Roma alla Palma, al Rialto, ogni tanto anche al Brancaleone…
…anche al Circolo Degli Artisti.
Sì, lì facevamo la serata Kick It!. E’ la serata in cui la prima volta provai a chiamare Flying Lotus a suonare: una delle tantissime volte in cui diede buca.
Lui è un paccaro seriale.
Però mi scrisse una mail lui personalmente, “Guardate, mi dispiace davvero molto non poter venire, scusate!, però sappiate che mando al posto mio un amico mio e, insomma, lui è veramente figo. Fidatevi”. Era Gaslamp Killer. Che dopo averlo sentito suonare, beh, ero io che volevo scrivere a Flying Lotus per dirgli “GRAZIE per non essere venuto, perché in questo modo ho scoperto un artista incredibile che non conoscevo!”. Altra volta in cui chiamai Flying Lotus, e lì per una volta non diede pacco, fu Dissonanze, perché ero consulente di Giorgio Mortari per quanto riguarda il palco sulla Terrazza del Palazzo dei Congressi, “Giorgio, fidati, facciamo una serata incentrata su Low End Theory”. Io e Fly Lo parlammo molto quella volta lì; la prima mezzo’ora in maniera molto interessante e lucida ma poi… beh, poi lui si è preso qualcosa ed era, come dire?, da un’altra parte (risate, NdI). Lui comunque è un genio: e può fare quello che vuole. Credo che lui sia veramente uno dei più grandi rivoluzionari in musica degli ultimi decenni: ha cambiato davvero le regole del gioco. Per me c’è un prima di Flying Lotus, e un dopo Flying Lotus. Almeno nella musica che piace a me: quella black che si contamina con l’elettronica.
Guarda, io penso che lui abbia portato a vette altissime ed inedite un discorso che comunque era già iniziato qualche anno prima.
Vero. Però comunque – e ne parlavo un po’ di tempo fa con Lefto – è che la scuola tipo Madlib e suoi accoliti sì, era molto creativa sui campionamenti e sul modo di tagliarli, ma appunto, era tutto basato su quelli, su materiale già esistente. Fly Lo invece ha preso le macchine e ha iniziato ad usarle come se fossero degli strumenti jazz per creare il suono del futuro, non per riprodurre il jazz già esistente in passato, per quanto modificato e contaminato con l’hip. Sì, ha davvero cambiato le regole del gioco.
E’ incredibile come nella mia vita ci sia sempre una prima fase di grande entusiasmo e poi, piano piano, arrivano disillusione e depressione – perché guarda, in fondo sono un depresso cronico
Fra tutte le serate che hai organizzato, quel è quella che ricordi con più piacere? E quale invece avrebbe meritato più pubblico?
Su quelle che avrebbero meritato più pubblico, beh, ne potrei nominare a centinaia! (risate, NdI) Kill The Vultures al Circolo Degli Artisti, ad esempio, oppure le serate del venerdì alla Palma: in uno spazio da 800 persone spesso c’erano a malapena 200 persone. Anche con gruppi eccezionali, tipo 2 Banks Of 4; oppure con gente eccezionale tipo Inverse Cinematics, che questo nome oggi – come forse allora – non dice nulla a quasi nessuno ma dietro questo moniker si nascondeva Danilo Plessow, ovvero Motor City Drum Ensemble. Bene: lui venne a suonare alla Palma, e per lui ci furono 200 persone, ad esser buoni. Fece un set fantastico, tra l’altro. Momenti belli? Una serata che mi ricordo tantissimo fu quella con Amon Tobin, alla Palma. Suonavo in apertura, ovviamente, e la sala si era riempita molto presto, c’era grande attesa. Ad un certo punto, mentre suono, vedo che il pubblico inizia a fomentarsi tantissimo. Non capisco perché: sì, stavo suonando bene, ok ma insomma, nulla di particolarmente diverso rispetto al solito… Fino a quando sento provenire dei suoni che, oh, non erano miei, non li stavo lanciando io col mio giradischi. Eh? Che cazzo sta succedendo? Non mi ero accorto che Amon Tobin era già salito sul palco, e aveva iniziato a jammare su quello che stavo facendo io coi giradischi… All’epoca si usavano i giradischi, esatto, e pure tanti: non so quanti ce n’erano in console in quel momento fra me e lui, forse sette, otto. Potevi fare di tutto già all’epoca, insomma, per quanto in modo più grezzo, se eri un minimo aperto e creativo. Siamo andati avanti in modalità jam per un po’, fino a quando non gli ho lasciato tutta la ribalta. E’ stata una bellissima soddisfazione e, mi ricordo, ero tutto gasato. Tempi diversi. Oggi se mi dicono che devo fare il set d’apertura a qualcuno penso “Che due coglioni, io non voglio aprire a qualcuno, io voglio farmi la serata e chiuderla”. Ma non per spocchia, eh, credimi. E’ che ho perso il tipo di fascinazione per cui suonare prima di questo o quello era ed è qualcosa di magico. E all’epoca suonare prima di Amon Tobin era qualcosa di magico davvero, per me. All’epoca. E’ curioso, poi: in quegli anni la stella era lui, per gli appassionati di Ninja Tune, mentre Bonobo era il giovane sfigato che sì, era volenteroso, si impegnava, ma cosa c’entrava lui con gli altri della label che erano dei geni veri. Poi piano piano diciamo che i geni sono andati a fare altro, ad esplorare altri territori musicali, e quasi per forza d’inerzia chi era giù si è ritrovato al vertice… Comunque: stiamo arrivando ad un altro momento di svolta, per me, dopo il primo in cui mi sono reso conto che non era tagliato per fare il giornalista. Ad un certo punto ho capito che non era nemmeno il caso di unire troppe figure in un’unica persona: dj resident, direttore artistico, organizzatore della serata, tutto in uno – cioè me. Quando in realtà sono tre cose molto diverse. Non ho mai voluto e non ho mai accettato di fare sia il direttore artistico che l’organizzatore di una serata, ho sempre voluto che le due cose fossero separate; invece, sono caduto nella tentazione di fare sia il direttore artistico che il dj resident: è che per me era un “chiudere il cerchio”. Invitavi un artista, lo accoglievi tu, suonavi prima di lui per scaldare il pubblico e predisporlo nel modo migliore, se necessario suonavi dopo di lui per far “scendere” la serata. Oggi però non lo farei più. Ho capito che una persona deve fare una cosa alla volta: quella e solo quella. Ad ogni modo, chiusa l’esperienza alla Palma Flavio Severini andò a lavorare all’Auditorium – Parco Della Musica, e mi chiese di fare un salto lì, per fare due chiacchiere con l’amministratore delegato, Carlo Fuortes. Per poi chiedermi entrambi di preparare un progetto per fare qualcosa, lì all’Auditorium, legato alla musica elettronica.
