Ha fatto scalpore e, diciamolo, pure scandalo in questi giorni l’assegno che lo Stato inglese pare aver deliberato a favore di Resident Advisor: 750.000 sterline, quindi parliamo al cambio di quasi 850.000 euro. Un’enormità. Tanto per intenderci: è stata considerata una grande vittoria quando Franceschini ha promesso di aver stanziato, per TUTTO il comparto della musica live italiano, 10 milioni di euro. Un singolo sito di musica elettronica e clubbing, in Inghilterra, arriva da solo a prendere quasi un decimo di questa cifra. Assurdo, visto così.
In effetti un po’ assurdo lo è, visto da qui. La prima cosa “assurda”, e le virgolette sono d’obbligo e sono amare, è il fatto che il governo britannico abbia stanziato 1.570.000.000 sterline (lo scriviamo in cifra, così fa più impressione: siamo oltre a 1,7 miliardi di euro) per il suo Culture Recovery Fund. Una cifra enorme, che in Italia nemmeno ci sogniamo, che però a ben vedere è poco più della metà di quello che è stato stanziato per l’ennesimo salvataggio di Alitalia (3 miliardi di euro, nel cosiddetto Decreto Rilancio), una compagnia aerea che già da tempo ha abdicato al suo ruolo di servizio pubblico – superata ad esempio da Ryanair, nei voli interni – e che gode di un accanimento terapeutico per tenerla in vita solo grazie a un fumoso concetto di “compagnia di bandiera, asset irrinunciabile” (smentito appunto dai fatti) e una lunga stagione di intrecci politici, con una voce sindacale ristretta numericamente ma evidentemente capace ancora di farsi molto sentire presso chi conta e decide. Alitalia non porta ricchezza all’Italia: anzi, da decenni ne appesantisce i conti statali (…e li appesantisce non poco: in media ogni giorno dell’anno – ogni giorno! – perde un milione di euro, da un decennio a passa a questa parte). In Italia abbiamo poche risorse; e quelle poche, le usiamo male. Un classico.
Campioni del mondo. Sì. (Anche) di cattedrali nel deserto. Continua sotto.
Ci possiamo ancora permettere questo classico? Ok il Recovery Fund europeo, ok il MES (che parte del governo non vuole peraltro usare), ma se già il nostro debito pubblico era grave prima – secondo solo a quello della Grecia, e tutti sappiamo la Grecia da anni come è messa – dopo l’avvento del Coronavirus è schizzato in alto, almeno di venti punti percentuali. Le misure di sostegno ai lavoratori ed all’imprenditoria, poche o tante che siano, sono spese secche; il potenziamento della struttura sanitaria, a dir poco necessario, è una spesa secca; il vagheggiato rinforzo dei mezzi di trasporto pubblico locale sarebbe deficit che si aggiunge a deficit; e via così. Per anni ci è stato ripetuto che “Non ci sono soldi” per questo e quello, poi quando ci è piombata fra capo e collo una emergenza i soldi bene o male sono stati trovati, anche grazie al fatto che è una emergenza mondiale: ma i soldi non piovono dal cielo, sono legati alla produttività di una nazione. Possiamo anche decidere di uscire dall’euro ma, guarda un po’, in questa fase anche i più convinti anti-europeisti (“Torniamo alla lira, torniamo alla lira, basta schiavitù di Bruxelles e dei banchieri di Francoforte!”) invece di ruggire da leone squittiscono da criceti: perché sanno che uscire dall’ombrello dell’euro per tornare alla lira, stampando in casa carta moneta per sostenere tutti i provvedimenti e tutto il deficit, porterebbe ora come ora ad un deprezzamento della nuova/vecchia valuta ver-ti-gi-no-so, in grado di polverizzare in pochi mesi i risparmi e il potere d’acquisto di (quasi) tutti, operai, impiegati e piccoli imprenditori in primis.
