Per chi c’era, per chi ha visto, è stato davvero emozionante: (anche) perché è stato composto, essenziale, dignitoso. Le foto parlano chiaro: il tappeto di flightcase ordinatissimamente disposti ieri in piazza, a Milano, davanti al Duomo, fa impressione già visto dietro uno schermo, figuriamoci dal vivo. Una efficacissima rappresentazione visiva di quanto una intera categoria di professionisti – veri professionisti – è stata di fatto bloccata, o quasi completamente limitata ad agire. Questa pagina Facebook e gli hashtag #bauliinpiazza e #noifacciamoeventi erano e sono prima di tutto il cappello sotto cui riunire i tecnici specializzati dell’eventistica live e gli instancabili lavoratori al loro servizio: ingegneri del suono, light designer, stage manager, facchini, direttori di produzione, runner, rigger, sicurezza. Tutti coloro che rendono materialmente possibile un concerto, un festival, una serata speciale dove la musica gioca un ruolo importante. E visto che è un mondo dove – come in tutte le professioni specializzate che hanno mantenuto il tocco umano – ci si conosce e si sente un corpo unico, non sono mancati neppure responsabili comunicazione, fotografi, giornalisti, in un senso di solidarietà (“Un unico settore, un unico futuro”, recitava non a caso lo striscione) davvero autentico, e sentito.
L’impatto è stato fortissimo, almeno per chi ha visto in diretta, ma è bello in queste ore vedere circolare tante immagini della manifestazione di ieri anche sui social. Così come era bello in piazza, lì sul posto, aver intercettato la curiosità di chi passava di là per caso – Milano, nel suo struscio del sabato, ieri non accusava minimamente il panico da pandemia, Corso Vittorio era pieno, Piazza Duomo pure – e veniva a chiedere lumi su cosa diavolo stesse succedendo. Ed ancora più bello, a spiegazione avvenuta, incassare i loro “Ah. Bravi. Fate bene. Avete ragione”.
In realtà la situazione è complessa. Una cosa va detta chiara: nessuno dei presenti vuole sfidare le leggi, nessuno vuole forzare la mano o fare fughe in avanti che, in tempi pandemici, sarebbero irresponsabili. La dignità e la compostezza citate prima, veramente un tratto distintivo, nascevano in primis da questo. Oh sì. Il mondo della musica live ha voluto dimostrare – e ha dimostrato – che ha tutte le capacità ma soprattutto tutta l’attitudine per gestire in sicurezza un evento, rispettando tutte le norme di distanziamento ed ordine e, al tempo stesso, creando qualcosa di forte, di spettacolare, di impressionante. Niente toni sguaiati, niente slogan negazionisti. E niente toni antigovernativi. Solo la constatazione di un dato di fatto: esistiamo. Siamo professionisti. E non siamo invisibili. Impossibilitati per lo più a lavorare per legge, ma non invisibili; quasi completamente dimenticati dalle varie misure di welfare emergenziale, ma non invisibili.
…se non agli occhi di chi non vuole vedere, o ha ancora una concezione stupida della società, dell’economia e delle professioni dove musica&eventi sono saltimbanco, frizzi e lazzi (sembravano saltimbanchi, tutte quelle persone vestite di nero coi loro flightcase?). In quella piazza erano rappresentati fatturati pesanti, molti posti di lavoro, alte professionalità, etica e dedizione alla professione da portare ad esempio all’Italia tutta (ecco, quest’ultima cosa spesso proprio la si dimentica); erano rappresentati i mezzi e gli eventi attraverso cui alcuni dei più ricchi brand (e pure i meno ricchi…) così come alcune delle persone più influenti nel immaginario collettivo contemporaneo dispiegano le loro dinamiche, la loro influenza, la loro capacità di incidere sul mondo e sull’economia. E incidono tanto. Vi pare uno scherzo? Vi pare poco? Vi pare questione di “…rinunciare ad una serata”?