Oh, eri arrivato nel salotto buono.
Eccome.
Te ne rendevi conto già allora?
Assolutamente sì. Un passaggio che era arrivato tra l’altro proprio nel momento giusto: non volevo più organizzare serate nei club come ti dicevo, era un lavoro che comunque non volevo fare più. Quindi, quando è arrivata la chiamata di quello che era un po’ il Ministero della Musica in Italia per mezzi, rilevanza e influenza, con l’amministratore delegato che era già allora uno dei manager culturali più importanti d’Europa, uno che aveva risanato il Petruzzelli di Bari e che oggi è a capo del Teatro dell’Opera, insomma quando questo è successo è stato assolutamente perfetto; anche perché nel giro di tre anni sono diventato proprio suo consulente, per il settore appunto delle musiche elettroniche. Tu, tempo fa, hai scritto un articolo sui festival dove ne hai citati molti presenti e passati, va bene, ma hai saltato MIT: secondo me sbagliando. Perché quel festival lì è stato uno snodo cruciale, invece. Per la prima volta il pubblico del clubbing è stato portato in un luogo così “istituazionale” come l’Auditorium – Parco Della Musica. E’ la prima volta che abbiamo potuto dire “Vedete, non siamo delle bestie, potete portarci in un luogo raffinato e prestigioso come questo, possiamo essere anche in tre, quattro mile eppure andando via non è che vi lasciamo tutto in macerie”. Attenzione, ci siamo arrivati per gradi: prima abbiamo fatto tre anni di vero e proprio laboratorio. Il punto è stato evitare di farsi ingolosire dal budget praticamente illimitato a disposizione per fare immediatamente, se solo lo si voleva, qualcosa di grande. Prima abbiamo preso una delle sale minori dell’Auditorium, la Sala Studio, e l’abbiamo trasformata in un vero e proprio club, con il bancone bar, le luci, le proiezioni… E questa credimi era un’autentica eresia all’epoca, per l’Auditorium: pensare di far consumare delle bevande mentre la musica è in esecuzione, addirittura di venderle dentro la sala! Per loro era una rivoluzione culturale. Manco facile da mandar giù. Ogni quindici giorni facevamo nomi tipo Carl Craig, Apparat, con orari che andavano dalle 21 alle 24: sì, esatto, a mezzanotte tutti via. E facevamo sold out in prevendita, 400 biglietti già venduti prima ancora che si aprissero le porte della sala. Comunque non ho fatto tutto da solo. Giorgio Mortari, il compianto fondatore di Dissonanze, per me è stato fondamentale. Negli ultimi anni del suo festival io ho iniziato a fare un certo tipo di lavoro – che in realtà facevo già un po’ sottobanco prima, eravamo amici da tempo – anche contando sul fatto che si era strutturata Snob, l’agenzia di produzione che avevo aperto assieme al mio socio Marcello Giannangeli, che conosci bene. Marcello per Dissonanze si occupava della produzione esecutiva negli appuntamenti all’Ara Pacis, io mi occupavo assieme a Giorgio della programmazione sulla Terrazza… che infatti ad un certo punto è diventata molto più black, come sonorità. Per i confronti avuti con me, ma immagino anche con altre persone – sicuramente anche con te, ad esempio. E’ così che sono arrivati in line up personaggi come Gil Scott-Heron, Madlib, Ivan Mamao degli Azymuth: non appartenevano al background di Giorgio, ma la sua curiosità e sensibilità intellettuale erano enormi e gli faceva comunque piacere avere accanto chi potesse guidarlo meglio anche in quei territori lì, che lo affascinavano. Quando all’Auditorium mi hanno chiesto di far diventare MIT, la serie di appuntamenti di cui raccontavo, un vero e proprio festival, sono andato da Giorgio e gli ho detto “Io senza di te un festival non lo potrò mai fare, ho bisogno di te e del tuo aiuto”. Infatti, confermo: non ci fosse stato il suo aiuto non sarei riuscito a fare nulla. Abbiamo fatto cose enormi, incrociando il marchio MIT e quello Dissonanze. A partire da Stockhausen, che è diventato l’ultimo appuntamento di MIT quando era ancora una rassegna e la preview del Dissonanze che sarebbe iniziato da lì a qualche settimana. Lì ovviamente il fare Stockhausen in quel contesto era tutto merito del suo genio: io mi sono limitato a dire “Uh… sì”. Oltre a lui, comunque, ci sono state tante altre persone che mi hanno aiutato tantissimo: penso ad esempio a Pietro Fuccio, che con Dna Concerti ci ha dato un supporto enorme. MIT era quel tipo di festival dove nel foyer dell’Auditorium potevi sentir suonare Theo Parrish o Dam Funk o Four Tet, all’epoca ben lontani dall’essere headliner, mentre nelle sale c’erano omaggi ai Velvet Underground, i Primal Scream, i Mercury Rev, i Lamb, Squarepusher…
Perché in questo nostro paese, se ti occupi di musica e vuoi – come naturale – fare ad un certo punto un benedetto salto di carriera per non fare più la vita che facevi a vent’anni, o ti butti sul pop o è… difficile. Molto difficile
Squarepusher non fu una cosa semplice.