Potrebbe sembrarvi che stiamo divagando, in realtà non è così. Perché la spiegazione di quelle 750.000 sterline per Resident Advisor è infatti, prima di tutto, economica. Legata al ciclo economico: produttività d’impresa, occupazione. Questo. Resident Advisor, per chi ancora non lo sapesse, non è (più) “un sito”, e non è nemmeno una mera “media company”: è in realtà una galassia di servizi integrati dove articoli, interviste e recensioni sono solo un aspetto e, economicamente parlando, manco quello principale. I veri soldi RA li fa infatti col servizio di biglietteria, ramificato in tutto il mondo. E’ quella la prima voce che tiene in piedi tutto. I banner pubblicitari, le fantomatiche (e mai dimostrate) “mazzette” per parlare bene di questo o di quello, i ragionevoli – e comuni a tutto il mondo editoriale – compensi per eventuali publiredazionali da soli non potrebbero di certo dare lavoro a 56 persone. Cinquantasei. Quante cioè quelle dichiarate dal co-fondatore del sito, Nick Sabine, in un editoriale uscito sul sito il 14 ottobre (“chiamato” dal sempre corrosivo ed acuto Dave Clarke il giorno prima…), parlando della forza-lavoro di RA. Cinquantasei persone assunte, a cui aggiungere la pletora di collaboratori freelance. Non è poco. Ipotizzando una media di 2000 sterline (stipendio + cuneo fiscale) ad assunto, e ci stiamo tenendo molto bassi, si tratta di 112.000 sterline, quindi quasi 130.000 euro (netti), da sborsare al mese. Considerando che da quando è scoppiata la pandemia la vendita dei ticket on line si è quasi azzerata, il “grant” arrivato dal Culture Recovery Fund inglese (attraverso l’Arts Council) copre quindi sei mesi di operatività. Arrivando quindi come copertura fino a questi giorni, più o meno, fino a fine ottobre 2020, sì, sono già passati oltre sei mesi dall’inizio della crisi; ma tutti sappiamo che la ripresa non è vicina, altri mesi nel campo degli eventi di immobilità totale o quasi ci aspettano. Insomma, non è che si diventa ricchi, con 750.000 sterline: diciamo che si rattoppano le perdite, ecco. Se pensate insomma che con quei soldi Nick e soci vadano alle Bahamas a pasteggiare a bamba ed aragoste per tre settimane alla faccia nostra, siate fuori strada.
…anche perché evidentemente, per prendere tutti quei soldi, è stata garantita la continuità occupazionale. L’editoriale di Sabine lo dice infatti chiaramente. L’editoria di Sabine però dice anche altre cose, e alcune di esse diciamolo un po’ spiacevoli. Ad esempio, dice che questi soldi saranno usati anche per mantenere il “commitment” ad alcune “cause importanti”. Che uscita infelice. Certe istanze le segui non se ti pagano per farlo e se hai i soldi per farlo, ma perché ci credi. Non stai dando ospitalità ai senza tetto o ai profughi (con strutture e personale dedicato da mantenere): stai agendo sulla tua linea editoriale e sulla scelta della forza lavoro, ma queste sono azioni a costo zero. Mettere in campo questa argomentazione sa insomma tanto di coda di paglia.
Lo è, di paglia, la coda. Non fosse altro perché ormai da tempo si è sviluppato un fronte molto avverso e molto contestatorio nei confronti di Resident Advisor, con Omar S come prima majorette, in quanto reo di aver mercificato la musica elettronica e il clubbing, di pensare solo ai soldi, di avvelenare il mercato e i gusti delle persone con scelte editoriali guidate solo dalla sete di guadagno. In realtà basterebbe seguirlo con attenzione, RA, per sapere che già da anni loro, perfettamente consapevoli di questo rischio e/o di queste accuse, hanno aggiustato la linea editoriale: i veri “giganti commerciali” del nostro settore sono poco spinti, poco apprezzati, ultimamente anche poco coperti editorialmente, e grande spazio viene invece dato ai fenomeni emergenti. Il problema è che l’industria, nel “nostro” mondo, ormai è penetrata talmente a fondo in tutto (tutti hanno/sono un manager, un’agenzia di booking…) che anche gli act un po’ più underground ed appunto emergenti già lottano e pensano secondo dinamiche da industria dell’intrattenimento, non da fenomeno (contro)culturale: loro per primi seguendo logiche speculative al rialzo, o accettando un linguaggio più da marketing+economia che da arte+poesia. E tutto questo non l’ha creato (solo) RA, l’ha creato il semplice fatto che attorno alla musica elettronica e al clubbing girano soldi, non pochi, quindi c’è chi si comporta in maniera economicista in modo più o meno strutturato. I soldi giravano anche prima, anche agli inizi: ma non se ne erano accorti più di tanto gli artisti, non se ne erano minimamente gli appassionati (che erano, appunto, occupati ad appassionarsi di questo fenomeno “nuovo”), se ne erano accorti pochi squali e anche i più smaliziati della scena, i “prime mover”. Ora se ne sono accorti un po’ tutti.
