La passione sconfinata per la musica, i modi pacati e suadenti con cui introduce e tratta gli argomenti che ha a cuore, la calma con cui prende un bel respiro e si immerge in discorsi che spesso prendono il largo travalicando i temi originali facendoli diventare ancor più ricchi e interessanti. Questi sono solo alcuni degli aspetti che fanno di Ricky L un personaggio dal magnetismo unico, con un ascendente che supera di gran lunga l’ammirazione che possiamo nutrire per il suo essere artista. Perché, a ben vedere, Ricky L non è soltanto uno dei dj più amati dello stivale, è molto di più: è prima di tutto una persona interessantissima, ricca di risorse e con cultura (musicale e non) da vendere; Ricky L, poi, è stato in grado di diventare una vera e propria icona, un simbolo, il punto di riferimento per clubbers di una terra appassionata e passionale come l’Umbria. L’ammirazione e l’amore che migliaia di giovani (passate per più e più generazioni) nutre e ha nutrito nei suoi confronti ne è la conferma. La sua è una vita spesa a mettere dischi e a comunicare attraverso la musica, vivendo una crescita artistica e personale in simbiosi con le sue radici che tutt’ora alimentano un amore che sembra ancor più grande e forte di quando, a sedici anni, ha iniziato la sua avventura al Red Zone. Parlandoci e conoscendolo di persona ho percepito tutto questo. Ora attraverso le sue parole potete farvi conquistare voi stessi.
Nonostante la doverosissima promessa di evitare il più possibile domande scontate, di quelle che ti sarai sentito fare più e più volte, ci sono cose che non posso esimermi dal chiederti: parlaci del tuo rapporto col Red Zone, di ciò che vi lega e di cosa rende magico per te (e per il pubblico) ogni sabato passato insieme.
Il Red Zone è la mia vita, siamo cresciuti nutrendoci di amore reciproco e passione sfrenata. Il Red Zone è un’utopia che si è realizzata e che continua ad esserlo. Ho sempre avuto un rapporto leale ed onesto nei confronti di tutte le generazioni di clubber con cui li dentro ho vissuto emozioni enormi e momenti di clubculture altissimi.
Il vostro è un amore che va avanti da oltre un ventennio: tu, il club e il pubblico siete cambiati e maturati sostanzialmente insieme. Quant’è diverso essere dj oggi rispetto a quando, ancora minorenne, iniziavi a mettere i dischi? Il clubbing ha seguito, o meno, il percorso che tu man mano ti aspettavi prendesse?
Il mio è stato un percorso naturale ed incosciente: a undici anni ho avuto il secondo piatto ed un mixer, a dodici ho messo per la prima volta i dischi ad una festa, a quattordici con la 808 ed il bassline in sync facevo un pezzo acid in tre minuti, a quindici ho fatto un mini tour “riccionese” come dj prodigio e già lì coronai il mio sogno di suonare al Vae Victis. A sedici ho cominciato con il Red Zone. Non c’è stato un momento in cui ho detto “ora faccio il dj”, credo di esserlo sempre stato, quello che cambia è soltanto ciò che mi circonda mentre la mia curiosità, la mia ricerca e la mia passione rimangono intatte. Vivere il clubbing e la musica totalmente e consapevolmente ti indicano da soli la strada. Capire nel tempo l’importanza dell’improvvisazione come essere presente ti illumina. Il sabato se trovi l’onda e non cadi, senti l’eternità.
Quant’è stato difficile creare un “vero e proprio club” in uno spazio così grande e curarne la crescita costante? Tremila teste sono decisamente tante per veicolare un certo tipo di messaggio.
Il Red Zone aprì nel 1989 e cioè nel cuore della rinascita della cultura della discoteca intesa in un certo modo. Il terreno era certamente propizio. Sauro Cosimetti ha acceso il fuoco ed io ho contribuito ad alimentarlo. Il resto lo ha fatto il pubblico del Red Zone che è il riflesso della cultura e della grande tradizione musicale perugina ed umbra in genere.
C’è un club dove hai suonato (e di cui ti sei letteralmente innamorato) per il quale avresti scambiato la tua residency? Confido molto sulla tua sincerità e sul tuo essere “moderatamente politicamente corretto”, per dirla alla Ricky L.
