Flash back. A metà settembre 2014 è venuto a mancare Riccardo Petitti. Incipit asciutto. In modo altrettanto asciutto, potremmo specificare che per chi non lo sapesse parliamo di colui che, assieme ad Andrea Lai, è stato artefice delle serate targate Agatha al club / centro sociale romano Brancaleone, oltre ad aver portato a lungo avanti il proprio negozio di dischi, Vinyl Refresh, noto a molti appassionati della Capitale (e non solo).
…e qua l’asciuttezza finisce. Perché una volta saputa la notizia, un anno fa, passato il primo momento di stordimento e feroce sgomento, la mente ha iniziato a riannodare tutta una serie di fili e pensieri. Fili e pensieri a cui vi vogliamo accennare, che vogliamo ora condividere con voi, un anno più tardi, come omaggio alla memoria; ma non solo come omaggio alla memoria – anche come insegnamento prezioso da portare sempre con sé.
Fili che parlano di un dj, ma sarebbe più corretto definirlo amante a trecentosessanta gradi della musica, che è sempre stato di un enorme umiltà ed umanità: c’è stato un momento, manco corto, in cui Agatha è stata veramente la serata di Roma nonché una delle serate più di successo d’Italia. Lo è diventata scegliendo una via allora completamente aliena e quasi visionaria: staccarsi completamente dal suono delle discoteche, dalla house coca&champagne, ma staccarsi anche dal suo contraltare – la techno serrata da squat, da rave, da gente con piercing e cani al guinzaglio. Petitti, assieme a Lai, ha guidato tutta una fetta della Capitale ad apprezzare battute spezzate, sonorità inglesi anticonvenzionali e bassi spigolosi senza mai imporre o pretendere militanze, facendo scoprire prima di tutto il piacere della musica. E facendo capire come il fatto che uno stile fosse nuovo o strano non significava per forza che fosse estremo e noioso, o che richiedesse una fandom devota, molto altezzosa o hardcore.
Esattamente come il Maffia a Reggio Emilia, realtà con cui il rapporto di Agatha era strettissimo, il venerdì @ Brancaleone era un posto dove vedevi un po’ di tutto, dove ci si spogliava di ogni posa etica ed estetica e dove anche chi era apparentemente normale (corsivo d’obbligo) poteva scoprire il gusto di una musica alternativa (corsivo d’obbligo). Tutto questo senza penalizzare in alcun modo la ricerca musicale, che era profonda, continua, sintonizzata su ciò che era nuovo e sorprendente. Oggi poi, proprio oggi che sono finalmente tornati in auge i dj set eclettici a lungo esecrati (purché fatti bene, va da sé), vogliamo ricordare con forza che quando Petitti, assieme a Lai, combinava drum’n’bass, breakbeat, techno e house faceva una cosa piuttosto iconoclasta, per i gusti e gli usi di quegli anni (e anche degli anni a venire). Molto. Lo faceva per un motivo molto semplice: amava la musica, tutta. Quella buona, ovviamente.
Così come buono era lui: appunto, lo dicevamo, ad un certo punto Agatha era diventata una cosa grossa, e i suoi artefici volendo avrebbero anche potuto tirarsela un po’. Chiunque invece incontrasse Petitti, anche di sfuggita, anche per un’unica volta nella propria vita, si trovava di fronte una persona umile, gentile, disponibile, il cui sguardo si illuminava quando il discorso scivolava su una traccia, un break, un campionamento con un entusiasmo che era il ritratto della purezza, dove non c’era nemmeno mezza ombra di calcolo su opportunità, guadagno, carriera, profilo. In tempi in cui alla professione, pardon, alla pratica di dj ci si avvicina più col miraggio del lucro in tempi mediamente brevi e della possibilità di essere un ganzo come e più di un bello maledetto che fa il cantante sofferto/controverso in una band rock, e in tempi in cui si calcolano (comprano?) metodicamente i commenti sui social, i like su Facebook, i feedback dei colleghi famosi, eccetera, noi vogliamo illuminare nel modo migliore possibile l’esempio anche e soprattutto umano che Petitti ci lascia in eredità, ci lascia in memoria.
Fa un’infinita, assurda tristezza dover parlare di lui così al passato – lui che per tantissimi di noi ha rappresentato il futuro, o il presente più sorprendente, musicalmente parlando. Eppure, è così. Non possiamo farci niente. Quello che possiamo fare è onorarne il ricordo, onorarne l’attitudine. Anche se non lo conoscevate, anche se non siete mai stati in una serata in cui lui era in console, sappiate che Riccardo ha fatto moltissimo per voi, per avere una club culture sana, vivace, non banale, divertente. Sì, proprio per voi. Non ci fosse stato lui, e un manipolo di altri coraggiosi, forse la dicotomia secca coca&champagne versus alternativiincazzati&snobpresimale, entrambi conficcati in musiche sempre legate a se stesse, stillerebbe ancora oggi i suoi velenosi effetti.
Non ci fosse stato lui, e altri pochi come lui, oggi forse più ancora di quanto succeda già in realtà a dettare la linea musicale dei club sarebbero stati dei proprietari ignoranti e sprezzanti, dei pr attenti solo a raccattare le maggiori stecche possibili, dei dj che una volta imbroccata la chiave del successo si sarebbero concentrati solo sul successo e non sulla chiave (che è e resta la musica, la propria passione per essa).
Il fatto che Riccardo Petitti (o Kursk, come da un certo momento aveva preso a farsi chiamare come dj) non abbia mai raggiunto un successo stellare ed internazionale, non abbia sfornato release finite nelle chart o nelle recensioni degli influencer, è un fattore del tutto ininfluente. Chi ha veramente vissuto la storia della club culture di qualità in Italia dai primi anni ’90 in poi, una storia fatta di matti e mattacchioni che amavano complicarsi la vita perché il loro amore verso le musiche non convenzionali era troppo semplice e viscerale, sa quanto Petitti si meriti queste due pagine, per quel pochissimo che contano. E sa che lui si sarebbe schermito a venire considerato come un esempio da seguire, un maestro, un caposcuola.
Oggi, a ricevere le bio di dj alle prime armi o ancora impelagati nelle serate proto-commerciali di provincia, è un diluvio di “top”, “le console più prestigiose”, “techno-dub”, “industrial”, “sperimentazione”, “underground”, “ricerca”, “bassline”, “ritmiche spezzate”. Fa rabbia vedere non tanto come queste parole siano usate a cazzo, perché è un fenomeno sempre più pervasivo che le parole vengano usate a cazzo, quanto piuttosto che certi concetti, contesti ed attitudini che un tempo erano da sfigati, da perdenti, oggi invece siano utilizzate proprio per dare un’immagine vincente ed appetibile di sé proprio dal tipo di persone che, fossero nate dieci anni fa, una serata come Agatha e un dj come Petitti li avrebbero ignorati, sottovalutati, derisi. Fa tristezza un po’ questa cosa; è un maledetto, stridente paradosso.
Pazienza. Inutile stare troppo lì a recriminare. Tutto quello che possiamo e vogliamo fare è portare avanti la forza di un esempio positivo, che è riuscito ad abbattere tantissimi muri – nella testa delle persone, negli ascolti delle persone – proprio perché non si poneva nemmeno lontanamente il problema che questi muri potessero avere ragione di esistere. E non lo faceva per sé. Lo faceva, prima di tutto, per la musica.