Dal 2009 ad oggi ne è passata di acqua sotto i ponti dello stile, per quanto riguarda il giovane londinese Benjamin Stefanski, aka Raffertie. L’esordio garage sotto Seclusiasis e il passaggio a Planet Mu con il capolavoro breaks che fu Wobble Horror! Qualche anno ancora e poi la svolta Ninja Tune. Il grande salto. L’inglesino entra a far parte di una tra le migliori scuderie europee e regala due EP in cui si nota il nemmeno troppo lento passaggio a sonorità molto più deep e tendenti al soul. La svolta vera e propria, però, arriva con il disco di debutto, “Sleep Of Reason”. L’anima esce, lasciando a terra le sonorità smaccatamente spezzate e si fa coccolare dal calore di linee melodiche semplici e soffici.
Forse portato nella scia di The XX, Nicolas Jaar, Darkside e soci, Raffertie s’intrufola mani e piedi in quella che è la nuova tendenza elettro-soul, mettendoci anche la voce e riuscendo, anche se ancora soltanto a tratti, ad emozionare. Quello che rimane del disco è l’RnB pulsante in quasi tutte le canzoni, che solo a tratti si va spegnendo o nascondendo in quelle che sono ormai soltanto tracce sbiadite del vecchio Raffertie. Resta un buon album ma che non riesce a sfondare totalmente.
Così ora esce un altro singolo, “Rain”. Raffertie sembra estrapolare dall’album la parte più intima di sé stesso, quella blues, carnale. Il lato più malinconico e dolce. Un passaggio soffuso di echi e una chitarra che si trascina su di una ritmica semplice e la sua, probabilmente, più dolce (o docile) interpretazione vocale. Quasi un lamento.
Quattro tracce, unico inedito un remix di Teebs proprio della title track. Il tocco glitch distorto dell’americano riesce a dare una linfa diversa che, mettendosi d’impegno, non la si definisce migliore dell’originale. Solo impegnandosi, appunto. Il “lato B” dell’EP è completato da quelle che, in “Sleep Of Reason”, sono rispettivamente l’ultima e la penultima traccia; “Back Of The Line” è meno calda e più veloce, un giro di batteria percorre l’intera composizione e poi cori, freddissimi sintetizzatori e rumori bianchi a friggere il tutto. “Black Rainbow” è più completa, anche se la durata, meno di tre minuti, lascia l’amaro in bocca. Anche in questo caso una batteria che, seppur meno presente questa volta e nonostante sia ancora più distorta dal white noise, scava nell’intimo della cantilena salmodiata dall’autore. Toni cupi, bassi viscerali.
Raffertie continua a prendersi il suo tempo, scalando verso quell’Olimpo che aveva già trovato, a modo suo, ma che non gli è bastato, probabilmente. Lo fa mettendoci l’anima, ma a quale prezzo?