All good things come to an end: tutte le cose belle finiscono. E la Red Bull Music Academy la cui fine entro il termine del 2019 è stata annunciata pochi giorni fa, ecco, è stata una cosa veramente ma veramente bella. Lo è stata talmente tanto che è riuscita a resistere più di vent’anni (inizia tutto nel 1998, infatti: praticamente un’altra era, per la musica elettronica, e andando avanti con la lettura scoprirete ancora meglio perché, non è solo questione di “prima del web / dopo il web”). Più di vent’anni? Un’enormità. Ma una enormità, anzi, la vera enormità è stato anche riuscire a portare avanti una sfida molto rischiosa: combinare mecenatismo ed interessi commerciali. Perché la Red Bull Music Academy, lo dice il nome stesso, non è stata un’opera illuminata e benefica di un privato, tipo le fondazioni che danno vita a musei, ad associazioni culturali, archivi, eventi, eccetera, ma qualcosa che comunque metteva in campo gli interessi di una multinazionale – nella fattispecie, una multinazionale specializzata in energy drink. E questa è una cosa che non si poteva eludere. Chi ha sollevato questo problema, ha sempre fatto bene a sollevarlo. Ve lo dice il sottoscritto, che ha avuto il piacere di collaborare con l’Academy dal 2004, anno dopo anno, attività dopo attività.
Soprattutto negli ultimi, più di una voce si è levata a seminar sospetti su quanto fosse realmente benefico l’intervento di Red Bull in un certo tipo di musica, col marchio Academy: un marchio che andava a planare su coordinate molto mirate, è sempre stata fatta una feroce attenzione su cosa potesse essere accompagnato dal marchio “Red Bull Music Academy” e cosa no (al contrario delle iniziative praticamente di qualsiasi altro brand nel campo della musica, soprattutto se spalmate non su interventi spost di massimo due, tre anni ma su un discorso lungo un ventennio almeno, quindi praticamente eterno). Quali erano queste coordinate? Inizialmente, l’elettronica. Il clubbing. Quella cosa lì. Tant’è che per molto tempo la RBMA si è portata dietro l’appellativo di “scuola per dj”: se all’inizio era inesatto, col passare degli anni è diventato ridicolmente sbagliato catalogarla così. Fin dall’inizio infatti c’è stata una grande attenzione socio-storiografica a tutto ciò che era club culture: non solo session in studio ad imparare come sfruttare al meglio Technics e mixer ed effettistica, ma anche e soprattutto lunga conversazioni con artisti ed addetti al settore. E’ stata tra l’altro data dignità di “docenti” e “maestri” a persone che, nel 1998 ma anche dopo, ancora a fatica erano viste come tali, se non da pochi fissati. Ora invece è molto più normale considerare non più solo nel jazz, nella classica e nel rock “storico” i migliori produttori, tecnici del suono, giornalisti e quant’altro come persone dalle conoscenze molto importanti e preziose, conoscenza da tenere in alta considerazione. Su questo, il ruolo della RBMA è stato non secondario.
Ma dicevamo: inizialmente era l’elettronica, la club culture. Ma esattamente come l’elettronica, strettamente imparentata con un certo tipo di approccio hip hop per mille motivi, ha iniziato sempre più a scandagliare il passato più nobile, le contaminazioni più interessanti, le ibridazioni più inaspettate, lo stesso ha fatto via via l’Academy. Ospitando, come lecturer, Gilberto Gil o l’Accademia di Santa Cecilia, giusto per fare due nomi, ma potremmo farne altri cinquanta così; e cercando via via sempre di più nei ragazzi da selezionare delle doti da musicisti a trecentosessanta gradi, anche qualora fossero in primis dj. “Essere musicista” infatti è una forma mentis, e anche i dj possono esserlo eccome: soprattutto quelli che non si limitano ad imparare le quattro, cinque cose fondamentali da sapere e che vanno avanti a colpi di tool o comunque di certezze predeterminate. La Red Bull Music Academy ha sfornato artisti come Flying Lotus, Nina Kraviz, Jackmaster, Objekt (tanto per elencarne quattro diversi fra loro, come approccio e come molte altre cose): sarebbero diventati grandi comunque, sia chiaro, ma per tutti loro se gli si parla salta fuori che l’Academy è stata un’esperienza decisiva, assolutamente decisiva.
