TESTO DI EMILIANO COLASANTI. INTRO DI DAMIR IVIC.
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Organizzare un festival è una cosa complessa. Organizzare un grande festival è una cosa molto complessa. Organizzare uno dei più grandi festival al mondo – beh, a questo punto lo potete ben immaginare, cosa sia. Eppure non per questo bisogna per forza perdere lucidità, ironia, autocritica, se l’organizzatore sei tu. Ecco: questo forse è l’insegnamento più importante che ci lascia questo lungo incontro Alberto Guijarro Rey, uno dei creatori del Primavera Sound. Leggendo le sue risposte e le sue considerazioni si può capire davvero nel profondo qual è lo spirito che anima (e che ha reso grande) il festival catalano: aneddoti e ragionamenti ancora più importanti degli elenchi su quali sono stati i concerti più belli, le edizioni più indimenticabili, gli artisti più amichevoli o quelli più bizzosi.
Anche quest’anno – ormai è una tradizione – avete trasformato l’annuncio del cast del festival in un vero e proprio evento globale. Col senno di poi, ci puoi dire come è andata davvero? Siete soddisfatti?
Sicuramente è andata peggio di com’è andata nel 2014 con il film. Ma mentirei se non ti dicessi che lo sapevamo già. Quello era un investimento molto più grande, e l’impatto sul pubblico è stato maggiore. Ma è chiaro, un film è per forza di cose più spettacolare di un videogame. Siamo contenti: ormai la gente aspetta l’annuncio del cast del Primavera più o meno come aspetta il festival.
Se ne parla tanto in giro, ci si scommette sopra e alla fine per noi è certamente più divertente che annunciare la line-up su Facebook e poi passare la serata a leggere i commenti e gli insulti.
La sensazione però è che ogni anno che passa siate quasi obbligati a superarvi, e più andate avanti e più diventa difficile fare qualcosa di più grande. Insomma, dopo il videogioco e le facciate dei palazzi in ristrutturazione cosa vi è rimasto da provare? Niente?
Magari facciamo un musical! Che ne sai?
Be’, di sicuro è più immediato del videogioco. Ho passato dieci minuti a capire come superare la prima buca!
Anche io – ride – ma alla fine proprio quello era il bello, no? Sai che c’è: a noi hanno sempre annoiato le conferenze stampa tradizionali. Ma solo perché sono sempre troppo serie, ingessate. Invece da qualche anno – da quando ci siamo dati al marketing, chiamiamolo così, creativo – il lancio della line-up è diventata un’altra bella occasione per fare festa. Ti parlo proprio del gala che facciamo all’Apolo e dove non vengono solo i giornalisti, ma anche il pubblico e qualche band locale: vedere le reazioni ai nomi e sentire le grida di gioia della gente in sala ti dà una carica pazzesca.
Si sa che il festival vi tiene impegnati 365 giorni all’anno. Posso chiedervi quale è stato lo spunto per cominciare a mettere in piedi questa edizione 2015? Il fatto che si tratta del vostro quindicesimo anniversario vi ha influenzato in qualche modo?
Cominciamo sempre nello stesso identico modo: ogni anno ci ritroviamo ad avere qualche nome fissato per la prossima edizione prima ancora che cominci quella dell’anno corrente. Questo succede quando ci sono artisti che vogliamo avere a tutti i costi e che, se non sono disponibili nell’immediato, cerchiamo comunque di assicurarci per il futuro. Non ti voglio dire una bugia, ma credo che ci sia addirittura capitato di chiudere contratti con tre anni di anticipo.
Il grosso della line-up viene completato tra luglio e dicembre, però capita sempre che ci sia anche qualche last minute. Il quindicesimo anniversario del Primavera Sound è ovviamente molto importante per noi, ma non abbiamo pensato a niente di celebrativo. Di base la cosa che ci interessa è la solita di sempre: portare a Barcellona band che non sono mai venute a suonare in città e poi ci costruiamo intorno tutto il resto.