Già. Successe un casino. Quell’anno avevamo in ballo un progetto molto bello all’interno di un festival che di suo poteva contare su gran bel budget, diciamo oggi alla Club To Club. Come main sponsor c’era TIM, e insieme avevamo studiato un’operazione molto particolare per cui, attraverso una serie di telecamere, potevi seguire tutto il festival in diretta in remoto, palco per palco, decidendo tu quando due cose erano in contemporanea quali guardare: se pensi che è una cosa di sei anni è abbastanza rivoluzionario, no? Fatto sta che tutti gli artisti firmarono una liberatoria per dare l’ok alle riprese, ma Squarepusher no. Quelli di TIM decisero però di riprenderlo lo stesso fregandosene e, beh… venne fuori un casino. Il suo manager si inferocì: anche giustamente, eh. Poi la cosa dopo un po’ si risolse nel più classico dei modi – dando dei soldi extra. Ma quell’edizione e il suo stress furono per me un punto di svolta. Perché in realtà già avevo iniziato a lavorare alla campagna elettorale di Nicola Zingaretti, candidato alla presidenza della Regione Lazio.
Con quali ruoli?
Con Snob, facevamo da consulenza e produzione esecutiva su merchandising, gadgetistica varia, comunicazione; e io ero referente nel suo comitato elettorale, ovviamente per la parte cultura più legata alla musica. Per dire, ho anche partecipato a buttare giù una parte del suo programma elettorale, quella più legata chiaramente alle cose di mia competenza. Quando alla fine vinse quelle elezioni, Zingaretti mi chiamò in ufficio e mi disse: “Ok, fammi capire: che facciamo adesso? Come facciamo per mettere in atto in maniera incisiva ed interessante ciò di cui abbiamo parlato durante la campagna elettorale? Vuoi che investiamo sui festival? Ne facciamo uno molto grande e di risonanze europea?”. In quel periodo mi confrontavo molto sull’idea di festival con Giorgio, anche lui su Dissonanze non era del tutto convinto. Ad ogni modo: a Zingaretti dissi “Vorrei smetterla di piazzare persone su un palco. Non che la cosa in sé non sia valida, ma diciamo che a me non interessa più”. Facendolo, lo scegliere chi mettere su un palco, sono arrivato dal nulla fino all’Auditorium; ma lì per lì gli ho detto “Investiamo in alto. Investiamo nell’ordinario, non nello straordinario”. E’ così che sono nati progetti come This Is Rome, una mappatura della creatività e del clubbing nella capitale, e varie cose al Macro, al MAXXI. Perché vedi, io ho sempre avuto questa idea di portare nei luoghi della cultura più alta ed istituzionale il “nostro” ambiente. Per un sacco di tempo questa è stata la mia battaglia principale. Avendo ormai dei rapporti piuttosto consolidati con le istituzioni ad un certo livello, si è potuto ad un certo punto avviare un discorso di questo tipo. Quelli del MAXXI, per dire, rimasero fomentatissimi; tant’è che poi quando venne Spring Attitude a parlarci, loro erano già molto ben disposti e infatti Spring Attitude lì ha fatto delle cose meravigliose, in questi anni. Però ecco, è incredibile come nella mia vita ci sia sempre una prima fase di grande entusiasmo e poi, piano piano, arrivano disillusione e depressione – perché guarda, in fondo sono un depresso cronico. Ad un certo punto ho iniziato a dire “Fermi tutti, forse stiamo facendo un errore. Forse stiamo tradendo proprio la musica che più amiamo, portandola in certi contesti che non sono nati per ospitarla. La nostra musica va fruita nei club. Non nei musei. Dove si sente malissimo”. Che poi, osservando anche il tutto con più disincanto, il fatto che le istituzioni culturali avessero bisogno di noi per “portare i giovani ai musei” era un modo per sancire il loro più totale fallimento in quella che è, per i musei, una missione fondamentale. Loro devono portare l’arte alle persone presentandola nella maniera più affascinante e coinvolgente: ok, ultimamente succede più spesso, ma si continua a fare abbastanza fatica sotto questo punto di vista. E quindi cosa devi fare, per smuovere le acque? Trasformare un museo in una discoteca? No, non va bene. In più, altro effetto collaterale, portando la “nostra” musica nei musei stiamo implicitamente giustificando delle politiche amministrative che investono tutto nei musei suddetti, abbandonando invece completamente i luoghi dove la musica nasce e si consuma davvero. Ho iniziato insomma di nuovo a rivoluzionare la mia vita, il mio lavoro. Pieno piano il tutto ha preso forma: ho capito che era il momento di mettere a disposizione i miei dieci, quindici anni di cose entusiasmanti, fallimenti deprimenti, avventure interessanti diventando diciamo un advisor per festival, brand, eventi, istituzioni a trecentosessanta gradi. Musica sì, ma anche moda ed abbigliamento – vedi le collaborazioni con Slam Jam, Carhartt, Nike. Tutto si è mescolato, insomma. E mi ha fatto capire una cosa ben precisa: non voglio più organizzare nulla in prima persona. Perché quando lo faccio, smetto di essere lucido. Quando invece faccio da advisor, posso invece concentrarmi sulle idee, senza essere “disturbato” dai vari aspetti pratici delle cose.