Una cosa ho sempre ripetuto, quando dovevo andare in giro per l’Italia a spiegare bene cosa fosse l’Academy (sì, era una delle cose che dovevo fare): “NON è una scuola o un concorso per diventare famosi o ricchi. Toglietevelo dalla testa”. Sì: perché oggi pare scontato, se si è un minimo appassionati di elettronica di qualità, sapere cosa è la RBMA (poi magari ti sta pure sulle palle, ma sai cos’è), ma a lungo tempo è stato davvero difficile far capire alla gente cosa diavolo fosse. Non era una scuola per dj; non serviva realmente e con ragionevole certezza a diventare famosi; non serviva a fare soldi; non vincevi nulla (se non due settimane di vitto ed alloggio gratis). Era una cosa “inutile”, la RBMA: una mera vacanza di due settimane, a suonare e sentir gente parlare. Era una cosa incredibile, la RBMA: una incredibile esperienza di vita, assolutamente irripetibile.
Lo dico io? Mi credete? Lo dicevo e lo dico ancora adesso perché ero a libro paga Red Bull? Il sospetto era lecito, fin da subito. La risposta era molto facile: ok, non fidatevi di me, parlate con chi l’ha già fatta, l’Academy. Parlate con chi c’è stato negli anni passati. Artisti anche cazzuti. Artisti anche senza peli sulla lingua: scettici, cinici, iper-intellettualizzati, molto sofisticati, non solo felicioni lieti di aver avuto due settimane di vacanza. Parlate con loro, e scoprirete non solo nei loro racconti ma anche nei loro occhi un entusiasmo sincero, una riconoscenza autentica, e tutto ciò non solo in chi poi ha spiccato per davvero il volo verso una carriera fantasmagotica, ma anche in quelli (tanti, tantissimi) che non ce l’hanno fatta, o non ce l’hanno ancora fatta. Questo perché il successo non è mai, mai, mai e ancora mai stato una componente dell’Academy, del partecipare ad essa: e anche chi arrivava con questo tipo di idea (ce n’erano, mica mancavano), ci metteva pochissimo tempo a cambiare idea, a capire l’antifona. A capire una bellissima antifona.
L’antifona era qualcosa che oggi si sta sempre più perdendo, in una visione mercantile dell’arte che è sempre più pervasiva e sempre più Verbo Unico: l’arte come valore in sé. La creatività come valore in sé. La cultura come valore in sé. Da preservare. E tenere in suprema considerazione. Ascoltare il batterista di James Brown o chi ha fatto l’ingegnere del suono nei dischi degli A Tribe Called Quest non ti aiutava a diventare il nuovo guest del super-club di Ibiza, zero proprio, ma ti arricchiva interiormente da morire. E ti aiutava anche a fare tech-house (se era tech-house quella che volevi fare) meglio, anche se passavi il tempo a sviscerare break funk o accordi di jazz modale che mai avresti usato in futuro. Un po’ per i trucchi imparati in studio, che comunque erano non pochi; un po’ soprattutto perché il tuo modo di pensare, di ragionare sulla musica, di approcciarti alla complessità ed umanità dell’atto creativo in sé acquistava spessore. Ne acquistava tantissimo. Lo faceva per la vicinanza con lecturer pazzeschi, gente dalla conoscenza e dall’umanità gigantesca, lo faceva per il clima che si instaurava fra i partecipanti (ricordiamolo: le selezioni a monte cercavano non solo i più bravi e i già mezzo-famosi, ma anche e soprattutto quelli che facevano intendere di essere persone sveglie, acculturate, interessanti), lo faceva in generale per il contesto in cui si era immersi – un qualcosa in cui 24 ore su 24 eri messo nelle condizioni di esprimere te stesso senza pensare a nient’altro, soprattutto senza pensare alla necessità di soddisfare una domanda di mercato. Questa era la regola. Oh sì. Questa era la regola.
