Un album complesso, “Amygdala”. Un album che prima di tutto ci ha dato un senso di delusione, ma il perché è presto detto: chi scrive trova la Pampa una delle label più interessanti ed intelligenti nel panorama minimal-e-dintorni, anzi, probabilmente è la più interessante ed intelligente. Uscite ben pensate e ben selezionate, gente come Isolée a cui non puoi dire nulla (se non complimenti) ma anche gente sottovalutata come Ada (la sua electro gentile ed aerea meriterebbe molta più attenzione, la stessa attenzione ad esempio che non è stata data negli anni alla bravissima georgiana Natalia Beridze: si vede che quel genere lì non attecchisce fra i tamarri e gli opinion leader). E poi ancora Robag Wrühme, un pazzo furioso ma anche un genio assoluto, uno dei pochissimi che sempre riesce, è riuscito e riuscirà a fare minimal techno ultra-creativa e divertente, un’impresa che manco liquefare il sangue di San Gennaro. Insomma, il lavoro di Dj Koze, che della Pampa è capo e fondatore assieme a Marcus Fink, ci ha sempre esaltato, scelte mirate, non scontate, sempre azzeccate. Il lavoro come discografico, intendiamo. Ma anche quello come produttore: non ci ispirava magari lo stesso entusiasmo, ma che Stefan Kozella fosse uno di quelli bravi, uno di quelli da salvare in una galassia spesso artisticamente pigra, ci è sempre parso evidente.
Scorrendo comunque un po’ di mesi fa in anteprima la tracklist di “Amygdala”, con tutte le sue ospitate di prestigio (Matthew Dear, Caribou, Apparat), avevamo subito capito che era il classico “Ok, io sono il capo della label, ora mi faccio il mio cd finalmente, sparo il capolavoro”: situazione o esaltante, o pericolosa. Esaltante: perché appunto poteva essere il vertice creativo e produttivo di una label che già ci stava e sta regalando tantissimo; pericolosa: perché chi ha il coraggio di contraddire il capo?, un capo che magari è in ego trip totale, visto che appunto affastella ospitate di enorme prestigio quindi si vede che ci tiene a fare il pavone e dimostrare quanto è er mejo fico der bigonzo? E’ come quando Garnier ha fatto “Cloud Making Machine” o i Coldcut “Sound Mirrors”: dischi palesemente ambiziosi, soprattutto produttivamente ambiziosi molto di più rispetto alla media (qualitativamente altissima) delle release delle rispettive etichette, F Comm e Ninja Tune. Ma dischi, alla fine, così così. Un po’ tronfi. Dove si avvertiva in modo evidente la mancanza di qualcuno che dicesse ai boss “Anche bello, eh; ma non abbastanza, devi mettere tutto più a fuoco, infilarci più qualità e sostanza…”. Se poi aggiungi che nelle interviste pre-uscita Kozella andava in giro a dire che “Amygdala” era il suo “Sgt. Pepper”, con riferimento al capolavoro totale dei Beatles… ehm…
E quindi: ci siamo approcciati all’ascolto del disco aspettandoci o un capolavoro vero, o un mezzo fallimento. Il fatto che “Amygdala” oggettivamente non sia un capolavoro, pur mirando molto in alto (per le ospitate, per la ricchezza degli arrangiamenti, per la varietà di idee), c’aveva dato di conseguenza la prima impressione di un mezzo fallimento. Va però detto che qua, molto più che in altri casi, va data una chance all’album concedendogli più ascolti, e fortunatamente così abbiamo fatto. Tolte alcune recensioni in giro, vedi Pitchfork, che nel parlare di ricchezza e qualità melodica esagerano (qualche arrangiamento interessante c’è, eccome, per il resto però raramente ci si discosta dal gradevole / sufficiente), in effetti il lavoro che Koze si è sobbarcato nell’architettare le tredici tracce non è banale. Non lo è soprattutto se si pensa alla piattezza media in cui si dibatte da anni e anni la minimal techno. Facile andare in tal senso con la mente ad “Alcachofa” di Villalobos. Che però è uscito un decennio fa. Dieci anni dopo, ciò che un tempo ci meravigliava oggi dovrebbe essere lo standard minimo. No? Quindi ci rifiutiamo di meravigliarci ancora. Però tutti coloro che pensano di misurarsi col canovaccio minimal techno dovrebbe ascoltare obbligatoriamente “Amygdala” e analizzarne il costante lavorìo su ogni particolare, la ricchezza di spunti, la voglia di stare lontano da ogni pigrizia e da ogni routine del genere in questione. In una parola: la creatività. Quella vera.
Al tempo stesso però a Koze non possiamo fare a meno di rimproverare una certa staticità dinamica (con tante idee e tanti spunti presenti, perché non affondare mai il colpo? Perché restare sempre così leggeri nell’appoggiare le architravi ritmiche?) e poi, come già accennato, il fatto che non sulle armonie ma proprio sulle melodie si poteva fare un lavoro molto migliore, più ricercato, più efficace, più spiazzante, meno levigato. I veri capolavori ti ribaltano. “Amygdala” ti strappa rispetto e consensi. Nel dubbio se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto, stiamo però decisamente dalla parte di quello mezzo pieno: questo album non avrà anche un sacco di potenziale inespresso e punti su cui poteva essere migliore, ma va fatto rientrare obbligatoriamente nei vostri ascolti (e diremmo pure nei vostri acquisti).