“Daniele De Rossi o dell’amore reciproco” di Daniele Manusia (scrittore e giornalista sportivo che mi era già capitato di citare in questo articolo) è il libro che sta sul mio comodino da ormai un paio di settimane. Questa biografia, scritta da un giornalista che è prima di tutto un tifoso, si rivela ben presto un semplice pretesto per l’autore per parlare di calcio in generale e pure proprio di se stesso. L’aspetto particolare del libro è infatti il punto di vista con il quale l’autore guarda alla carriera di Daniele De Rossi, e il cuore della sua tesi è grosso modo questo: DDR ha rappresentato la Roma in quanto “primus inter pares”, in modo diverso rispetto ad altri. La sua carriera è stata parallela (per certi versi) ma profondamente diversa rispetto a quella di Totti, che per la squadra capitolina è stato un motivo di orgoglio, un gioiello da mostrare, un vanto, e in quanto tale ha vissuto su una dimensione superiore a quella del resto del resto dei tifosi; De Rossi no, la sua è la storia di uno dei tanti ragazzi di Roma che riesce a coronare il suo sogno, giocando per la propria squadra del cuore e diventandone una leggenda solo sul lungo periodo. La carriera di De Rossi assume una dimensione epica non tanto per le sue (comunque ottime) capacità calcistiche, ma per aver rappresentato la propria fede in ogni partita che ha giocato. Il pensiero di Manusia è che prima di essere un calciatore De Rossi sia stato un grande tifoso della Roma, e in quanto tale egli diventa il perfetto rappresentante della romanità in uno scambio di emozioni continuo tra se stesso e la propria gente – da qui il titolo “o dell’amore reciproco”.
Parole come “rappresentanza” e “appartenenza” sono centrali per quanto riguarda la cultura hip hop, nel senso che i rapper spesso si sentono (e in certi casi sono per davvero…) portavoce di alcuni quartieri/città/fasce sociali. Per esempio Marracash in questa breve intervista racconta il suo rapporto con Barona, quartiere Sud di Milano, che per lui è madre e matrigna. C’è infatti l’esigenza da parte dei rapper di portare sulle spalle la propria origine e ciò che essa rappresenta, allo stesso mondo in cui faceva De Rossi con la propria maglia quando scendeva in campo. Moltissimi ragazzi che si approcciano al rap applicano questa logica e difatti non si contano le canzoni anthem dedicate al quartiere o alla città – giusto per citare l’ultima della serie, “Rozzi” di Paky, uscita nel 2019. Rappresentare la propria appartenenza però è più facile a dirsi che a farsi, soprattutto nel 2020, un momento storico dove l’omologazione social rende tutto piatto. Per questo accade che giovani e giovanissimi sembra siano vicini di casa nonostante vivano a 1200 chilometri di distanza, e facciano vite profondamente diverse. Come se tutto fosse un film già visto. Non mancano tuttavia i cigni neri che riescono a scompaginare la situazione: uno di questi è Speranza.
Rappresentare la propria appartenenza però è più facile a dirsi che a farsi, soprattutto nel 2020, un momento storico dove l’omologazione social rende tutto piatto
Speranza, rapper di Caserta fresco d’uscita con il suo disco d’esordio “L’Ultimo a Morire”, è la personificazione del discorso riguardante la rappresentazione. Non c’è finzione nel suo rap, c’è l’intelligenza nel saper raccontare le cose con il giusto compromesso tra entertainment e realtà, senza il sapore posticcio di un mondo inventato. Ascoltare “L’ultimo a morire” dà le medesime sensazioni di leggere il libro di Daniele Manusia: come De Rossi aveva costruito un amore reciproco nei confronti della tifoseria, che in lui si rispecchiava e si rivedeva in campo; così Speranza racconta se stesso e il proprio background, ponendosi come filtro verso il proprio contesto socio-culturale di appartenenza e come interlocutore primario per tutti coloro che al racconto di quel mondo vogliono accedere.
Tanto per fare un esempio concreto nella canzone di apertura: “Casertexas” (un nome che è già tutto un programma…), Speranza rappa una barra geniale come “Sul cantiere vesto solo Mapei”. Per chi non la conoscesse Mapei è un’azienda Italiana leader nella creazione di prodotti per l’edilizia. Quale altro rapper citerebbe come brand Mapei in una sua canzone? Domanda retorica: nessuno. E questo non perché Mapei sia un brand brutto (non è neanche un marchio di abbigliamento d’altra parte), ma perché non avrebbe alcun senso se non il tuo lavoro non fosse quello di stare in cantiere a far fatica. E infatti il lavoro fatto da Speranza fino ad oggi è stato il muratore. Oppure: che senso ha rappare parti del disco in francese? Di nuovo domanda retorica: nessuno, a meno che tu non conosca il francese come l’Italiano, perché in caso contrario appariresti come l’ennesimo wannabe. E allora scopriamo che Speranza ha vissuto in Francia, in un rione periferico al confine con la Germania in un contesto di immigrazione e di melting pot culturale; e quindi conosce il francese, che per lui è una seconda lingua (la prima è il dialetto).
(Un album decisamente di spessore; continua sotto)
Questi sono solo due esempi, ma chiaramente la lista potrebbe andare avanti. Il concetto di appartenenza in Speranza è reale, concreto, e si nota in questi dettagli, che per l’autore sono magari gesti semplici e spontanei ma fanno, in realtà, tutta la differenza del mondo. Soprattutto in un momento storico dove la corsa è l’imitazione pedissequa a quello che fanno gli americani o i francesi è fortissima, per cui appare normale vedere nei video di ragazzini di Milano bandane sventolate come fossero fazzoletti, o millantare appartenenze a gang americane nonostante si venga dall’Italia, solo per essere al passo coi tempi (ne avevamo già parlato in questo articolo). Speranza sembra uno che di fare bella figura e di essere cool se ne frega, per questo piace e raccoglie consensi, gli ascoltatori percepiscono la verità di quello che dice. E in qualche modo questo suo essere fuori dalla moda e fuori dai radar di come dovrebbe essere un rapper, mi riporta al parallelo con De Rossi: entrambi schivi, anti-social, professionisti di fatica e di lavoro, che sono quel che sono indipendentemente dalla fama e dal successo che hanno costruito.
Questo non significa che il parallelo abbia necessariamente senso in tutto e per tutto, anzi i punti di diversità sono molti e profondi (a partire dalla professione, per iniziare): quella di Speranza è infatti una storia molto contemporanea per certi versi, di migrazione, multiculturalismo e di una rivalsa che parte dalla periferia; quella di DDR è una storia d’altri tempi invece, è il coronamento di un percorso di un ragazzo della media borghesia di provincia che sogna il palcoscenico dei sogni con la propria squadra del cuore, a cui dedica tutta la propria carriera sportiva. Volendo però fare un esercizio di immaginazione, un gioco, riesco perfettamente a immaginare Speranza pronunciare il medesimo discorso che Daniele De Rossi ha fatto prima della sua ultima partita con la Roma ai compagni: “Per chi ho corso? Roma! per chi ho lottato? Roma! per chi so’ morto? Roma!”.
E questo perché credo che l’esigenza di “L’ultimo a morire” sia quella di mettere una puntina su zone fisiche e mentali ben precise, che Speranza sente di rappresentare in ogni sua canzone, e di farlo con la medesima felicità e semplicità con la quale Daniele Manusia racconta il rapporto di Daniele De Rossi con la Roma e la romanità: di appartenenza e simbiosi totale, indipendentemente da tutto e tutti.