Sulla carta, ragionando senza guardare quanto è successo negli ultimi tempi, la disco dovrebbe essere l’ultima delle tendenze da recuperare nell’anno 2014. Quattro decadi e passa dal suo momento di massimo successo, una successiva onda di rifiuto generale la cui eco “disco sucks” si sente ancora oggi, una differenza di contesti ed effetti a prima vista incompatibile col diffuso machismo che i tempi moderni hanno adottato per le faccende dance. Tutto questo sulla carta. Perché se guardiamo il quadro completo delle espressioni musicali, anche quest’anno lo spirito disco è vivo e vegeto. Con forme diverse da quelle storiche, ovvio (e giustissimo, altrimenti staremmo a parlare di sterile restaurazione, e probabilmente non staremmo a parlarne affatto), ma con un piglio giocoso e vivace che risulta efficace anche oggi. A dimostrazione del fatto che viviamo in un’era musicale capace di ragionare dialetticamente proprio su ogni cosa, dove c’è spazio per tutto tranne che per vecchi tabù, in cui convivono negli stessi canali una molteplicità di suoni e stili che non ha precedenti.
Estendendo l’ormai celebre tesi retromaniaca di Simon Reynolds, si potrebbe dire che il motivo per cui i tempi moderni stanno riprendendo ogni singolo angolo del passato musicale non è per senso di inferiorità o calo creativo (affatto, questo decennio si sta dimostrando in grado di inventare le combinazioni più bizzarre e creare nuove frazioni di pubblico, tutte le invenzioni beats dentro e fuori la trap ne sono ancora l’esempio più lampante, al di là dei gusti). Questa grande voglia di dire la propria su temi musicali noti del passato è in realtà la dimostrazione che la dance è definitivamente uscita dalla sua fase adolescenziale ed è ora in grado di affrontare nuovamente con pensiero adulto le passioni, i deboli, a volte anche gli eccessi vissuti da giovani. Oggi la produzione musicale dance-oriented somiglia ad una matura e piacente quarantenne, con tanta esperienza e qualche pazzia alle sue spalle, ma con nessuna intenzione di vergognarsi o pentirsi di quanto ha fatto, rivalutando anzi con intelligenza le tante fasi della propria vita.
Compresa la disco. Giusto per ricordarci che i Daft Punk dell’anno scorso non sono stati i detentori di alcuna iniziativa unica e coraggiosa, ma solo la punta di un iceberg che viaggia sotto lo specchio degli oceani dance già da parecchi anni (e a dirla tutta, come punta di visibilità è risultata probabilmente la più scontata e fedele ai canoni passati, dunque la meno originale, sebbene in fondo abbia oggettivamente funzionato). La disco è ancora una presenza piuttosto costante tra i motori d’ispirazione della produzione contemporanea, e oggi vogliamo scorrerci dieci degli esempi più evidenti di artisti attivi che stan mantenendo vivo lo spirito genuino della disco. Senza sensazionalismi, senza volersi inventare nulla, ma semplicemente con la voglia di riportare in chiaro i contributi che i protagonisti di oggi stanno dando nel mantenere attuale il genere. Nessuno di loro ha mai fatto alcun album di pura disco music, ma son loro quelli che conoscono bene lo spirito e la grinta originale della disco, e hanno dimostrato che per quello spirito e quella grinta c’è spazio ancora oggi. Con quell’atteggiamento laterale e ricombinatorio necessario di questi tempi, ma con un amore di fondo per la filosofia di base che merita di essere celebrata. Magari passa di qui un telespettatore di Mtv e scopre che dietro ad Avicii e Calvin Harris c’era un mondo ancora attuale da scoprire, e anche oggi la nostra buona azione l’abbiamo fatta.
[title subtitle=”1. Tensnake”][/title]
Dopo lo scossone “Random Access Memories” la chitarrina maliziosa di Nile Rodgers ha fatto il giro del quartiere ed è arrivata pure alla corte di Tensnake, via “Love Sublime” e gentile supporto dei vocals femminili di Fiora, che intorno al filone disco risultano ancora vincenti. Ce lo ricordavamo come virtuoso house, il nostro Tensnake, e l’ultimo album “Glow” per certi versi poteva sembrare uno strano colpo di testa. Eppure c’è un certo istinto comune che funziona, alla fine i conti tornano. E per l’occasione torna anche Lu Cont, precisamente Jacques, insieme a Jamie Lidell nel pezzo più sculettante dell’album, qui sotto. Sono quei casi in cui la house vuol riscoprire la sua età dell’innocenza. Momenti che van concessi, niente da fare.
