Quando si parla di Aphex Twin, quando si parla degli ultimi dieci anni della carriera di Aphex Twin, c’è un espressione che aleggia sempre tra le righe ma che non viene mai formalizzata. Perché tra una domanda e l’altra sulle sorprese che potrebbe riservarci il futuro, sul nuovo album che forse non arriverà mai (il “Chinese Democracy” dell’I.D.M.?), e sulle sempre più sporadiche apparizioni live, comincia a farsi strada prepotente la voce di una crisi creativa in evidente stato avanzato. D’altronde è difficile immaginare l’effetto che potrebbe fare della nuova musica targata Aphex Twin nel contesto dell’elettronica attuale, quali strade potrebbe prendere e come verrebbe accolta. Già nel 2001, all’uscita di “Drukqs”, si sollevò più di qualche voce perplessa: Aphex è gli anni novanta, il suo suono ha marchiato talmente tanto profondamente quell’epoca da risultare quasi cristallizzato, immaginarselo intento a rifare se stesso fa un effetto strano, poco credibile. Per cui sì, meglio il silenzio interrotto da qualche live o dj set in giro per il mondo, perfetto per tenere vivo il mito, che affrontare a viso aperto un declino quasi inevitabile.
D’altronde in tempi in cui essere sovraesposti è diventato normale, tirarsi fuori dai giochi può essere vista quasi come una mossa di marketing. L’assenza che funziona più della presenza. L’unico modo possibile per continuare a giocare seguendo regole che sono solo proprie. Aphex contro tutti. Come una volta. Come sempre. Per cui sorprende, ma neanche troppo, l’eccitazione data dal ritrovamento e dalla successiva pubblicazione (digitale e solo per i partecipanti al crowdfunding che “l’ha liberato”) di “Caustic Window”, l’album dimenticato del 1994.
La storia di “Caustic Window” è davvero bizzarra: sarebbe dovuto uscire proprio nel ’94, pubblicato dalla Rephlex e realizzato da Richard D. James col moniker, appunto, proprio di Caustic Window. Peccato però che quel disco non mai arrivato sul mercato, finendo per guadagnarsi un posto d’onore nel paradiso delle cose che Aphex Twin ha fatto per poi tenere per sé. Se ne riparlò un pochino giusto nel 1999, quando Mike Paradinas, intervistato da uno dei fan site di Aphex, raccontò non solo di averlo ascoltato entrando nel merito delle singole tracce, ma rivelò anche di essere uno dei quattro (tre più Richard, ovviamente) fortunati possessori di un vinile test pressing del disco e che si erano accordati tra loro per fare in modo che la musica presente in quei solchi non potesse mai essere ascoltata da altre orecchie. E così è stato per vent’anni esatti quando, improvvisamente, una copia della suddetta lacca è finita in vendita su Discogs a un prezzo davvero esorbitante. Da lì al Kickstarter il passo è stato breve e, con l’avvallo di Aphex e della Rephlex, il disco – in formato digitale – è finalmente nelle mani di tutti quelli che hanno versato i loro bei sedici dollari. E di tutto il mondo, perché insomma lo sappiamo tutti come vanno a finire certe cose. Al punto che diventa quasi palese pensare a questa sortita come un modo creativo e indolore per tornare sulla cresta dell’onda (è mai sceso?) senza rischiare troppo.
Non a caso, mentre scriviamo queste righe è spuntato un altro disco dimenticato del nostro eroe (questa volta risalente al 1999 – e altre uscite sembrano all’orizzonte). Tutto troppo scritto per non essere stato attentamente pensato.
“Caustic Window”, nel frattempo, è stato accolto alla stregua di un Sacro Graal, l’equivalente elettronico di “Smile” dei Beach Boys, un disco che aveva già un peso storico enorme basato proprio sulla sua impalpabilità e che venendo alla luce ha perso parte del fascino che ne aveva costituito il mito. Al punto che ad ascoltarlo quasi ci si sente in imbarazzo, non tanto per via della proposta musicale (suona esattamente nel modo in cui ti aspetti debba suonare un disco di Richard James del 1994), ma più per quello che rappresenta. Perché, insomma, siamo stati sempre abituati a guardare al mondo dell’elettronica come a un mondo eternamente proiettato verso il futuro che ora quasi ci scopriamo perplessi nel constatare che non c’è nessuna differenza con quello che sta accadendo in altri ambiti musicali. Zitto zitto, alla fine, a vincere è sempre il maledetto passato che non passa.