Eh, così lavori leggero, senza paura: niente responsabilità pratiche, organizzative o finanziarie che siano.
Appunto. E questo è l’unico modo per sperimentare davvero, a livello di idee. Poi ok, magari tu pensi qualcosa e poi te la bocciano, perché irrealizzabile: pazienza. Ma intanto aver ragionato su idee pazzesche è qualcosa che comunque ti ha fatto del bene, a te personalmente. Devo dire che su questo una mano grandissima mi arriva da uno dei miei “partner in crime” preferiti, Marco Klefisch. Con lui il concetto di “free form”, di voli pindarici, di teoria, arriva a livelli veramente alti! Ed è una cosa che mi tengo molto stretta. Ad ogni modo: preso atto di tutto questo, ho deciso di chiudere sia MIT che Snob. Via tutto, via ciò che riguardava la mia parte imprenditoriale, per fare il definitivo salto della barricata e finire tra le fila degli artisti. Chiaro: mantenevo il livello teorico appunto come advisor, come consulente; ma per il resto iniziavo a dedicarmi a tempo pieno ad arte e creatività. A questo sono arrivato non per caso, ma perché ad un certo punto con Snob avevo iniziato ad avere delle responsabilità davvero pesanti: tanta gente, tanti fatturati, tanto budget da gestire, ma anche tante spese fisse al mese. Tutto molto stressante, molto. Tant’è che ho iniziato ad andare in tilt. Attacchi di panico. Per sei mesi, ho sofferto di attacchi di panico. Il mio analista un giorno mi disse: “Ma senti, qual è la cosa che ti permette davvero di stare bene, di respirare, di stare per un attimo senza pensieri?” Mia risposta: quando creo musica. E’ che all’epoca la facevo proprio per passatempo, nulla di più. Sì, nei miei uffici c’era uno studio, dove col mio socio Maurizio Bilancioni, alias Knuf, si lavorava molto con le sincronizzazioni, musiche per pubblicità: solo che Maurizio lo faceva quotidianamente, da bravo ed operoso artigiano; io invece ogni tanto passavo di lì e buttavo giù qualche per divertirmi, o poco più. Ho ascoltato però il suggerimento del mio analista. Per tre mesi, sono arrivato in ufficio rinchiudendomi subito in studio e dicendo: “Non voglio essere disturbato. Fate voi. Prendete i clienti. Perdete i clienti. Fate i progetti che volete. Ma lasciatemi in pace”. Lì l’aiuto di Marcello è stato fondamentale. Con lui litigavamo ogni giorno, ma è una persona incredibile, meravigliosa. E’ lì, è in questa situazione che è nato il primo EP a nome Khalab, quello che è uscito per Black Acre.
Ho iniziato ad andare in tilt. Attacchi di panico. Per sei mesi, ho sofferto di attacchi di panico
Oddio, una cosa del genere – una release su Black Acre – doveva farti venire ancora più panico: non avevi mai fatto l’artista prima, non ti eri mai messo in questa posizione.
Vero.
Quindi lì sì che potevano venirti attacchi di panico, e lì sì che potevi sentirti un usurpatore, per tornando a quello che ci dicevamo all’inizio…
Sai quel è la differenza? Che in quel caso lì, non c’era all’inizio nessun obiettivo. Nessuno. Lì mi sono semplicemente chiuso in uno studio per tre mesi, o da solo o con Maurizio (che tanto per me è come un’anima gemella quindi è come se non ci fosse), e ho pensato solo a giocare con i suoni. All’epoca ok, facevo il resident alle serate di Afrodisia come dj, ma lo facevo in maniera molto giocosa ed ingenua, mischiavo musica elettronica con musica africana, in una maniera che oggi ad esempio può ricordare quello che fa Balera Favela a Milano. Prendevo la musica dei Crookers, prendevo della musica del Sudan: live coi giradischi e col campionatore, le mescolavo. E la gente impazziva. Ero Dj Khalab…
…che all’epoca non era chiaramente dichiarato che Dj Khalab fosse Raffaele Costantino. Vabbé, era un po’ un segreto di Pulcinella.
Ma sai, mi presentavo come Dj Khalab perché in quel periodo Raffaele Costantino stava in radio, o scriveva sui giornali, o organizzava eventi; ad Afrodisia invece volevo essere libero e leggero. Quando poi si sono aggiunte le session in studio, quelle per cui “Non porta a niente ma cazzo, io nella vita vorrei fare questo, creare musica…”, quelle per cui Marcello mi ha dato corda e supporto permettendomi di portarle avanti non occupandomi di nulla e di nessuno, abbiamo piano piano iniziato a smantellare tutto. L’esperienza di Snob terminava. Quella di Khalab prendeva piede. Un’esperienza in cui all’inizio non dicevo che io ero io, ma facevo così semplicemente perché volevo sfogarmi, non avere nessun tipo di pressione e anzi “buttare giù” tutta l’ansia accumulata negli ultimi mesi ed anni. Poi ad un certo punto la cosa è esplosa, non aveva più senso tenerla nascosta – oh, stiamo parlando di me, mica dei Daft Punk! Però è vero che all’inizio mi divertivo ad indossare una maschera. E anche oggi, ti dirò, cerco di comparire il meno possibile, la cosa mi mette ansia… Mi sono resto conto che se mi devo confrontare con chi e cosa sono veramente, mi sale l’ansia; se invece sono nello studio o suono come Khalab, scorre tutto in modo naturale. Appena qualcuno mi ricorda che io sono io, mi scende molto spesso tutto l’entusiasmo artistico.
Comunque devo dirti che oggi ti vedo molto a tuo agio, in console. Molto più a tuo agio. Sembri un’altra persona, rispetto a quando già facevi regolarmente il dj, come resident nelle tue serate.