Due anni fa, se non ricordo male, avete annunciato la presenza dei Neutral Milk Hotel mentre il festival era ancora in corso. Vi interessa ripetere quel tipo di esperimento oppure, basta, l’avete fatto una volta e non lo farete mai più?
È una cosa che ci è piaciuta molto e ovviamente vogliamo rifarlo, ma sai cosa? Se lo facessimo tutti gli anni diventerebbe prevedibile e quindi pure controproducente. Però è stato un bellissimo esperimento e ci ha insegnato molte cose. Ti posso dire solo che se dovessimo fare di nuovo una cosa simile sarà comunque con una cult band. Non ci interessa farlo con il grande nome, non avrebbe neanche troppo senso.
Quindici anni cominciano a essere tanti, non credi? C’è stato mai un momento in cui avete pensato che le cose si stessero mettendo male per il festival? Dall’esterno sembra che tutto vada sempre benissimo, ma immagino che non sia semplice mettere in moto una macchina organizzativa del genere in un paese così profondamente segnato dalla crisi economica. Come vanno le cose, adesso?
In teoria, ma solo in teoria, siamo in ripresa. La situazione è sicuramente migliore di quella dell’anno scorso o dell’anno prima ancora, ma i problemi sono tutt’altro che risolti.
In Spagna abbiamo un tasso del 46% di disoccupazione giovanile, e tutto questo si ripercuote in maniera abbastanza ovvia su tutta l’industria dell’intrattenimento. In questa situazione è difficilissimo organizzare i concerti, figuriamoci i festival. Noi stiamo cercando di fare tutto quello che è nelle nostre possibilità e devo dire che sì, sta andando meglio, lo vedo anche con l’Apolo, il club che gestiamo in città, ma c’è ancora tantissimo da fare. Il nostro modo di reagire alla crisi è stato quello di organizzare tantissimi eventi gratuiti per la città, tutte le iniziative parallele al festival che servono per attrarre gente nuova, coinvolgere i bar, i club, e addirittura i quartieri interi.
Visto che hai parlato dell’Apolo, immagino che gestire un club ti consenta di avere una sorta di osservatorio privilegiato sulla musica a Barcellona. Come vanno le cose?
Mi sembra che ci sia una piccola esplosione di musica giovane, in città. Parlo proprio di band ed etichette formate da ragazzi che non hanno neanche vent’anni, o che li hanno superati da poco, che si stanno facendo conoscere con i concerti dal vivo – roba da duecento persone, non pensare a folle oceaniche – e che si tirano dietro un pubblico composto essenzialmente da loro coetanei. Meno male, perché ormai sembrava che la musica, di ogni tipo, parlo del rock, ma anche dell’elettronica, EDM a parte, stesse diventando una faccenda interessante solo per gente che ha tra i trenta e i quarant’anni. Ma le cose stanno cambiando. Grazie a Dio.
Ti posso chiedere se la gestione del club sia stata influenzata dalla vostra attività di organizzatori del Primavera Sound, e in che modo?
Per me parlare di Apolo o di Primavera Sound è come parlare della stessa cosa, anche se su scala diversa. Ma ti giuro che è proprio uguale uguale, al punto che mi verrebbe quasi da dire che l’Apolo è il Primavera in piccolo e il Primavera è l’Apolo in grande. La filosofia è la stessa: prendere pop, rock, indie, elettronica, anche musica sperimentale e metterla nello stesso calderone, come se non esistessero barriere e divergenze tra i generi e il pubblico. Quest’anno, per dire, ci siamo anche aperti al jazz, quello più innovativo e poco convenzionale, che forse era l’unico genere che non aveva ancora la sua serata all’Apolo. Ricordo che alla primissima conferenza stampa del Primavera, un giornalista spagnolo ci fece questa domanda: ‘OK, ma cos’è davvero il Primavera? Perché dovrebbe essere diverso dal Sonar o da Benicassim?’ e noi rispondemmo praticamente in coro la stessa cosa: ‘Il Primavera è il suo programma’. Lo so che ora può sembrarti ipocrita il mio discorso, perché negli anni ci siamo aperti anche a cose che magari nessuno si sarebbe aspettato da noi in passato, ma la mia idea è proprio questa: al Primavera trovi solo band da Primavera, un concetto vago, molto ampio, ma pure molto chiaro. Penso a Roedelius e al fatto che ogni anno trovi almeno tre o quattro artisti che non è usuale vedere in eventi simili al nostro. A noi non interessa fare un festival indie e neanche un festival EDM, noi volevamo da subito dare spazio anche a quel tipo di proposte che non fanno vendere biglietti ma che donano prestigio.