Si farà quel che si potrà. Se le condizioni pandemiche imporranno una serrata totale, serrata totale sarà. Punto. Ma al tempo stesso, ogni volta che si blocca l’industria degli eventi – che è una industria che porta le persone ad incontrarsi, a socializzare, a respirare cultura, a masticare emozioni, a confrontarsi – bisogna rendersi conto che è una scelta grave, gravissima, da fare solo in caso di drammatica necessità e non con la leggerezza di chi tira un tratto di penna su qualcosa di sacrificabile nel breve, per placare l’opinione pubblica più superficiale, “…e poi cazzi loro, potevano scegliersi un altro lavoro”. Così come bisogna capire che ci sono tanti modi per limitarla sì, ma non bloccarla: si possono chiedere limitazioni, regole, precauzioni, normative aggiuntive. E nel limitarla – così come quando si limitano i bar, i ristoranti, i piccoli esercizi commerciali, i retail delle catene, le scuole – devono esistere dei degni ammortizzatori sociali, almeno fino a quando possibile. Non è una difesa corporativa: è una difesa di civiltà. Se non fosse chiaro, lo ripetiamo: è una difesa di civiltà.
Bisogna avere chiara insomma qual è la posta in gioco. Perché allora, e solo allora, si potranno valutare davvero per bene le misure da prendere
Qualcosa in più di un mero “Vogliamo ballare”, “Vogliamo uscire la sera”, “Vogliamo andare ad un concerto”, che comunque già di loro non sono (solo) richieste da società occidentale viziata che si annoia: anche perché provate a pensare a cosa sono gli stati dove la libertà di circolazione è limitata e dove il tempo libero del cittadino è strettamente monitorato e contingentato… dittature umilianti, in cui ognuno di voi che legge non vorrebbe finire mai. Bisogna avere chiara insomma qual è la posta in gioco. Perché allora, e solo allora, si potranno valutare davvero per bene le misure da prendere. Solo smettendo di prendere in giro le persone ma ammettendo tutti i gradi del processo decisionale si avrà una piena presa di consapevolezza su quanto siano importanti da seguire le misure predisposte per ridurre la diffusione del CoVid.
Ad esempio. Prendere in giro le persone è anche non dire che un concerto col pubblico ordinato e gestito è molto meno pericoloso del prendere i mezzi di trasporto pubblico per andare a lavorare al mattino. Prendere in giro le persone è dare tutta la colpa alle discoteche tout court dell’esplosione dei contagi in Italia, quando invece essa è avvenuta parecchie settimane dopo la serrata del 16 agosto e, in generale, in regioni come Puglia ed Emilia Romagna (le più “generose” nell’aprire al ballo) non si sono verificati focolai particolari legati alle sale da ballo né c’è stata una situazione fuori controllo nei contagi sia nella seconda metà di agosto, che in tutto settembre. Prendere in giro le persone è non dire che si vogliono colpire le situazioni di “divertimento e socializzazione” non per una certezza scientifica su quei contesti, ma perché di tutte le forme in cui gli esseri umani passano tempo uno accanto all’altro sono viste come quelle più sacrificabili rispetto al lavoro ed alla produzione – non sono insomma provvedimenti mirati e specifici, sono provvedimenti “esemplari” che si spera spingano le persone alla prudenza e alla responsabilità.
Forse però, chissà, sarebbe più il caso – dopo tutti questi mesi – di trattare i cittadini da responsabili: dire le cose come stanno, evitare i provvedimenti “simbolo” che colpiscono A per darla ad intendere a B, spiegare che tutti dobbiamo lottare tra prudenza e necessità di sopravvivere economicamente, socialmente, umanamente. Si tratterebbe di ammettere che in tutta l’estate ci sono regioni – magari gestite da baldi sceriffi, pronti a scoppiettanti conferenze stampa – che non hanno fatto nulla per irrobustire le proprie strutture sanitarie in previsione di una seconda ondata CoVid (…seconda ondata non certa ma più che prevedibile, purtroppo).