Perché la Red Bull Music Academy, economicamente, pareva un investimento insensato. Soprattutto nei primi anni, cercare all’Academy di fare qualcosa che fosse redditizio come tornaconto economico o anche solo facile esposizione mediatica era visto come Satana, come qualcosa di volgare ed inaccettabile: la RBMA voleva essere un’oasi di purezza, dove contavano solo i valori espressi, misurati, raccontati da chi aveva dimostrato sul campo di tenere alla musica e alla cultura prima di tutto – prima del successo. Una condizione che tra l’altro è più facile avere quando sei già affermato, quando non hai più la paura di non arrivare a fine mese, o al contrario quando sei un matto che è ancora agli inizi e vede solo la musica come obiettivo nella vita, senza preoccuparsi di diventar ricco o meno (anni fa le due categorie coincidevano, alla fine; oggi, un po’ meno. Ma è un discorso lungo). Il risultato concreto? Oggi non è più così, negli ultimi anni le cose sono un po’ cambiate, e l’Academy è diventata molto più sincronizzata con la “musica-che-gira-intorno” (e intenzionata a sviscerarla, ad inseguirla, ad aiutarla, ad anticiparla), ma per tutto il primo decennio l’Academy era quel posto dove trovavano non solo rifiugio ma la giusta considerazione un sacco di artisti pazzeschi, pa-zze-schi, che però per un motivo per un altro erano snobbati dal mercato (mercato che per un sacco di anni è stato innamorato della minimal prima di tutto, di Ibiza: ecco, i re della minimal e di Ibiza difficilmente li vedevi, al massimo vedevi i precursori, gli ingiustamente negletti, gli unsung heroes). Questa è la verità. Una verità che molti ignorano, o che hanno dimenticato (o fanno finta di aver dimenticato, per non svelare quanto considerassero l’Academy una fissazione da nerd sfigati senza nessuna utilità, mentre loro facevano i soldi con “quelli che in un club funzionavano davvero”).
Sì. Per un sacco di tempo il marchio Red Bull Music Academy non era un marchio di qualità che faceva la differenza anche sul mercato, come oggi è, ma una bislacca fissazione di un pugno di snob che sì, non gli potevi dire nulla in termini di gusti e di conoscenza, per carità, ma non ci fosse stato per qualche strano motivo la Red Bull a finanziarli sarebbero durati dieci secondi, perché la loro era una visione “troppo snob, troppo intellettuale, troppo legata alla cultura, e si sa che con la cultura non si mangia”. Quando ti approcciavi coi locali, in Italia, nei primi anni, se dicevi “Ok, ti porto degli artisti legati alla Red Bull Music Academy a suonare” la prima risposta era “Sì, ma son famosi? Portano gente? Fanno incassi?”, al che tu – che volevi essere onesto – gli dicevi “Guarda, no. Il rischio è che farai la metà delle presenze che fai di solito, se non meno, ahimé è così. Ma quella metà sarà composta da gente giusta, che alzerà il profilo della tua venue”; dopo questo dialogo, il più delle volte se accettavano la cosa era perché comunque c’era un contributo – peraltro mai troppo generoso, e giustamente, ma c’era – da parte di Red Bull come azienda.