La residency si costruisce con il tempo, la serialità, la pazienza, l’incoscienza, il rischio, l’umiltà, l’amore per un luogo e per quello che fai, un sound system che nasce e si sviluppa per calzare perfettamente con un pubblico affezionato e tanto altro. Cogliere girovagando cosa può avere questa prospettiva è impossibile. Potrei dire facilmente che quella del Panorama Bar è stata una bella esperienza, ad esempio; anche ad Ibiza sarebbe interessante lavorare in una spiaggia piuttosto che un iper-club dove tutto sembra auto-fagocitarsi. Sarebbe difficile dire di no ad un’avventura di questo tipo ma costruire qualcosa nel luogo dove sei nato e cresciuto non è paragonabile, nel bene e nel male. Altresì un’altra residency per me importante l’ho vissuta al Mood di Firenze a cavallo fra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000. Un club piccolo, esclusivo e sotto terra, dove tutti i venerdì per quattro anni suonavo dalle undici alle sette di mattina tutto quello che era dance upfront, classic, obsure, down-mid e up-tempo. A questo aggiungo i party che nel tempo ho fatto qui a Perugia fra i quali ricordo con gioia i quattro anni di “Music For Balcony”, un party estivo di martedì sera in una terrazza con panorama mozzafiato su Assisi, dove attraverso accostamenti anche audaci esploravo tutto lo scibile musicale. Nel mio Soundcloud è possibile trovarne un assaggio.
Chi ti ha visto all’opera afferma che “Ricky a casa sua fa il bello e il cattivo tempo”. C’è stato, però, nel corso degli anni qualcuno che ti ha letteralmente aperto le orecchie e messo in discussione (prima ancora che con gli altri) con te stesso? E’ rimasta nella storia una serata con Francois Kevorkian, o sbaglio?
Ogni giorno che mi sveglio mi metto in discussione da solo altrimenti non ci sarebbe crescita. Detto questo la prima volta che venne Francois nel 1994 fu illuminante. Era un’occasione speciale e questo già rendeva tutto più profondo. Dopo l’ultimo “Harmony Tour” in Giappone e dopo la morte di Larry Levan, Francois aveva smesso di “suonare” e quella era la prima volta che ricominciava a farlo. Da noi. Tutto questo è documentato in un’intervista su cassetta fattagli la mattina dopo la serata in un bar durante la colazione che custodisco gelosamente e dove racconta tutto quello che poi sarebbe successo, Body & Soul compreso. Non essendoci ancora internet, essendo pochissime le informazioni e le foto ed essendo tanta la curiosità ed il fascino che alimentavano, questi personaggi ci creavano una tale aspettativa che molto spesso si scontrava con una realtà che non avevamo immaginato e si rimaneva delusi. Non era il suo caso. Francois dopo un sound check durato tutto il pomeriggio, arrivò in consolle e tolse subito le scarpe in funzione di un paio di ciabatte fra lo stupore generale, poi appoggiò un microscopico portafoto con moglie e figlia ed un maneki neko nero sul suo tappetino rosso accanto ai piatti e cominciò a suonare come non avevo mai visto prima. Lui monta da sempre come effetto, lo Yamaha SPX 990, che ogni volta programma da solo creando echi, delay e filtri pazzeschi, che all’epoca applicati all’arte del djing erano sbalorditivi. Il lunedì mattina avevo già il mio multiefx. Credo che chiunque ti possa portare od insegnare qualcosa, basta essere curiosi e lasciare aperta la porta dell’incoerenza. Ora noto “meno esserlo e più farlo” nei personaggi che gravitano le scene da una decina di anni a questa parte, meno ricerca e più inerzia. Infatti capita molto meno di frequente di chiedere anche un titolo.
E qualcuno per il quale ti sei detto: “ma come c’è venuto in mente di ospitarlo”?
Azrat Inayaht Kahan, colui che diceva che il tono è la madre della natura ed il ritmo suo padre, diceva anche che la mente pura è come uno specchio d’acqua non turbato dove l’immagine è perfettamente riflessa. Ogni giudizio è un sassolino lanciato nell’acqua. Detto questo, risponderei di sì ma citando il genio kubrickiano “io non dico una sola e solitaria slovo” anche solo per non offendere chi poi non viene citato…
Per quanto bella e coinvolgente la musica possa essere stata nell’arco della serata, quando si arriva alle sei di mattina e si entra nell’ultima ora si ha l’impressione che il Red Zone respiri: è come se le migliaia di persone presenti non aspettino altro che sentir suonare qualcuno dei tuoi edit o qualche tuo disco storico (il sottoscritto sta alludendo a “Fragments”). Di tutta la tua discografia qual’è il disco più “indigeno”? E uno che probabilmente la maggior parte di noi ignora (magari non è nemmeno mai uscito) che continui a suonare da tempo?