Eh, caspita. Si vede che sei un buon osservatore. C’hai preso. All’epoca ero un po’ dj, un po’ organizzatore, un po’ consulente, un po’… Insomma, non sapevo cosa essere veramente. Ora invece ho fatto una scelta. E mi sento molto più sicuro, sciolto, tranquillo.
Ma è transitoria, questa scelta?
Al momento è la cosa che mi dà più soddisfazione, a tutti i livelli: umano, professionale, creativo. Però, come già ci siamo detti prima, nella mia vita arriva sempre il momento in cui inizio a stufarmi e, ad un certo punto, butto tutto all’aria, tutto. Però la musica resterà sempre, questo sì. Non riesco a farne senza. Così come non riesco a fare senza della voglia e del gusto di fare da divulgatore.
Io penso sia assolutamente deleteria questa idea per cui noi, di quarant’anni, ci sentiamo in dovere di essere sempre in linea coi gusti e le attitudini dei ventenni
E qua appunto arriviamo alla radio, a Radio Rai, Musical Box. Ho una domanda: esiste un pubblico preciso, per il programma? Un target specifico? Una scena che si riconosce nell’indirizzo musicale che detti? O invece oggi questi discorsi sono anacronistici? Ha senso insomma, nel 2018, parlare e pensare ancora a livello di “scene”?
Sinceramente? Vuoi una risposta sincera? Eccola: è una questione che non mi interessa, stop. Io sono sempre stato un outsider. Ho sempre remato un po’ controcorrente; non per altro, ma per una questione di ricerca, di curiosità intellettuale mia. Ho sempre pensato che lì dove le cose iniziano ad avere troppe conferme e certezze bisogna invece iniziare ad andare oltre, a superare, andando a cercare altri equilibri ed altri punti di vista. Con la radio, oggi, va allo stesso modo: sì, fino a qualche anno fa era più facile parlare di un preciso “pubblco di riferimento”, e ancora oggi comunque quando vado in giro nei club, nelle feste, in appuntamenti vari incontro tante persone che mi dicono “Wow, con te ho scoperto tantissima musica, grazie veramente, hai dato una direzione ai miei ascolti”. Ma è quasi più un omaggio postumo che qualcosa riferito al qui&ora.
Questo è molto interessante.
Chiaro che in questi dieci anni di vita sarà tanta la gente che mi avrà sentito su Musical Box: ma non è che mi seguono dal giorno uno e ancora oggi stanno lì a scaricarsi tutti i podcast, no? La vera ricchezza oggi – e so che vale anche per te – è il trovare di continuo persone con cui confrontarsi. Persone che ti chiedono pareri, si vogliono misurare con te, ti fanno domande, non sono lì solo per farti i complimenti (che comunque fanno piacere, come ovvio). Io cerco di partecipare a queste conversazioni il più possibile, mi piace tanto, ma ciò che veramente mi piace è quando ti puoi iniziare a confrontare con un pubblico che non è esattamente il “tuo”, non è insomma già dalla tua parte. Io credo che un primo step sia stato superato: grazie a vent’anni di lavoro di gente come me, te e altri come noi, si è creata una consapevolezza in Italia su un certo tipo di ambiente musicale e sul suo spessore, diciamo club culture e dintorni e derivazioni varie, consapevolezza che prima non c’era. Ora bisogna andare avanti. Qualcosa è stato costruito: bene. Ora tuttavia bisogna andare avanti. Però…
…però?
Bisogna andare avanti, ma non cadendo nel pop.
Se chiamo in radio anche il più geniale ed illuminato degli artisti, che però è un timido, un introverso, e una volta davanti al microfono smozzica le parole a fatica, non sto facendo un buon servizio né a lui, né a me, né alla radio che mi trasmette, né all’ascoltatore che ci ascolta
Ecco. Però bisogna andare avanti.
E’ quello che faccio costantemente. Il punto è: come farlo? Appunto: distruggendo tutto, ok; ma non per questo aprendosi in maniera remissiva verso un certo tipo di cultura pop. Cultura che, per inciso, a noi e a quelli come noi ha storicamente sempre fatto cagare. Va considerata, chiaro: ti aiuta ad espandere il tuo background. Ma non devi arrenderti ad essa. Negli anni precedenti Musical Box andava in onda a notte inoltrata, era quindi molto più settoriale, autoreferenziale. Il senso ora: “Ok, io sono il dj, decido io, io non ti devo un cazzo”. Ah ecco, per inciso, altra scelta di vita precisa fatta: non voglio più stare dall’altra parte della barricata. Non voglio cioè più intervistare, non voglio più recensire: voglio essere intervistato e voglio essere recensito,invece. E se sono in radio, beh, porto avanti il mio programma non come se fossi un giornalista che deve intrattenere ed intervistare, ma come un dj che deve seguire un preciso discorso musicale, punto. Perché vedi, io continuo a pensare che gli artisti, in radio, debbano prima di tutto far parlare la loro musica invece di parlare loro. Perché stare bene in radio non è da tutti: tu ad esempio lo sai fare, posso chiamarti e so che reggi una conversazione anche di un paio d’ore senza problemi; ma se chiamo anche il più geniale ed illuminato degli artisti, che però è un timido, un introverso, e una volta davanti al microfono smozzica le parole a fatica, non sto facendo un buon servizio né a lui, né a me, né alla radio che mi trasmette, né all’ascoltatore che ci ascolta. La cosa migliore che posso fare è dirgli “Ok, ora facci sentire la tua musica”, e stop. Ora che sono tornato in una fascia oraria meno estrema, alle 22 nel weekend, ho potuto cambiare mood, e sono tornato ad essere un po’ più divulgativo: puntate dedicate a scene speciali, voglia di far scoprire cose particolari, anche le più strane, cose così – il tutto ad un’ora a cui magari la gente è ancora abituata a sentire Calcutta. E allora, se invece di Calcutta io ti faccio trovare un pezzo di rock psichedelico dello Zambia, io questa cosa devo essere in grado di spiegartela, di raccontartela. Ti ci devo portare, allo Zambia, con una narrazione che sia in grado di interessare ed appassionare. E questo, oggi, mi dà parecchia soddisfazione. La cosa che più mi rende felice è quando mi scrivono: “Oh, ti ho sentito ieri, ma chi è che saresti tu? Cos’è ‘sta roba che c’hai fatto ascoltare ieri? Dimmi un po’. Voglio capire”. Punto a questo, oggi. Ma non è facile. E’ complicato. Perché in questo nostro paese, se ti occupi di musica e vuoi – come naturale – fare ad un certo punto un benedetto salto di carriera per non fare più la vita che facevi a vent’anni, o ti butti sul pop o è… difficile. Molto difficile. E allora secondo me, visto che la situazione è questa, bisogna stare molto attenti a non tradire tutto quello che abbiamo fatto, supportato e raccontato negli ultimi vent’anni. Il che, attenzione, NON significa combattere qualcosa, andare contro qualcosa o qualcuno; no, non c’è niente da combattere, dobbiamo lasciare democraticamente spazio a tutti. Sia chiaro. Ma dobbiamo anche mantenere l’idea che ci deve sempre essere qualcuno che in superficie ci rimane poco, e che va invece giù, sempre più giù, regolarmente più giù, alla ricerca di ciò che è poco visibile.