Il problema è che l’industria, nel “nostro” mondo, ormai è penetrata talmente a fondo in tutto (tutti hanno/sono un manager, un’agenzia di booking…) che anche gli act un po’ più underground ed appunto emergenti già lottano e pensano secondo dinamiche da industria dell’intrattenimento, non da fenomeno (contro)controculturale
Ma era fisiologico. Pensare di poter restare sempre e solo alla purezza originaria, quella dell’arte-per-l’arte, era utopico e poco credibile. Chi vuole, può farlo – e tanto di cappello. Ma non puoi imporre alla gente, per decreto “morale”, di non voler provare a fare di una propria passione anche una forma di guadagno e sussistenza, nel momento in cui capisce che sì, ci si può anche guadagnare. Il che non significa che per forza “…l’unica musica buona è quella che ti fa guadagnare e fai i numeri”: NO. La musica non è un investimento in borsa, è arte, è cura per l’anima: può correre anche su dinamiche diverse, e diverso è il metro con cui se ne può misurare il valore. Ma al tempo stesso la visione per cui il denaro è “sterco del demonio” speravamo fosse superata dal Medio Evo (del resto, era giusto un modo per impedire al volgo e al popolino di avere pretese sulle ricchezze materali dei nobili e degli ecclesiastici), e una visione laica nei confronti della cultura e della imprenditoria culturale è il modo migliore per lasciarla “libera”, non dipendente insomma solo dai mecenati e/o dal tempo libero che ti lascia il Sistema (…come se insomma la cultura fosse una bagatella con cui riempire il tempo libero, al pari di un bianchetto al bar o di una sfida al bowling con gli amici, per poi tornare al mondo “vero”, quello del lavoro, della fatica, dei numeri, del potere).
Andando al punto: chi riesce a creare valore e posti di lavoro con la cultura e l’intrattenimento, nello specifico con la musica e con il clubbing, merita rispetto e riconoscenza. Gioca (anche) in modo professionale e lavorativo, evitando che l’arte e l’intrattenimento siano visti (solo) come cose “stupide”, secondarie, poco importanti, poco concrete. Non lo sono: concorrono a disegnare la qualità della nostra vita e a creare persone migliori. Ovvio: pure nell’arte e nell’intrattenimento ci sono affaristi pezzi di merda, ma questo è fisiologico, mica siamo qua a dare la biada agli unicorni. Giù però il cappello di fronte a Resident Advisor che dal nulla, da un sito, ha creato una company in grado di muovere fatturati da milioni di euro e di dare lavoro a più di cinquanta persone, il tutto occupandosi di una “sciocchezza” come la musica elettronica e il clubbing.
Invece di incazzarsi perché Resident Advisor fa i soldi, bisognerebbe forse prima di tutto portarlo come esempio verso i più scettici: anche con la cultura “nostra” si può fare impresa, si può creare occupazione, si genera valore. Anzi, per certi versi ci si riesce negli ultimi tempi soprattutto con la cultura “nostra”, e in genere con i fenomeni imprenditoriali emergenti nel campo dei servizi e della creatività; lì dove invece i baracconi alla Alitalia – che vogliono mantenere le stesse dinamiche degli anni ’80, quando eravamo proprio in un’altra era (e quando i “soldi facili” facevano esplodere il debito pubblico…) – diventano sempre di più un pozzo senza fondo perché si rifiutano di adeguarsi ai tempi, di innovare, di sincronizzarsi con la tecnologia e le nuove modalità operative/lavorative.
