Mi pare già di sentirlo, il nostro Damir Ivic: “ma tu hai un’idea dell’hip hop che è troppo figlia degli anni ’90 italiani”, “ma guarda che i Public Enemy negli Usa non se li caga nessuno e i Dead Prez sono pura testimonianza, come i partiti che voti tu”, “ma guarda che se leggi i testi del Wu Tang Clan anche loro sono tutti figa e droga”. Tutto vero, per carità. Sarò io che idealizzo, ma l’idea del rap attuale come combinazione di cose brutte o poco interesasanti, e occasione sostanzialmente persa, non riesco a togliermela dalla testa. Mica bisogna chiamare alla rivoluzione ad ogni rima, ok, ma esistono anche delle vie di mezzo? “Il rap è così, è sempre stato così, prendere o lasciare”, dicono quelli che lo osservano da dentro. Quindi una cosa che è sempre stata in un dato modo non può cambiare? Non diventa invece enormemente più interessante proprio quando cambia, quando reagisce con elementi in qualche maniera esterni? E quanti altri generi godono di un simile salvacondotto morale? Perché lo stesso testo se cantato da chiunque è sessista, ad esempio, ma se lo scrive un rapper è solo “hip hop”?
Qualche anno fa gira la voce: c’è questo Kanye West, è intelligente, è figlio di una professoressa universitaria e di un ex membro delle Pantere Nere, uno così non lo si sentiva da tempo, è il meglio, è il futuro. Ammazza. Sento il disco: tutto qui? Sento quello dopo: tutto qui? Ne salto un paio, amen. Lui intanto diventa una specie di icona per il pubblico di fede hipster/indie; inspiegabilmente, a meno che non basti qualche coro di Justin Vernon/Bon Iver. Forse perché nel frattempo hanno cominciato ad andare di moda i negri, ma non quelli troppo negri che al massimo vanno esaltati con fare ironico. Sento il quinto disco allora, quello lunghissimo con duemila ospiti, quello che piace a tutti. Mah, tutto qui? Un sacco di carne al fuoco, una voracità creativa che porta non solo delizie. È sufficiente, quando un album annoia, la constatazione che il 99% dei milionari nella sua posizione non farebbero che ripetersi, mentre Kanye osa, cambia, prova, gioca, sperimenta, si reinventa, fa quel cazzo che vuole?
Ha scritto bene Lou Reed – esatto, quel Lou Reed – nella recensione di “Yeezus” scritta per il suo blog: “Non ho mai pensato alla musica come una sfida – il pubblico è sveglio almeno quanto te, sempre. Lo fai perché ti piace, perché pensi che ciò che stai facendo sia bello. Quando ho fatto “Metal Machine Music”, il critico del New York Times scrisse che era molto impegnativo. Non ci ho mai pensato in quel senso. Pensavo, ‘Wow, se ti piacciono le chitarre, queste è chitarra pura, dall’inizio alla fine, in tutte le sue variazioni. E non sei legato a un ritmo’. Questo pensavo. Non, ‘ti sfido ad ascoltare qualcosa che io ho fatto’. Penso che anche West non ci abbia pensato un solo secondo.”
Ascoltando “Yeezus”, sembra che abbia pensato a tutto e a niente, in realtà.
A tutto per la quantità di suggestioni e riferimenti musicali che trovano posto nelle sue dieci tracce, una più appassionante dell’altra. Stili legati al passato (acid house) e al presente (drill) della Chicago in cui Kanye è cresciuto, dancehall giamaicana, rock industriale e new wave. Pochissimo hip hop in senso canonico, se non nei campioni soul arcaici della conclusiva “Bound 2” e – per associazione di idee – nel guardare a quanto stanno facendo due nomi che da quel mondo partono, Odd Future da un lato e The Weeknd dall’altro. Suono analogico e interferenze digitali, bassi e batterie in distorsione, voce spesso e volentieri urlata con energia punk, sintetizzatori minacciosi. Cambi di tempo e atmosfera improvvisi. Un’aria scurissima squarciata da melodie luminose. Un sovraccarico sensoriale evidente, tanto che a un paio di settimane dall’uscita è stato convocato Rick Rubin per sfoltire, scarnificare, dare un senso al caos, sintetizzare tutto in quaranta minuti. Missione compiuta: “Yeezus” pare in questo senso la versione compatta di “My Beautiful Dark Twisted Fantasy”, anche lui diretto in mille direzioni e zeppo di ospiti; o quella da incubo di “808s & Heartbreak”, a base elettronica anche lui ma lontano, molto lontano.