Il pop è un nemico, per chi conosce l’arte dello stare e cercare sott’acqua?
Ma no. Non è un nemico, esattamente come per me non è un nemico il divano su cui siamo seduti ora, dove stiamo facendo questa chiacchierata. Guardalo: è un nemico? No! E’ un divano! (risate, NdI) Nel senso che questo divano è un’opera artigianale, pregevolissima, che io di sicuro non sarei in grado di fabbricare, non sarei in grado di fare… esattamente come non sono in grado di fare il pop! Perché fare il pop, come si ripete sempre, non è facile: ed è vero, non è una cazzata. Fare una bella canzone non è facile. Fare una hit di successo non è facile. Calcutta, nel suo, è un genio. Ma è un genio dell’artigianato. Quando in una musica pensi ad una struttura ben definita, allora significa che sta pensando a delle regole. Bene: una canzone pop deve rispettare delle regole, se vuole funzionare. C’è poco da fare. In una sedia, le gambe devono essere quattro; se proprio proprio sei un artigiano bravissimo, riesci a costruirne una che sta in piedi solo con tre, ok; ma per farla da due, beh, devi essere tipo Mirò, ma forse nemmeno…
Ci sta.
Questo è il punto: se tu in un determinato linguaggio artistico devi rispettare una determinata serie di regole se vuoi che la tua creazione abbia effetto (se non le rispetti, fai pop che non ascolta nessuno: ok, liberissimo, basta esserne consapevoli), allora non è arte, è artigianato. “La prima strofa, la seconda, poi arriva il ritornello, poi svuoti, riparti, riempi, qui l’esplosione finale“: c’è tutta una serie di impostazioni ben precise, dietro a un brano pop di successo. E’ artigianato di altissimo livello; ma, appunto, artigianato. Quindi ecco, io le canzoni pop le ascolto, le canto con mio figlio, ci faccio l’amore con la mia compagna; sono un fruitore di musica a trecentosessanta gradi; ma dal punto di vista mia personale, quello incentrato sulla ricerca artistica, spero invece di essere andato al di là di questi meccanismi e di queste dinamiche. C’è un motivo, se alla musica classica ti approcci quasi esclusivamente in età adulta: presuppone un certo tipo di attitudine all’ascolto e di consapevolezza più complesse di quelle richieste dal pop. Il pop non è un nemico. E’ un bel divano su cui ogni tanto mi siedo o mi sdraio volentieri. Però vedi, se uno come Flying Lotus avesse ragionato in termini di regole, non avrebbe creato quasi nulla di quello che ha creato… Per non parlare dei suoi avi, dei Coltrane, dei Davis; ma anche della techno, visto che anche lei nasce come una musica rivoluzionaria, che se ne frega delle regole. Le rivoluzioni più incredibili nella musica arrivano sempre da un contesto che è artistico, non artigianale: senza nulla togliere al pop, che per farlo bene devi essere appunto bravissimo artigiano, questo lo sottolineo di nuovo. Un bravissimo musicista, un bravissimo arrangiatore, accordi giusti, armonie da paura. Infatti, come ti dicevo, io questo divano qua su cui siamo seduti mica sarei in grado di farlo così bene…
Invece, divani a parte, ora che ti sei consolidato nella posizione da “artista”, come vedi il panorama dei media di settore, quelli musicali?
A livello nazionale o globale?
(quattro date speciali di Khalab in Italia; continua sotto)
Entrambi. Visto che tra l’altro sei uno dei non tanti producer di casa nostra che ha avuto una esposizione notevole a livello globale.