Andando al punto: chi riesce a creare valore e posti di lavoro con la cultura e l’intrattenimento, nello specifico con la musica e con il clubbing, merita rispetto e riconoscenza. Gioca (anche) in modo professionale e lavorativo, evitando che l’arte e l’intrattenimento siano viste (solo) come cose “stupide”, secondarie, poco importanti, poco concrete
Questo dovrebbe essere l’approccio di base. Ma questo approccio di base, non dovrebbe tuttavia sospendere un approccio critico e sempre vigile. Mai. Quindi: bene che Resident Advisor ottenga un “grant” così importante; bene che dia lavoro a cinquantasei persone e collaborazione a svariati freelance; bene che sia stato così bravo (e furbo) da farsi assegnare una cifra così importante dall’Arts Council britannico, lì dove altre realtà – che evidentemente si sono mosse bene coi palazzi e con la burocrazia inglese – hanno ottenuto le briciole, al confronto, pur avendo meriti culturali e storici notevoli. Bene. Ok. Ma…
A RA infatti devono aver trovato il giusto equilibrio tra richiamo all’imprenditoria e richiamo alla cultura: la decisione sulle cifre assegnate, infatti, si basa non solo sulla quantità (la struttura imprenditoriale, la dote occupazionale, il piano di fatturati) ma anche sulla qualità (un rappresentante dell’Arts Council ha infatti commentato l’enormità della cifra stanziata per RA sulla base del fatto che diffonde e sostiene cultura non mainstream, come riferito dal Guardian nell’articolo già citato). Se vuoi giocare così, bene. E’ lecito. E’ una posizione molto comoda, però: quando ti serve sei impresa che fattura e dà occupazione, quando ti serve sei paladino della cultura non mainstream. Ci sta quindi che tu venga attaccato e continuamente posto sotto scrutinio. Hai voluto trasformare la tua struttura da mero progetto editoriale a sistema globale di ticketing, per espandere e moltiplicare il tuo valore economico? Bene. Il prezzo da pagare però è che quando fai il difensore a spada tratta dell’underground e della “purezza” dell’arte, ci possano essere più persone che lecitamente ti vengono a fare le pulci, anche in modo stronzo, per vidimare quando davvero il tuo agire sia “puro”. Non puoi restarci male, non puoi lamentartene. Sei tu che ti esponi su questo campo, e ogni volta devi essere disposto a difendere e spiegare le tue scelte, pena una progressiva perdita di credibilità: prima nella scena più “dura”, poi però progressivamente anche in quella un po’ più generalista. Devi però essere sempre attento a non mescolare i campi: i tuoi articoli e le tue scelte editoriali non devono dare l’impressione di favorire i tuoi partner commerciali nel campo del ticketing; e, sinceramente, con RA questo non avviene o avviene in misura davvero minore, rispetto a quasi tutti i media lì fuori: questo proprio perché ha un forte potere contrattuale all’interno della scena, per diffusione ed autorevolezza, e può quindi può essere più autonomo. Solo che, se inizi a perdere l’autorevolezza, l’equazione inizia a non essere più in equilibrio. Ed è più facile perdere autorevolezza se stanno sempre lì tutti a farti le pulci, quotidianamente, a torto o ragione che sia.
RA insomma si è messo su un crinale molto difficile. E’ il crinale che gli ha permesso di ottenere 750.000 sterline dall’Arts Council, tantissimo; ma il guadagno così alto adesso, potrebbe tramutarsi in un costo più difficile da sostenere dopo. Hai voluto giocare su due tavoli per raddoppiare la pista da vincere: da un lato ti presenti come fattore occupazionale ed economico importante, dall’altro vuoi fare leva sul tuo essere leva culturale di valore. Ok. Sul breve, vinci. Parecchio. Altra annaspano e restano a mani vuote, tu argomenti e numeri alla mano vinci e convinci. Ma ti sei alzato da solo l’asticella tantissimo. Tantissimo.
