Ogni fine settimana, nonostante tutto, viene un po’ da sorridere. E viene in mente il vecchio detto per cui se tutti quelli che dicono di essere stati al primo concerto dei Ramones, o al debutto dei Sex Pistols a Manchester ricostruito così bene in “24 Hour Party People” di Michael Winterbottom, ci fossero stati veramente non sarebbe bastato lo Yankees Stadium, o l’Old Trafford. “Residente al Berghain”, “residente al Panorama Bar”: quanti se ne contano in ogni fine settimana italiano? Beh, se qualcuno può fregiarsi del titolo e mettere i due nomi tra parentesi dopo il proprio (il primo soprattutto, in questo caso), senza aver paura che qualcun’altro vada a controllare le presenze sui programmi del leggendario club berlinese, questi è senza dubbio Marcel Fengler. Uno che nella fu stazione elettrica è entrato quando ancora tutto doveva cominciare, e che praticamente da sempre ne è fra i residenti veri, fra i motori musicali e artistici.
Eppure, dopo una manciata di 12″ marchiati dall’etichetta di famiglia Ostgut Ton e un altro po’ di singoli per la Mote-Evolver di Luke Slater, nonchè dopo un eccellente “Berghain 05” per la collana di mixati legata al club, il suo primo album è uno dei meno immediatamente associabili al sound del posto, piano di sopra o piano di sotto che sia, fra quelli pubblicati dalla cricca di produttori e dj lì di casa. Non come “MASSE”, colonna sonora collettiva dell’omonimo balletto per la quale il nostro ha inaugurato l’alias DIN in combutta con Efdemin, ma insomma.
Cose in quattro quarti ce ne sono, certo, e pure notevoli, e varie. “Trespass”, con il suo arpeggio subacqueo su sfondo glitchy, cassa dritta un passo indietro e lunghe volute cosmiche in cui si riflette e cambia pelle di continuo il tema principale. La melodiosa ed espansiva “Jaz”, house elegante con legnetti tropicalisti e cori solenni sullo sfondo. La contrastata “Sky Pushing”, base scura con rintocchi tetri da campanile da un lato, shuffle di charleston e tocchi delicati sui toni alti di uno xilofono dall’altro. Ma nulla che paia esplicitamente pensato per la pista, giusto “The Stampede” forse, che su un ribollire di microsuoni piazza un treno espresso dal gusto vintage, che sbuffa e tira dritto senza però cadere in dinamiche piano/forte classiche, mirando alla mente più che al corpo. E alla mente mira anche il resto di “Fokus”, tanto ritmico quanto astratto e ambientale, tanto berlinese quanto britannico, nel senso di radici IDM e techno soprattutto. Si vedano ad esempio “Break Through” e “Mayria”, che aprono l’album e alzano piano piano il tiro fino alla citata “The Stampede”, la prima fluttuando nell’aria senza ritmo, la seconda partendo tetra e inserendo un broken beat industriale scoppiettante. Si vedano l’umidità dubbata di “Distant Episode”, fra lunghe note sospese di synth e crepitio di uccelli e animali vari fra le liane, o le sequenze da calcolatore impazzito di “Dejavu”, i bleep acidi di “High Falls” o quelli che squarciano le volute placide della conclusiva “Liquid Torso”.
Il tutto, va detto, senza aprire nuove strade o rivoluzionarne di vecchie, ma con una varietà di ispirazioni e un controllo della situazione – dei suoi particolari e dei suoi movimenti sottocoperta soprattutto – e dell’atmosfera superiori alla media.