In quantità anche gli ospiti, siano essi produttori (ogni base ha almeno quattro o cinque firme), voci o campionamenti portanti. I Daft Punk innanzitutto: i bleep electro grezzi di “On Sight”, con sample del classicone “Acid Tracks” dei Phuture e ritornello soul-pop; il riff hard-rock e i tamburi battenti della potente “Black Skinhead” (della partita anche Brodinski, Gesaffelstein, Lupe Fiasco e Jack Donoghue dei Salem fra gli altri); i bassi rumorosi e gli inserti ghetto/rave di “I Am a God”, fra campioni di Capleton e del compositore indiano R.D. Burman, e finale di urla e spasimi su lunghe note di synth; il portamento drill grasso e ignorante di “Send It Up”, con ululati e strofa di King Louie, tracce di Beenie Man e cernieroni sintetici da ogni parte. Hudson Mohawke e Lunice, ovvero TNGHT, vendono a Kanye una delle loro prime tracce (tutto vero) e questa, fatta dialogare ai limiti dell’incongruo – musicale e lirico – con il classico “Strange Fruit” interpretato da Nina Simone (che per fortuna non legge il testo) diventa “Blood On The Leaves”, trap e poesia al pianoforte. Il promettentissimo Evian Christ partecipa a “I’m In It”, ritornello ragga lento di Assassin e fischioni, e controcanto soul in falsetto di Justin Vernon. “Guit Trip”, dal canto suo, vibra di sintetizzatori purple e soul progressivo, con Kid Cudi che canta e il refrain del giamaicano Popcaan trattato pesantemente con vocoder. “New Slaves” è una bomba bass sporca ed essenziale, che sfocia prima in un falsetto di Frank Ocean, e poi addirittura in un brano sognante e meraviglioso (“Gyöngyhajú lány”) del gruppo prog-rock ungherese Omega, anno 1969. “Hold My Liquor” è una specie di confessione notturna a tre voci (Kanye, Vernon, Chief Keef) su cassa dritta e sequenze acid, con melodie chiesastiche e colossale finale ipnagogico a base di assoli di chitarra plastificati. Molto The Weeknd, appunto.
Sembra invece abbia pensato a niente, dicevamo molto più su, per quanto suggerito proprio dal fondatore dei Velvet Underground: l’album straborda di spontaneità, istinto, disinteresse per regole e codici relativi a qualsivoglia genere. Fino a sfiorare un’arroganza magari meno spaccona di quella di tanti colleghi, che probabilmente ne hanno molto più bisogno, ma sostanziale. Aggiungere al quadro il titolo del disco – il suo nomignolo “Ye”, incrociato con “Jesus” e storpiato – e quello di un brano come “I Am a God”, per nulla ironico. Aggiungere pure che se fai West di cognome e chiami tua figlia North, almeno un pochettino il contatto con la realtà l’hai perso, e il tuo ego tende a gonfiarsi. Ma se si gonfia così, faccia pure.
Restano i testi, purtroppo. Decisamente non il suo forte. Ancora Lou Reed, perdonerete: “Penso che avesse giusto un paio di versi già scritti per questa canzone, ma che al momento di registrare la sua voce sia sia semplicemente lasciato andare, e si sia fidato del proprio istinto. Perché non riesco a immaginare che qualcuno abbia davvero scritto la maggior parte di quei versi.” Parla di “New Slaves”, ma potrebbe parlare anche di tutte le altre. Fa un complimento? Forse no. Quanti flash sulla vita dissoluta di un milionario nero possiamo ancora ascoltare, onestamente? Quante allusioni più o meno (o per niente) velate a coca e cazzi in bocca, dollari e troie (dopo attenta lettura dei testi, le alternative “donne” o “ragazze” non risultano presenti), prestanza sessuale e Mercedes, stilisti e quant’altro? Avrà pure uno sguardo lievemente più problematico e depresso di 50 Cent o Guè Pequeno, ci vuole poco, ma andiamo. “Razzismo verso i negri poveri”/”Non toccare nulla nel negozio”/E razzismo verso i negri ricchi/”Entra, compra ancora/Cosa vuoi, una Bentley?/Una pelliccia?/Una collana di diamanti?/Voi neri volete tutti le stesse cose”, dice sempre in “New Slaves”: ma non hai appena finito di vantarti delle stesse cose, Kanye Omari? Autocritica?
E l’uomo nero che scopa le donne bianche come rivalsa, allora? Ancora in “New Slaves”: “Nel frattempo la DEA/Insieme alla CCA (Corrections Corporation of America, una compagnia privata di prigioni, negli Usa c’è persino questo – nda)/Cercano di chiudere in gabbia i negri/Cercano di fare nuovi schiavi/Una prigione a proprietà privata/fatevi fare il vostro preventivo/Sono probabilmente tutti negli Hamptons/A vantarsi di quanti soldi hanno fatto” è un gran bel verso, Kanye ha fama di tipo conscious e qui la conferma. Peccato per la soluzione da pamphlet razzista del Settecento: “Fanculo tu e la tua casa negli Hamptons/Scoperò la tua sposa da Hamptons/Verrò sulla sua camicetta da Hamptons/E nella sua bocca da Hamptons”. E “Le ho messo dentro il pugno come un simbolo dei diritti civili” (da “I’m In It”) allora, papà perdoni il figlio? Non è semplicemente troppo?
“Yeezus” spiazza e fa pensare insomma. Genera confusione, lo si sarà capito anche da questa recensione. E per questo è il benvenuto.