Holden ha naso. Coloro che hanno una qualche idea dell’aspetto fisico del ragazzo in questione, mi permetteranno il gioco di parole. Ma tant’è.
Nell’elettronica e più in generale in tutta la musica, il bello del gioco è che ci si può permettere quasi tutto, si possono scavalcare i confini oppure mettercisi a cavallo, aspettando il momento giusto. Si può stare cauti oppure rischiare. James Holden se l’è giocata bene. Perché ha fiuto. Sono passati sei anni da quel capolavoro che fu “The Idiots Are Winning”; nuove sonorità rivolte a un pubblico musicalmente intelligente (ma nemmeno troppo), ripescate nelle paludi del contemporaneo e del classico, passate al setaccio come cercatori d’oro e trasformate in gemme che avrebbero, almeno in parte, cambiato alcune concezioni dell’ascolto. Un viaggio cosmico popolato da alieni che, con verdi e secche e lunghissime gambe, hanno zampettato in quell’universo senza paralleli, tracciando interminabili linee di synth e tonfi di beat. Sempre attenti a spezzarle di tanto in tanto, a mischiare le orme, così da incastrare o incasinare noi scienziati o curiosi, che cerchiamo, da sempre, una via di comunicazione, consapevoli che l’universo è infinito e infiniti ma talvolta impossibili sono i modi per comunicare.
Ecco. Sei anni e tre già furono di Border Community, in cui James si è seduto sul confine, con ormai un pò di se stesso dall’altra parte, sei anni per farsi attendere e desiderare, sei anni a tessere la tela della sua etichetta, a forgiare campioni come Nathan Fake, Fairmont, Luke Abbott, a programmare direzioni per poi distruggerle.
Holden è un uomo sereno. Certamente lo prova a dire simpaticamente con “parole” sue. Scrive, in un suo post Twitter di più di un mese fa: “Esiste già un genere chiamato Psychedelic-Synth-Garage? Ora si”. Se la fa e se la canta.
Così gli alieni sono arrivati e hanno imparato a comunicare con noi, oppure siamo noi che ci siamo riusciti, poco importa. Holden ripesca gli stessi suoni del 2006, ma li rielabora, insegnando a taluni, come si fa a comporre. “The Inheritors” è un disco psichedelico, è vero, ma in quel modo acido e sporco e senza compromessi. E’ come se aspettare tutti questi anni a farlo uscire, pensandolo e maturandolo, lo avesse reso un Big Bang sonoro irrefrenabile. E’ un disco trasparente, nonostante quello che si possa pensare ascoltandolo; è “felice”, perché solo una testa, sicuramente pazza ma serena, può arrivare a concepire tracce di una chiarezza cosmica come “Rannoch Dawn”, la title track, oppure la bellissima “A Circle Inside A Circle”, che sembra ripescata da un buco profondo, una marcia liquida nelle pozzanghere dei crateri lunari.
Holden si fa le seghe. Se il debutto è stato un disco meticoloso e, probabilmente, arrivato alla vittoria grazie anche a questo, “The Inheritors” è una masturbazione continua, una ricerca spasmodica di un amplesso trattenuto e trattenuto e trattenuto, a denti stretti, scovando tra gli astratti pensieri nell’istintività più remota. Nonostante questo è un processo ben definito, selezionato e calcolato, come molte volte accade, quando ci si masturba. “Renata”, il singolo, è la chiave di volta che regge tutto, che ipnotica incanala verso di sé, come una calamita, le altre quindici tracce. Sei minuti di occhi chiusi e delle luci che vedi riflesse nel buio delle palpebre, flash caleidoscopici che mai potrai spiegare o ridisegnare, perché per farlo dovrai aprirli. Gli occhi.
C’è spazio, nel finale, per la cassa dritta, se così si può definire riferendosi al buon James e, nel complesso, a gran parte delle produzioni Border Community. C’è posto per quel tipo di “musica intelligente” che lui si è sempre portato dietro, come un lamento che tutti faticano ad ascoltare, ma di cui non possono fare a meno.
Il sipario si chiude con la struggente “Self-Playing Schmaltz”, gli alieni tornano nello spazio, sparando la bianca luce ad abbronzare le lacrime, lasciando una scia vaporosa che, entrando nelle narici, profuma di ghiaccio sintetico.