“Chissà cosa sta guardando? Cosa vede?”. Questo ho pensato più volte l’altra sera al Tinì quando i miei occhi hanno incrociato quelli di Ricardo Villalobos, ammesso che questo scambio di sguardi non sia stata esclusivamente una mia fantasia. A giudicare dagli occhiolini, dai sorrisi, dai baci lanciati e dai cenni d’intesa, però, la “presenza” del cileno non può essere messa in dubbio. Ripensando, poi, al disco che andava proprio quando con quegli occhi da diavolo scrutava i giovani intorno a lui ogni dubbio viene spazzato via. A modo suo era al timone di tutto.
Ma andiamo con ordine, perché ogni volta che ho la possibilità di assistere e ascoltare un suo dj set ciò che riesce a colpirmi e a sorprendermi è la sua capacità soprannaturale di “vivere” il momento di ciascun disco e di ciascun missaggio, pur presentando a chi ha di fronte la versione più astratta e apparentemente dissociata di se stesso. Tu pensi sia altrove, per i cazzi suoi a farsi un giro tra i suoi pensieri, ed invece è lì che armeggia a modo suo con il mixer, tirando su e giù i canali di giradischi e cdj cavalcando l’enfasi del momento. Che si tratti di un dono del cielo o meno, questa empatia con il suo pubblico – quello che almeno in parte lo capisce, è chiaro – rappresenta la parte più bella del Villalobos artista e personaggio, la ragione e la spinta che lo porta ad agire come la figura più underground tra le rockstar della musica da ballo. Non ce ne vogliano gli altri, nessuno escluso: Ricardo non forza il suo set per inserire meravigliose hit del passato; non sbuffa e non si piazza impettito di fronte al mixer con mussoliniana fierezza. Ricardo balla, suda da morire e scandisce il tempo battendo il piede a terra (come solo Fabio De Luigi nei panni di Olmo saprebbe fare); lui si gode ciò che sta facendo e cosa ci sta facendo ascoltare; sorride, scherza e incastra (a volte anche in modo grossolano) dischi con l’intento di costruire quel flow che talvolta solo i veri cultori, non necessariamente gli esteti del genere, riescono a comprendere. In buona sostanza Ricardo fa quel che vuole, tendo ben presente che un conto è essere un intrattenitore, un altro è essere un artista – e non ci sono dubbi su quale sia l’abito che il cileno ha scelto di indossare per la vita, cercando di tenere il più possibile lontane le due vesti.
Questo non vuol dire che anche lui non sia diventato anche un personaggio mediatico, basti pensare a quanti ogni weekend ballano davanti a noi col braccio teso al cielo e il polso in costante avvitamento, ma occorre sempre tener presente le ragioni per cui Tizio o Caio ha un seguito tanto numeroso: non esiste un “Ricardo-font” (a proposito, ma che brutti sono quei flyer dove settanta dj sono scritti in settanta modi diversi?), è presente il giusto in rete e sembra essere irraggiungibile a chi decide di spedirgli i propri promo. Basta stargli vicino per dieci minuti e scambiarci quegli sguardi a metà tra un ecografia e “dove sono?” per capire che Ricardo Villalobos non è però uno che se la tira. Potrebbe tirarsela uno che non dorme per tre o quattro giorni, suona ininterrottamente (nemmeno fosse in gioco la vita di un suo caro) e, dopo essere atterrato dal Sonus Festival e aver messo i dischi per quattro ore al Tinì, è pronto a prendere un altro volto per andare a suonare ad un after ancora una volta in Croazia? Potrebbe tirarsela uno che ti ringrazia dopo aver suonato? E qui non si sta parlando del classico inchino o le dita messe a forma di cuore per dichiarare il proprio affetto agli ultimi superstiti della nottata, si parla di una persona che saluta e ringrazia uno ad uno chi ha nelle sue immediate vicinanze. Ok, gli scettici potranno pure pensare che tratta semplicemente di una parte, ma quanti altri lo fanno? Ricardo, nei limiti concessi dalle “contingenze” di una serata, è una persona emotivamente sincera, così come sincera è la musica che propone.
A volte si procede in modo zoppicante, sovrapponendo con perloniana certosinità i diversi addendi che costruiscono il groove del suo sound; altre volte si viene letteralmente travolti dall’impeto e dalla classe dei suoi successi (all’Amnesia si fa giorno spesso e volentieri sotto i colpi di “Dexter”) e degli evergreen firmati dai vari Robert Hood e soci (“Model 8” su Plus 8 è tra i più gettonati dell’ultimo periodo). Altre volte, e quella al Tinì è una di queste, si può veder scivolar via il dj set attraverso perle come “Mas Profundo Que Mis Pies”, dal nuovissimo “Turbo Sematic EP” nato dalla collaborazione con l’insostituibile Max Loderbauer. Come sempre il miglior modo di prendere la strada di casa.