Mi sono resto conto di una cosa, che mi ha molto destabilizzato. E che prescinde da come i media lavorino o non lavorino (…al di là del fatto che ormai il 90% di essi si regge sulle pure ali della passione e dell’entusiasmo, di quello e solo di quello, tanto di cappello a chi lo fa, visto che non c’è quasi mai un ritorno reale). Poi aspetta, prima fammi dire che secondo me i divulgatori dovrebbero innanzitutto sempre ricordare di non prendersi troppo sul serio, e ti dirò, non mi riferisco solo alla musica, vale anche nei campi scientifici; se divulghi, dovresti ricordarti che prima di tutto ciò che stai facendo deve divertire, intrattenere, e che di te ad ogni modo si potrebbe pure fare a meno, in caso di necessità. E questa è una cosa che, beh, in Italia spesso si dimentica spesso. Non dico “solo in Italia” visto che, onestamente, all’estero non so come siano messi in tal senso. Ma tornando al punto, basta divagare: una cosa che mi ha sorpreso e frustrato tantissimo è stato il rendermi conto di come oggi l’informazione musicale non influenzi quasi più nulla. Ma proprio in generale, guarda: i media influenzano sempre meno le persone. Esempio pratico: io sono dentro a quattro, cinque chat dove vari amici ed amici di amici parlano di musica, consigliano dischi, e sono tutti ma proprio tutti avidamente a caccia di nuova musica, di novità, di particolarità, loro proprio in prima persona. Sono insomma, visto da una prospettiva “da magazine”, gli editori, i giornalisti e al tempo stesso i lettori di loro stessi: qui sta il punto. Capisci che i media musicali diventano in questo modo sempre più inutili? Soprattutto nel momento in cui restano sulla routine, sulla superficie. Se io vedo che c’è una segnalazione di Damir Ivic su un disco nuovo, in fondo non me ne frega niente: io sono già avanti, l’ho ascoltato in rete, l’ho beccato su Spotify, ho recuperato news varie su altri siti. Se invece Damir Ivic o chi per lui mi offre un approfondimento, un long form, e mi dimostra di essere informato sull’argomento e di essere in grado di aprirmi nuove prospettive su qualcosa che già so e già conosco, beh, allora magari lo vado a leggere. Lì sì che si fa la differenza.
Però parlavi di sorpresa e frustrazione.
Esatto. Parlavo di sorpresa e frustrazione perché “Black Noise 2084” è stato disco della settimana su BBC e su Worldwide, o è stato recensito con un paginone pieno di complimenti quasi imbarazzanti su The Wire. Continuo? NPR, Mojo: tutte recensioni a quattro o cinque stelle. Vedo questo e inizio a dirmi, gongolando: “Bene bene… Dove devo firmare gli autografi? Quand’è che mi consegnate l’Oscar?”. A questo aggiungi che il disco con Baba Sissoko ha avuto ottimi riscontri, l’EP su Black Acre ha avuto un grande successo, il Solid Steel approntato per la Ninja pure: che vuoi di più? Un percorso perfetto, per cui l’attenzione su “Black Noise 2084” diventa nemmeno più un exploit improvviso, ma il trionfale coronamento di un’ascesa costante. Anche se comunque sono davvero sincero quando ti dico che tutti i complimenti che ha raccolto questo album mi hanno scioccato, lasciato senza parole, è stato incredibile per me. Però ecco, arriviamo alla fine della storia: la morale di tutto ciò? La morale è che tutto questo, tutto questo appaggio incredibile dei migliori media non ha contato un cazzo. Il disco, lodatissimo e recensitissimo, fondamentalmente non se lo incula quasi nessuno, o giù di lì. Non sto suonando di fronte a 10.000 persone. I media di settore più importanti ed autorevoli del mondo hanno fatto a gare nel darmi spazio e nel farmi i complimenti, dicendo che ho fatto uno degli album più importanti del 2018: eppure, continuo ad essere un Signor Nessuno.
(continua sotto)
Per non esserlo?
Devi essere uno che va in giro, che suona, che si fa vedere, che si fa sentire sui social… E sono tutti meccanismi che ormai prescindono dalla critica musicale. Sbaglio? Tu come la vedi?
Non sbagli e sì, la vedo sostanzialmente come te. E provo a spiegarlo ai miei colleghi coetanei o più anziani da almeno dieci anni. Perché questo processo è in atto già da tempo: sono almeno dieci anni che non influenziamo in maniera significativa alcunché, a partire dalle vendite. Siamo come delle voci in un bar: quelli più bravi, con un minimo di capacità ed esperienza, possono dire delle cose che vengono anche ascoltate e di cui si discute e ci si interessa attorno a un paio di tavoli, ma a livello di reale influenza sul mercato, sulle cose pratiche, la nostra importanza è diventata meno che residuale. Basta, un’era è finita. Parlando di un’esperienza personale, ad un certo punto della storia del Mucchio, quando ci fu una diaspora di firme prestigiose, qualcuno dei fuoriusciti (e i loro sostenitori) iniziarono a dire “Vedrete, un giornale senza le firme è vuoto, crollerà subito, è ignoranza non capire quanto è importante avere delle firme di pregio sul proprio giornale”. In realtà il venduto calò più o meno del 5%: poche erano le copie vendute prime, poche continuavano ad esserlo. La cosa delle firme che “pesano” è un discorso che andava bene fino all’inizio degli anni ’90, poi è andato progressivamente scemando. Avendo iniziato a scrivere alla fine di quel decennio lì, è una consapevolezza che avevo ben conficcata in testa. Almeno quello. Mai avuto troppe illusioni.
Eh sì, siamo di un’età simile non a caso, abbiamo avuto lo stesso percorso. Però ti dirò, toccare con mano quanto oggi sia irrilevante la stampa specializzata, anche arrivandoci ai massimi livelli, è stato un colpo… ma veramente un colpo…
Occhio, però: non bisogna arrivare all’estremo opposto. Secondo me sarà sempre importante che ci sia un “processi di validazione” da parte di qualcuno che, per vari motivi, ha una preparazione, una conoscenza e una capacità di analisi superiore alla media. L’influenza non sarà più pesante e diretta come prima, ma giocherà sempre un ruolo. Non scomparirà.