Ho parecchie tracce che non sono mai uscite e che ogni tanto rispolvero: dal remix di Roisin Murphy a quello di “Lose Control” di Missy Elliott, fino a quello di “Drain You” dei Nirvana. Se tu riesci a non farle girare prima che escano mantengono potenza e freschezza intatte fino a quando il tempo non le consuma. Se poi fai un evergreen non lo sgretola neppure il tempo.
Sarebbe bello che raccontassi ai nostri lettori il tuo punto di vista su quella che, a tuo dire, è stata la vera e propria svolta nella “produzione della musica da ballo”. Midi, campionatore e Marshall Jefferson…con me hai fatto centro!
Qui rischio di diventare prolisso oltremodo quindi cercherò di “synthetizzare”. Il discorso che facemmo era sull’origine della parola “house”, che sebbene faccia riferimento ad un locale specifico che era il “Warehouse” di Chicago, in un momento storico preciso ed a un gruppo di persone, sarebbe troppo riduttivo confinarlo in questo triangolo. All’inizio degli anni ’80, la scena disco stava decomponendosi dopo aver dato di tutto e di più ed essere stata spremuta come un limone: serviva qualcos’altro. In quel momento nasceva il midi ed il primo campionatore CMI (Computer Musical Instrument) della Fairlight, inaccessibile perché costava una cifra astronomica. Di lì a breve la Roland genera 808, 909 ed il TB303, che nato come accompagnamento di basso per musicisti midizzati, si trasforma, dal suo uso improprio, in una delle più grandi rivoluzioni musicali del Novecento. I primi campionatori AKAI, ad un prezzo più accessibile e la nascita dell’MPC fecero il resto: il campionatore ti permetteva di far diventare multitimbrico qualunque suono acquisito in qualunque maniera ed inoltre di costruire nuovi brani prendendo come spunto o rubando completamente pezzi di brani già esistiti. Una rivoluzione! Frasi e parole diventano suoni. Ognuno si costruisce i propri banchi di suoni unici, acquisendo samples da qualunque genere musicale esistente. Il digging diventa furioso. Il midi magicamente ti permette di disegnare un bassline a 100 bpm per poi riportarlo senza nessun tipo di variazione di lunghezza del suono a 123 dando modo di avere più tempo per suonare, più tempo per pensare e dando modo anche ad un musicista non tecnicamente eccelso di poter fare un assolo sopra ad un brano uptempo. Non solo: il giro di basso appena disegnato girando solamente una manopola puoi sentirlo con tutti i suoni che hai a disposizione e potresti scoprire che suonato con un lead “delayzzato” può diventare la svolta del tuo pezzo. “Move Your Body” di Marshall Jefferson senza il midi probabilmente non sarebbe mai esistito. La leggenda dice che il celebre giro di piano del postino di Chicago fu pensato e suonato a bpm molto bassi per poi essere riportato a 120 bpm e l’occidente così conobbe la parola “house”.
Tutti, ma proprio tutti, ti conoscono per “Born Again” – io stesso ho a casa la prima stampa, quella con la stessa versione su ambedue i lati, per intenderci. Ti sei mai chiesto perché, nonostante un disco del genere, tu non abbia iniziato un tour mondiale? A ben vedere, oggi si prende parte a festival importantissimi e “South America Tour” con molto meno. Quali tappe pensi manchino alla tua già gloriosa carriera?
“Born Again”, nato come un progetto “underground”, è sconfinato nel “popular” (per non usare il termine commerciale che a me non significa nulla) e questo non mi permetteva di poter rimanere quello che sono. In sostanza non sarei andato in luoghi dove avrei dovuto snaturarmi e snaturare perché non mettevo una serie di puttanate insieme a “Born Again”. Ho fatto alcune date in giro fra le quali quella memorabile di Beirut al Forum de Beyrouth: una specie di Festivalbar con le dieci hit dance di quell’anno in mezzo a 20000 che cantavano il pezzo. Ecco, quello che rimpiango è di non aver fatto più date live come quella, per quanto riguarda i dj set come “Babylonia Digei” che non ho fatto non li rimpiango assolutamente. In realtà la prima stampa, quella con la voce di Sizzla ed il supporto di M:ck, è l’idea originale ed a parte lo splendido remix dei Pastaboys, non ho mai suonato un’altra versione compresa quella dei Balearic Soul che non rispecchia per niente i miei canoni estetici ma che il pubblico sarebbe sempre stato contento di sentirla nei contesti “pop” dove potevo essere invitato. Un conflitto mai risolto.