Questo perché comunque tutte le varie Red Bull nazionali avevano sempre avuto l’ordine di spingere le attività dell’Academy, sostenerle, finanziarle, portarle avanti anche a fondo perduto; con l’idea, rivelatasi poi meravigliosamene e anche cinicamente giusta, che se dimostravi di saper tenere a lungo puntata la barra dritta sulla qualità all’inizio ci perdevi sì dei soldi, ma dopo un po’ il tuo investimento ti tornava triplicato. Perché eri visto come una entità vera, autorevole, solida, di spessore, non approfittatrice. Ecco: a livello anche solo inconscio, questa cosa ha aiutato moltissimo la diffusione della bibita Red Bull nel pianeta, se a ciò si unisce tutto il lavoro fatto sugli sport non convenzionali (quindi niente calcio “classico” e basket, dove invece si tuffavano tutti), è probabilmente questo che l’ha reso fino ad oggi di gran lunga l’energy drink egemone sul mercato. Ecco che quindi raramente la Red Bull Music Academy ha puntato sui personaggi più “mediatici” e popolari; e anche quando li ha avuti, perché li ha avuti, li ha sempre trattati alla pari di tutti gli altri, di quelli noti solo presso i fissati, i nerd, gli intenditori, i cultori della materia. Un brand di solito, se deve sborsare dei soldi nella cultura, vuole farlo per avere una Media Revenue e/o per agganciarsi alla popolarità del musicista o della situazione endorsati; la RBMA ha scardinato completamente questa regola di mercato. Può piacere, può non piacere, ma è così.
…può anche non piacere, infatti: si sono sempre levate delle voci critiche nei confronti di Red Bull e dell’entità Academy, perché “exploitava l’underground”, perché “si faceva bella della purezza altrui, comprandola coi soldi e spacciandola poi come propria”. Che dire? Volendo è anche così. Ma una cosa è certa: la Red Bull Music Academy è sempre stata onesta con tutti. Non ha mai imposto paletti, non ha mai chiesto a nessuno di parlare bene in giro della bibita Red Bull e di indottrinare la gente su quanto fosse buona&giusta; non ha mai detto a nessun lecturer o partecipante “Questo non lo puoi dire, mentre per favore dimmi queste due o tre cose qui”. Mai. E quando è andata a pescare nel cosiddetto underground, lo ha quasi sempre fatto con l’idea di prendere le persone più autentiche e senza compromessi, non quelle col maggior potenziale di successo e visibilità. Vi pare poco? Se vi pare poco, sappiate che non lo è.
Soprattutto, lo ha fatto per vent’anni. Venti. Anni. Anzi: ventuno. Personalmente ho collaborato e collaboro con altri progetti dove un brand investe nella musica, e non è che solo con Red Bull ci fosse e ci sia la purezza&bellezza e gli altri invece schifo-merda-cacca-pupù: ci sono bei progetti in giro, belle scintille, animate da propositi nobili e il tutto guidato spesso da persone in gambissima. Ma ad oggi nessuna azienda ha creduto in un approccio del genere per vent’anni di fila dando sempre totale fiducia a chi ti proponeva un approccio basato al 99% sulla qualità e all’1% sull’immediata revenue mercatile, mettendo a disposizione budget seri e col mandato, alle persone di fiducia (fiducia meritatissima), “Fate quel che vi pare, purché sia fatto bene, benissimo, purché sia l’eccellenza dal punto di vista culturale non per il mercato, ma per chi è veramente esperto della materia”.
Si è sollevata in giro una interessante discussione, che abbiamo intercettato sulla pagina Facebook personale di uno dei migliori producer italiani, che si può riassumere più o meno così: “Ma se ora che la Red Bull chiude i battenti tutta la scena ‘di qualità’ che l’Academy finanziava e supportava si affloscerà, significa che l’Academy non ha lasciato ‘sto gran contributo: anzi, forse col suo assistenzialismo ha drogato il mercato, lo ha indebolito, rammollito ha fatto del male anche alla scena stessa, mentre lei ha guadagnato in immagine sulla sua pelle… Ora se ne va e lascia macerie”. Forse è così? Ognuno dia la risposta che più ritiene opportuna (magari riflettendo, e non col riflesso pavloviano del “Dagli alla multinazionale per principio”). Io do la mia: sì, la Red Bull col progetto Academy ha sfruttato tantissimo l’aura che deriva