Devi sapere dove stare, e con chi stare. Io sarò sempre grato alla Black Acre: mentre io ero ancora nello studiolo a farmi i cazzi miei per riprendermi dalla botta di ansia, furono loro i primi a farmi capire che quello che facevo avere un valore di spessore internazionale. Ok. Però ecco: ad un certo punto mi resi conto che, per me, per i miei gusti, era un’etichetta un po’ troppo hipster. Un po’ troppo attenta cioè a seguire la moda del momento, dettata da chi oggi “influenza” realmente il mercato. Ma lo puoi fare a vent’anni, l’hipster (…che poi mi chiedo sempre: ma come siamo arrivati, oggi, a dare una connotazione così negativa a questo termine, che in realtà dovrebbe rappresentare qualcosa di positivo?). Lo puoi fare a venti, non a quaranta. A vent’anni ero sicuramente un hipster anche io: altrimenti non avrei fatto tutto quello che ho fatto, vedi ad esempio le collaborazioni coi brand di abbigliamento, e non avrei ricevuto l’attenzione che ho ricevuto. Però a quaranta, anche basta, dai.
Ma quanto è importante essere in sintonia coi ventenni, a trenta o quarant’anni?
Sai che non lo so? Ti potrei rispondere su due livelli. Il primo, quello di padre; l’altro, quello da artista, da persona che si occupa di musica. Io penso sia assolutamente deleteria questa idea per cui noi, di quarant’anni, ci sentiamo in dovere di essere sempre in linea coi gusti e le attitudini dei ventenni. Penso che le nuove generazioni devono vedere nei fratelli maggiori sì dei fari, come è stato per noi, ma non delle persone che combattono le loro stesse battaglie coi loro stessi linguaggi negli stessi territori. Siamo pieni, oggi, di quarantenni che vogliono fare la vita dei ventenni: paarlare come loro, ascoltare la musica che ascoltano loro. E lo fanno perché vogliono sentirsi giovani come loro. E invece no, amici: se avete quarant’anni, siete dei quarantenni. Punto.
Avvocato del diavolo: guarda che sia te che io facciamo in realtà molto una vita da ventenni e con gusti ed attaggiamenti “smart” da ventenni.
Ok. Secondo me però lo facciamo con un tipo di consapevolezza e di maturità diversi. Non migliori: diversi. Io posso ascoltare con curiosità la moda del momento ma non ne sono instancabilmente a caccia. E anche: se oggi non sono in grado di lanciare dei messaggi da “fratello maggiore”, significa che nel mio tragitto dai vent’anni ai quarant’anni in qualcosa ho fallito. Se io devo ascoltare a forza Achille Lauro per dimostrare a me e a chi sta di fronte a me che sono figo come un ventenne e ci sto dentro, non sto dando niente né a me né al ventenne. Se invece ascolto Achille Lauro con la testa di un quarantenne e nei modi di quarantenne, magari posso dare delle interpretazioni utili o interessanti. Quando mio padre aveva cinquant’anni e giocava a carte con gli amici nel bar del paese, non è che con loro si mettesse a parlare di quanto erano fighi gli 883 che tanto piacevano a suo figlio tredicenne. No: la realtà è che non gliene fregava un cazzo degli 883, esattamente come a me non me ne frega nulla del disco di Ghali. Questo non mi impedisce di avere il massimo rispetto per l’artista Ghali, in quanto vedo che riesce a fare benissimo quello che si propone di fare; ma io ora sono come mio padre al bar. Lui continuava a sentirsi la sua, di musica. Non andava ad inseguire la mia. Non gliene fregava nulla di cosa ascoltassi. Soprattutto, non scendeva a compromessi per sembrare ancora giovane. Oggi abbiamo maturato, nella nostra società, questa convinzione per cui se non si è più giovani, beh, allora si è finiti. E’ una cazzata. Magari non siamo così attaccati all’ultima novità, ma dalla nostra abbiamo l’esperienza, sappiamo giocoforza più cose perché abbiamo accumulato negli anni del sapere; poi sì, possiamo anche avere un’attitudine fresca e giovanile, ma è matematico – e direi anche sano – il fatto che non abbiamo più quella ingenuità che contrassegna i ventenni. E’ un valore questo, ed è importante. “E’ uscito il nuovo di Ghali”: non mi interessa. “Ma guarda che ha fatto il botto!”: non mi interessa lo stesso. Poi dopo con mio figlio c’è questo patto: a casa la musica la scelgo io, in macchina la sceglie lui. Il risultato è che lui a casa ascolta Archie Shepp e balla sul free jazz, in macchina invece va Ghali e sono io che canto le parole assieme a lui. Io credo che arrivati ad una certa età, anche se non si ha figli, bisogna comunque mettersi un po’ nei panni del padre. O comunque, a quattordici anni sei in camera che fai l’air guitar e salti sul materasso, a trent’anni non puoi più essere così, men che meno a quaranta. E questo perché certi messaggi ti arrivano già decodificati, quindi ti conquistano di meno. A quarant’anni non sei più uno attaccato al futuro, alle novità, e non hai più la convinzione che devi assolutamente cambiare il mondo: non hai quel tipo di ingenuità, non più, dai. Semmai a quarant’anni hai capito meglio perché il mondo non funziona, perché certe ingiustizie si generano di continuo, quello sì; studi, approfondisci, valuti di più. Non hai tuttavia quella verve, quella illusione bruciante per cui tutto va radicalmente cambiato e rovesciato. Da una parte vuoi dire che hai perso qualcosa, dall’altro però hai acquistato nuove e diverse consapevolezze. In tutto questo, tornando al punto, dire che una cosa è interessante solo ed esclusivamente perché è il “linguaggio del momento” di un ventenne sarebbe secondo me, per me che sono un quarantenne con gusti ed esperienze, un discreto fallimento. Così è come la vedo.