A proposito della band che fanno impazzire i botteghini: ho notato che dopo un paio di anni dove i grandi nomi l’hanno fatta da padrone anche al vostro festival (penso ai Blur due anni fa o i NIN l’anno prima) siete un po’ tornati sui vostri passi, recuperando un po’ quello spirito a cui facevi riferimento tu. Quanto è stata voluta, questa decisione, e quanto imposta (dai calendari, dalle economie o da altri fattori)?
Io vorrei che il nostro pubblico capisse che quello degli headliner del Primavera Sound è un concetto molto labile e molto particolare: non ci sentiamo adatti a fare band come gli AC/DC, anche se sappiamo che alla gente che segue il festival probabilmente piacerebbero moltissimo, ma quel tipo di gruppo lì in qualche modo finisce per cannibalizzare tutto quello che viene dopo. Se fai Springsteen o i Pearl Jam, il giorno in cui suoneranno loro sarà solo il giorno di Springsteen e i Pearl Jam. Mentre è diverso con i Blur, i Cure o Neil Young che da soli non fanno, tranne che in qualche caso particolare, concerti da quaranta o cinquantamila persone e che quindi danno lustro al cartellone ma fanno capire chiaramente che noi non ci giochiamo tutto con i big e che ci interessa promuovere tutto il pacchetto. Prendi i Ride? Ti sembra un gruppo che può fare l’headliner di un festival che non sia in Inghilterra? No, però per noi sono importantissimi, per la storia e per l’influenza che hanno avuto sulla musica che sentiamo a noi più vicina. Non ti nascondo che trovare grandi nomi in linea con quella che è la nostra idea di grande nome è sempre più difficile, però finché potremo continueremo a scommettere. Io ripenso sempre a quando, nel 2004, prendemmo gli Wilco che non erano mai stati in Spagna e li piazzammo in uno degli slot di punta. Ci presero per pazzi, ma in seguito quel gruppo è diventata una delle ragioni per cui la gente partiva da tutta la Spagna per venire al Primavera e col tempo questo mercato è diventato per loro il terzo mercato più importante dopo USA e UK. Adesso suonano in teatri grandi, sempre pieni di gente e con biglietti costosissimi: non dico che sia merito nostro ma che almeno ci abbiamo visto giusto ed è già una bella soddisfazione.
Per certi versi possiamo dire che il Primavera Sound sia emerso come festival, e come evento culturale/globale, nel decennio in cui il mercato musicale di un certo tipo è stato dominato dall’esplosione delle reunion. Reunion che, insieme alla scommesse e a qualche sorpresa, hanno da sempre goduto di grande spazio e rilevanza in cartellone. Insomma: il futuro della musica è sempre di più il suo passato. Sei d’accordo?
Io credo che questo accade e sia accaduto semplicemente perché la nostra generazione è stata l’ultima per cui la musica ha avuto un impatto e una rilevanza culturale molto importante.
Quindi sono tornate sulla cresta dell’onda tutte quelle band che in qualche modo avevano lasciato una traccia nelle nostre vite, anche minuscola, quando ancora la musica aveva un valore aggregativo immenso. Quando è scoppiata la bolla delle reunion si è però creato un effetto collaterale che ha allontanato le generazioni più giovani da quel tipo di musica: il rock e l’indie sono diventati roba per adulti, e per i più piccoli andare a un live e trovarci solo dei quarantenni equivale ad andare a una festa con i propri genitori. Non si divertivano più, e infatti è esplosa l’EDM che ha come unico scopo quello di intrattenere. Adesso però le cose stanno cambiando, come dicevo prima, perché sta nascendo una nuova classe di musicisti che pensa al di là delle barriere dei generi e per cui non esiste più l’elettronica e il rock, la musica etnica e l’hip hop, ma un miscuglio incasinatissimo in cui tutto riesce a convivere con coerenza e stile. Ecco, io penso che il futuro della musica sia questo, ma magari mi sbaglio.