Più di una persona ogni volta che sente il tuo nome tira fuori un aneddoto su Madonna, cos’è successo realmente? E’ una legenda?
Sinceramente ho appreso da te la leggenda e quello che posso dirti è che se non mi sono presentato al suo party, o non lo sapevo io o non lo sapeva lei. Credo che la seconda sia più probabile.
Qualche settimana fa ti ho pensato quando ho sentito Pete Tong annunciare Ben UFO come “il dj dei dj” prima del suo Essential Mix. Trovo che questo sia uno dei più grandi complimenti che si possano fare a chi mette i dischi nei club, in quanto somma delle virtù che dovrebbero caratterizzare la figura del vero “conoscitore di musica”. Tu che prima di tutto sei un grande dj, quanti passi indietro pensi dovremmo fare per consentire a certe figure di emergere per cosa sanno trasmettere di fronte a un dancefloor?
Credo che la figura del vero dj moderno ora sia quella di un appassionato totale di musica costantemente updated, un gran ricercatore che passa ore ed ore fra i labirinti della rete e nei magazzini polverosi pieni di vinile, che la conosce tutta sapendola trattare a seconda delle situazioni, che sa condividerla con un gran senso del dancefloor con qualunque mezzo a sua disposizione. La via delle “ripartenze” a braccia alte poi tutti fermi fino alla prossimo break è al tramonto. Fra bonus beats che si autoproclamano song ed effetti speciali di bassa lega c’è una gran voglia di qualcosa in più. La democratica opportunità per tutti di potersi esprimere sull’argomento ha necessariamente impoverito la scena dance moderna in tutte le sue sfumature.
Non pensi siano saltati tutti i più ragionevoli compromessi tra le esigenze del mercato discografico e quelle che devono essere le esibizioni dal vivo?
Chiamare a suonare una persona solamente perché ha prodotto una traccia con l’etichetta giusta ma senza nessuna esperienza da dj era un fenomeno tutto italiano che ora attraverso le agenzie sembra essere diventata una pratica comune. Gente che inevitabilmente nasce e muore nel giro di qualche mese. Credo che non porti benefici a nessuno: né a questi personaggi né tantomeno ai clubbers. Da parte mia posso portarti un esempio: Robert Owens, che ha sempre amato più mettere i dischi piuttosto che cantare nelle sue esibizioni, non lo invitammo al Red Zone fin quando non venne solamente per cantare – ed era il 1997, se non ricordo male.
Durante la nostra chiacchierata ti sei lasciato sfuggire che al giorno d’oggi l’immagine (tra cui il nome d’arte) alle volte riesce a risultare più “efficace” della musica proposta da un artista: un “Mark Taylor” qualsiasi, in buona sostanza, avrà certamente più presa del “Mario Rossi” di turno. Raccontaci da dove viene fuori il tuo ***** L. Ci sarà certamente una storia da raccontare…
Che il nome sia importante di certo non lo scopro io ma ora in un marasma del genere lo diventa ancor di più. Ci sono nomi che oltre ad essere facili, riempiono talmente la bocca da essere su quella di tutti. Anche senza motivo. Ho avuto da sempre un rapporto conflittuale con il mio nome che nel tempo è stato “Ricky L” ,”Ri_chi El”, “*****L” per poi tornare al punto di partenza. Amo da sempre cercare e giocare con i nomi, ne ho liste sconfinate per qualunque occasione: titoli, brand, party …li remixo, li re-edito. Quando mi accorsi delle cinque stelle degli hotel “Fivestars Deluxe” che coincidevano perfettamente con il mio nome e che c’era un brand d’abbigliamento con le “cinque + L” non potevo non sposarlo. Ora magari passo al prossimo step: se lo cerchi ti trova.
Mi hai confidato che in vita tua non hai mai guadagnato un solo euro che non fosse stato sudato mettendo i dischi. E se non avessi fatto il dj, dove ti vedresti ora?
A cercare il presente in qualche altro modo.