dall’underground, dall’autorevolezza più autentica, dalla purezza d’intenta; l’ha sfruttata, e alla lunga ci ha guadagnato. E’ stato un ottimo investimento di immagine. Ma è anche vero che l’ha fatto sempre con onestà, correttezza; è altresì vero che ha salvato molti artisti eccezionali dall’irrilevanza, riportandoli con testardaggine un minimo al centro dei riflettori, nel momento in cui la RBMA passava ad essere da “ricettacolo di fissati fuori dal mercato” a “cosa fighissima wow”, processo avvenuto soprattutto nell’ultimo quinquennio; ed è vero che ha aiutato molti promoter dagli ideali sinceri e dalla passioni pure a dormire qualche ora di sonno in più, finanziando progetti che non erano solo “risultati sicuri” alla Ultra Music Festival. Anzi: era ormai automatico, se facevi un progetto che sapevi essere un minimo di qualità e non solo commerciale, rivolgersi alla Red Bull, sperando di ottenere una sponsorizzazione con la scusa che stavi appunto facendo qualcosa “da Academy”: era ovviamente impossibile accontentare tutti ma molto sono stati accontentati. E molti hanno avuto da Red Bull un’attenzione e una considerazione che mai da nessun altro marchio si sarebbero sognati di avere, se non in maniera episodica e per botte di culo tipo “Ehi, il nuovo direttore marketing del brand X quando aveva sedici anni era innamorata di una delle nostre bariste che poi era mia cugina, ora gli estorciamo 10k per quello che vogliamo organizzare, dai”.
Vale per l’Italia, ma vale anche per l’estero, mica solo per casa nostra. Ci sarà modo di ricordare piano piano alcune delle attività più belle ed importanti fatte in Italia – e non solo in Italia – sotto il marchio Red Bull Music Academy. Tra l’altro l’Academy non chiude i battenti ora& subito, la data della cessazione attività è fissata per ottobre 2019 – c’è ancora qualche mese, insomma. Di sicuro, è stata un’esperienza che ha influito tantissimo sulla scena che amiamo e conosciamo. Di sicuro, è stata un’esperienza che ha rovesciato le regole più facili e consolidate del marketing. Di sicuro, è stata un’esperienza che più e meglio di altre ha dichiarato a chiare lettere che la cultura è (anche) un valore, non solo una tassa da pagare o la fissazione dei soliti intellettualoni. Poi può anche essere stata problematica in alcuni casi, può anche aver avuto delle micro-conseguenze non volute in questo o quel contesto, può anche essere stata ogni tanto un elefante in una cristalleria, vista la potenza di fuoco di budget donata dal signor Mateschitz e l’onnipresenza in un certo tipo di contesti; ma siamo abbastanza sicuri che sia stata un’esperienza eccezionale, un’esperienza che ha reso più ricchi tutti quanti, non solo quelli della lattina-col-toro. E più ricchi non (solo) di soldi, ma anche e soprattutto di conoscenza ed esperienze.
Era giusto finirla qui? Chissà. La nota rilasciata dai due fondatori, che potete trovare qui sotto, dice molte cose, anche fra le righe. Di sicuro, chiunque sia stato toccato da questa esperienza, fidatevi, non è pentito di esserci passato in mezzo. Di sicuro, anche, “All good things come to an end”, come si affermava all’inizio. E pure, come mi dissero una volta i Coldcut: “All good things come to a trend” – e in effetti con la RBMA un po’ negli ultimi tempi questo stava succedendo, più o meno volontariamente. Quindi magari terminare adesso, con un bilancio che è a nostro modo di vedere tuttora stra-positivo sotto mille punti di vista, è la cosa giusta da fare, magari sì, dai.
Poi, tra due, tre anni, chiederemo a quelli che la Red Bull Music Academy l’avversavano più o meno ferocemente se ora a Mamma RBMA estinta la loro scena sta meglio o peggio: chissà che risposte arriveranno, chissà. Io, dal canto mio, come personalissima esperienza, posso solo dire che grazie alla Red Bull Music Academy – senza essere un dj, senza essere un producer, senza essere un discografico, senza essere un promoter – ho potuto vivere alcune delle esperienze più belle della mia vita e sono venuto a contatto con centinaia di persone bellissime, potendomi relazionare con loro nel modo più puro ed autentico. La cosa più bella che si possa desiderare.