Prima hai nominato l’EDM: ammetto che quando ho visto il programma del Coachella di quest’anno ho pensato che forse anche voi avreste potuto compiere una svolta simile con il chiaro scopo di accontentare una fetta di pubblico, molto vasta, che sta oggettivamente cambiando il concetto stesso di festival. Invece avete scelto di seguire ancora una volta la linea tracciata ormai più di quindici anni fa. Dimmi la verità, avete provato a prendere Skrillex?
No, non ci abbiamo provato e ti dirò che non ci abbiamo proprio neanche pensato: noi siamo partiti organizzando serate di musica elettronica, il nostro mondo era quello e fin da subito – ti parlo della seconda metà degli anni ’90 – ci siamo mossi sempre in territori più underground rispetto al suono dance che all’epoca interessava alle masse, il nostro universo non è mai stato quello da cui sono emersi gli Skrillex, e sarebbe disonesto che lo diventasse ora solo perché piace a tanta gente. E poi c’è un altro discorso: parlando di target, il pubblico del Primavera Sound è composto essenzialmente da quella fascia d’età che parte dai venticinque anni e arriva ai trentacinque. Il numero dei diciottenni e dei ventenni è invece identico a quello della fascia che parte dai trentacinque e arriva addirittura ai sessanta, cosa che non accade in nessun altro festival del mondo. Capisci quindi che allargare la nostra offerta solo per attirare il pubblico dei ventenni per noi non è praticabile, perché non vogliamo comunque perdere i più adulti. Qualche tempo fa, il figlio di una coppia di miei amici mi ha detto che quando aveva vent’anni non riusciva a capire il Primavera Sound, ora che ne ha quasi ventotto invece è completamente impazzito per il festival, ne apprezza le band e lo spirito. Ti faccio questo esempio perché mi ha aiutato a capire una cosa fondamentale: il nostro non è un festival per tutti, devi essere preparato per apprezzare il Primavera Sound e la preparazione si acquista col tempo. La nostra fortuna è tutta lì: perché i trentenni non finiscono mai, ogni anno ne arriva una generazione nuova.
Visto che hai parlato dei vostri inizi nell’organizzazione delle serate clubbing, non posso non chiederti quale siano i vostri rapporti con il Sonar.
Sono buoni, anzi ottimi. Siamo proprio amici, anzi. Ma devi capire che ci conosciamo da vent’anni, il primo Sonar è stato fatto all’Apolo, per cui c’è moltissimo rispetto reciproco. Tant’è che stiamo attenti a non pestarci i piedi a vicenda: sarà capitato al massimo un paio di volte che ci siamo contesi gli artisti, ma di base vige un patto di non belligeranza. Noi sappiamo cosa interessa a loro e loro sanno cosa interessa a noi. Gli unici veri problemi che ci sono stati sono accaduti quando, per ragioni di calendario, è capitato che tra i due eventi ci fosse solo una settimana di distanza e che quindi la nostra promozione, cominciando prima, finisse per oscurare un pochino la loro. Che invece hanno sempre avuto il vantaggio di capitare in un weekend dove il tempo è sempre perfetto, mentre noi siamo un pochino più sfortunati.
Una delle critiche che spesso viene rivolta al Primavera è che ogni anno diventa più difficile evitare di ripetersi. È un rischio che avvertite anche voi?
Lo avvertiamo, chiaro, e neanche poco, ma purtroppo alla base di tutto c’è sempre un problema di soldi: questo è lo spazio che abbiamo a disposizione, non lo possiamo allargare, e quello spazio non permette di diversificare troppo la formula. In più, anche in base alle cose che ti dicevo prima, non è semplice trovare nuovi artisti che non sono mai passati da noi ma che riteniamo in linea con il tipo di programmazione che ci interessa fare. Alla fine credo che andremo sempre di più nella direzione che abbiamo preso in queste ultime edizioni: con concerti segreti, nuovi palchi a capienza limitata, e forse pure live improvvisati nel tragitto tra uno stage e l’altro.