Quindi se prima sono mugugni quando lanci “Save Our Scene”, e ci si chiede di quale scena si stia realmente parlando, poi i mugugni aumentano quando inviti non chiedere indietro i soldi dei biglietti acquistati tramite RA per gli eventi annullati, di modo sì da lasciarli ai promoter ma anche, nella fee di servizio, a RA stesso. Non c’è nulla di illecito in quello che stai facendo: ma ti poni da solo in una posizione di essere “attenzionato” il doppio, di essere criticato (anche in modo superficiale, anche in malafede in caso, non solo in modo ragionevole…) il doppio. E ci devi stare.
Qual è la morale, insomma? Ogni tanto non c’è una morale netta. Se siete arrivati fino a qui sperando in una conclusione che fosse “Resident Advisor truffatori di merda, corrotti che hanno rovinato la scena” non sarete accontentati, ma nemmeno lo sarete se speravate in un “Ecco perché Resident Advisor è innocente ed anzi benefattore”. La verità è che bisogna salvaguardare alcuni concetti-cardine: la cultura può essere un buon investimento e un lavoro serio, non solo un gioco per dopolavoristi e/o ricchi annoiati; chi crea occupazione merita sostegno a prescindere; se decidi di giocare su un doppio standard, quantitativo (fatturato) e qualitativo (purezza del contenuto), devi mettere in conto di subire il doppio delle critiche, il doppio delle pressioni, il doppio dei controlli. “Fair enough”, direbbero gli inglesi.
Se i bilanci dei media outlet di tutto il mondo e di ogni campo tornassero ad avere come voce largamente prioritaria del proprio bilancio i contributi dei propri fruitori/lettori, allora sì che potremmo tornare ad avere una informazione più pura, libera, corretta, indipendente. Ma questa cosa continua a non dirla quasi nessuno
Un problema vero, ed è il problema che sta a monte, è che oggi l’informazione non riesce quasi più a reggersi in piedi con le sue forze. Ha bisogno di investimenti pubblicitari; ha bisogno di diversificare (diventando appunto ticketing, o fornitore di servizi, o altro); ha bisogno insomma di essere meno “pura”, se vuole essere fatta bene e non solo nei ritagli di tempo, dalla visuale giocoforza ristretta del fan e/o dell’hobbysta. Tutto questo perché tutti noi, lettori ed appassionati, ci siamo adeguati al fatto che l’informazione “deve” essere gratuita. Se i bilanci dei media outlet di tutto il mondo e di ogni campo tornassero ad avere come voce largamente prioritaria del proprio bilancio i contributi dei propri fruitori/lettori, allora sì che potremmo tornare ad avere una informazione più pura, libera, corretta, indipendente. Ma questa cosa continua a non dirla quasi nessuno. La crisi dell’informazione, anche in campo musicale, siamo noi. La nostra convinzione più o meno inconscia che la cultura sotto forma di dischi o articoli non meriti di essere pagata, il nostro pensare che non ci sia bisogno di un professionista per capire ed orientarsi meglio in un determinato settore. Se malati, con un medico, lo fareste più difficilmente, nel momento in cui percepite la vostra malattia come potenzialmente grave: “Non mi rivolgo ad un professionista, tanto su Google trovo due dritte su come curarmi”. Cosa c’è di strano se poi le istituzioni per prime, con senso pratico, confondono cultura ed imprenditoria, visto che il valore specifico della cultura (e, appunto, la sua specificità) sono sempre più bypassabili?
Qui il discorso però ci porterebbe lontano. Ora, intanto, conta solo una cosa: se già queste 750.000 sterline per Resident Advisor ormai sono state stanziate, e lo sono, che servano almeno ad impedire licenziamenti e a mantenere attivo il canale dei collaboratori freelance. Si prospettano tempi duri. Chi perderà il lavoro causa recessione globale da CoVid, speriamo meno persone possibili, farà nel breve molta più fatica a trovarne un altro. Questi i fatti. Ogni posto di lavoro salvato, è una piccola conquista. E quindi, cerchiamo di privilegiare non chi spreca ed è clientelare, ma chi crea valore. Siamo in emergenza.