Sì, sappiamo l’obiezione: molti cittadini sono delle capre e degli irresponsabili, non puoi trattarle da persone intelligenti e mature, non ottieni un cazzo, bisogna minacciare e proibire cento per sperare di ottenere dieci, eccetera eccetera. Boh. Può essere. Ma, prima di tutto, non c’è la certezza assoluta che sia così. Secondo di tutto, tu puoi proibire e chiudere quanto vuoi, ma una persona non consapevole della gravità della situazione e scettica nei confronti delle autorità (…se l’autorità ti tratta da stupido, perché dovresti rispettarla?) troverà sempre e comunque il modo di infrangere le leggi, fare casini, non rispettare distanziamenti. Forse bisogna iniziare a ragionare anche su tutto questo, meglio di quanto lo si sia fatto finora. Forse bisogna smetterla con la corsa al capro espiatorio (il jogger, il runner, il clubber, il teenager…), rendendoci conto che questa malattia colpisce tanto gli adulti quanto i più giovani, e colpisce tanto nei luoghi divertimento quanto nei luoghi di lavoro e di produzione. Anzi, dati alla mano – per quel che ne sappiamo oggi – più nei secondi che nei primi. Forse bisogna capire che non puoi illudere le persone di poter essere al sicuro, quando anche nazioni organizzate come Olanda, Francia, Spagna non riescono a contenere la diffusione del contagio e quando pure il faro della civiltà occidentale (sì, all’America piace ancora adesso raccontarsi così) è andato incontro ad una catastrofe con centinaia di migliaia di morti. Ma non bisogna nemmeno dimenticare che la pandemia ad oggi ha arricchito chi ha una stipendio fisso, in Italia come altrove (stessa busta paga, meno spese), ma un collasso della libera impresa e dei piccoli professionisti – anche loro parte del tessuto economico – porta inevitabilmente ad un collasso anche della grande impresa, che non riesce più a vendere le sue merci, che delle entità statali, che perdono l’indotto fiscale, quindi potrebbe anche essere a breve che la tua busta paga pufff, scompare. C’è chi si lamenta di aver fatto mesi in cassa integrazione, a stipendio decurtato: in parte dimentica che quei soldi sono un sussidio straordinario non infinito ed interamente in perdita per chi emette l’assegno (aka lo stato, già dissestato di suo), in parte non pensa che ci sono tanti lavoratori che, se impossibilitati a lavorare, altro che cassa integrazione, non ricevono nulla, possono tranquillamente morire (o chiedere soldi in prestito ad amici, parenti, mafie), andare alle mense della carità o andare a rubare.
Forse bisogna smetterla con la corsa al capro espiatorio (il jogger, il runner, il clubber, il teenager…), rendendoci conto che questa malattia colpisce tanto gli adulti quanto i più giovani, e colpisce tanto nei luoghi divertimento quanto nei luoghi di lavoro e di produzione
Ecco. Prima di irridere e sottovalutare la musica e il divertimento e le industrie ad esse connesse, pensiamoci due volte. Poi possiamo anche decidere che musica e divertimento sono al momento sacrificabili e l’apparato più strettamente produttivo no, ok. Ma in primis per la salute dell’apparato più strettamente produttivo, dobbiamo dare degli aiuti e delle tutele per una ecologia sia economica che sociale del nostro sistema a chi è rimasto indietro (scusate la citazione guevariana, ma “La velocità di un esercito si vede dal soldato più lento, non da quello più veloce”). Si tratta poi anche di capire come è possibile che ci siano persone che non rischiano di perdere il posto di lavoro nell’immediato e nemmeno degli stipendi o delle rendite succeda quel che succeda, e altre che invece hanno visto il loro reddito azzerarsi o quasi senza che ne avessero colpa, senza che abbiano fatto delle scelte sbagliate: è giustizia, questa? O è una lotteria di sommersi e di salvati, in cui chi ha avuto la fortuna o la paraculata di finire in determinati posti di lavoro o di ereditare capitali è più meritevole di altri?
Foto di copertina e qui sotto di Francesco Prandoni