Lo scorso anno avevate lasciato trapelare la possibilità di un’edizione sudamericana del festival, a Buenos Aires, mi pare di capire però che non sia più nei vostri piani. Sbaglio?
No, non sbagli. In passato avevamo più volte ragionato sull’idea di creare un franchising del Primavera Sound, ma più andavamo avanti più il festival s’ingrandiva e diventava impossibile pensare di esportarlo in più paesi contemporaneamente. C’è l’esperimento di Porto che continua ed è bellissimo, ma per noi quello è sempre di più un altro festival, diverso. Bello, molto più vivibile, ma non è il Primavera Sound. Per il Sonar è diverso, loro riescono benissimo a portare in giro il loro marchio, mentre ci sentiamo molto legati a Barcellona. Ma è giusto così: abbiamo cominciato a fare questa cosa perché volevamo creare un’alternativa in città e più andiamo avanti e più ci sentiamo di doverle restituire qualcosa. Per questo abbiamo inventato il Primavera Neighborhood, che si svolge un mese prima del festival e coinvolge direttamente le periferie.
Il legame con Barcellona mi sembra importante, come lo è quello che avete con il resto della vostra gente: non conosco altri festival dove gli organizzatori passino le giornate a discutere sui forum con il pubblico sulle migliorie da apportare, quando non addirittura proprio sugli artisti da chiamare…
È vero, noi teniamo tantissimo al parere di quel nucleo di persone che riteniamo essere il vero cuore del Primavera Sound. Parlo di quella fascia di pubblico più fidelizzata e non di quelli che passano il tempo a insultarci sui social media. Credo che Facebook, per esempio, non sia un posto adatto alle discussioni, che invece sul nostro forum avvengono sempre in maniera molto costruttiva e infatti capita spessissimo di mettere in pratica proprio quello che ci consiglia il nostro pubblico.
Penso, infatti, a quello che è successo quattro anni fa quando avevate introdotto una sorta di carta di credito del Primavera Sound, l’unico sistema per acquistare bevande o cibo all’interno del festival, e per un malfunzionamento siete stati ridotti in serissima difficoltà e proprio il confronto diretto con le persone vi ha aiutato a superare quel momento problematico. Giusto?
Esempio perfetto: quello che citi è stato il momento peggiore della storia del Primavera Sound.
Quell’episodio ci ha aiutato a capire che la tecnologia non fa proprio per noi, e che il nostro pubblico per pagare preferisce usare il denaro o le carte di credito vere, e non cose di quel tipo come invece stava accadendo in altri festival. Abbiamo capito, per esempio, che dobbiamo darci da fare per migliorare la wireless e rendere più efficace il servizio contactless. Insomma, è come per i gruppi: non tutto quello che va bene per gli altri va bene per il Primavera. E questo l’abbiamo capito grazie a quelli che al Primavera vengono essenzialmente per divertirsi e ascoltare la musica.
Per chiudere: se ti avessero detto quindici anni fa che sareste diventati così grandi e importanti non solo a Barcellona o in Spagna, ma in tutto il mondo, ci avresti creduto?
Ma figurati! Le prime edizioni sono state devastanti, abbiamo perso un sacco di soldi. Poi nel 2004 qualcosa è cambiato: quello è stato il primo anno in cui siamo andati in pari. Il problema è che nel 2005 siamo stati costretti a spostarci al Forum e quindi di nuovo a fare un passo indietro perché è cambiato tutto. Abbiamo dovuto ricominciare da capo proprio quando pensavamo di avere trovato la nostra strada. E ovviamente c’è voluto del tempo prima che le cose si rimettessero al loro posto.
Se mi guardo indietro, adesso come adesso, ancora non mi capacito di come un’idea nata quasi per scommessa sia potuta crescere così tanto fino a diventare la nostra vita. Solo il pensiero mi terrorizza, ma è bello che sia così!