[title subtitle=”2. Todd Terje”][/title]
La cara, costante, mai deludente Norvegia. Sulla cosmic disco son state fatte tonnellate di speculazioni giornalistiche: stile netto e riconoscibile, esperimento perfettamente riuscito di innesto tra certi ritmi disco decisi, una passione mai nascosta per l’italo sound e le aperture landscape sintetiche dei ghiacci scandinavi. L’ultima giovane bomba prodotta dal vivaio Full Pupp è quel Todd Terje ormai diventato un piccolo culto dell’ascolto dance alternativo: progressione lenta ma costante a partire dai metà 2000, poi il botto di “Inspector Norse” e quest’anno “It’s Album Time”, che ha rappresentato la sua personale sala trattenimenti dove liberare i suoi cento talenti. E ok “Johnny & Mary“, ok “Leisure Suit Preben“, ma il meglio di Todd lo conosciamo bene, e resta quello per cui è famoso. L’album version di “Delorean Dynamite” dura sette minuti, ma se ne durava settanta era anche meglio. La meglio Norvegia mai vista.
[title subtitle=”3. Bottin”][/title]
Gran bella soddisfazione vedere il nostro veneziano Bottin definito su XLR8R “italian synth maestro“. Gran bella soddisfazione per chi lo seguiva dai (meravigliosi) tempi di “Horror Disco” e prima ancora di “I Love Me”, ma anche per chi lo scopre solo quest’anno grazie alla spinta ricevuta dal nuovo album “Punica Fides”. È che la capacità di riprendere il suono italo e presentarlo agli occhi moderni col piglio originale, facendolo suonare allo stesso tempo così eccitante e liberatorio, è un dono in mano a pochissimi, e Guglielmo Bottin ne è davvero un maestro. L’ultimo album prosegue e potenzia una storia fatta di perfezionismi che gli altri si sognano, “Poison Within” e “All For One” valgono una vita di amore incondizionato, eppure stavolta c’è una cattiveria che non lascia scampo. Chiamiamola una circoscritta combinazione sonora, ma in questo è il migliore. Punto.
[title subtitle=”4. Dimitri From Paris”][/title]
Una storia di continui ritorni sul luogo del delitto, quella di Dimitri From Paris. Ogni volta con atteggiamento diverso e volti differenti susseguitisi dalle sue produzioni anni ’90 a oggi. La costante è un lavoro di circoscrizione e potenziamento dell’efficacia groove, una storia allargata che dalla disco si estende sull’intero orizzonte dance dall’inizio a oggi, e che Dimitri maneggia non come un maestro, non come un professionista: come un professore accademico che ha in mano il sapere completo e vuol donarlo a una classe di allievi che non ha potuto frequentare le lezioni dal vivo. Quest’anno il suo “In The House Of Disco” mix potrebbe valere come colonna sonora di quanto stiamo dicendo in questo pezzo, ossia che per la disco il presente può fondersi col passato, la differenza quasi non si nota ed è questa la vera, grande beffa che la disco music sta mettendo in atto oggi. Se poi ci metti quel diretto allo stomaco che è stata “Disco Shake” col nostro DJ Rocca, per questo decennio avremmo già potuto chiudere bottega.
[title subtitle=”5. The Juan MacLean”][/title]
Un altro che, a guardare carriera e competenze di curriculum, in fondo avrebbe dovuto puntare direzioni diverse. Ma si sa, l’ambiente DFA ha sempre incoraggiato un certo tipo di revisionismo house/disco, e se si mettono insieme Juan MacLean e Nancy Whang hai poco da sperare in colpi di sorpresa. Al massimo puoi inarcare un attimo il sopracciglio per quel pizzico di sensazione telefonata che ti fanno certe riprese new wave tipo “I’ve Waited For So Long“, o la carrellata un tantino ruffiana di “A Place Called Space” (e lo fai, proprio in nome di quell’amore privato verso la disco e le sue potenzialità sempre valide). Ma alla fine l’ultimo “In A Dream” nel lettore ci resta volentieri, come ascolto gentile, defaticante, fuori dalle pretese delle produzioni intelligenti. La disco che ti conquista ancora quando meno te l’aspetti, se è il caso anche contro la tua volontà e le tue tesi razionali.
[title subtitle=”6. Massimiliano Pagliara”][/title]
Altro italiano che fa faville, ma in un modo completamente diverso. Per Massimiliano Pagliara la storia si racconta prima di tutto con i suoni: l’ispirazione è l’ago della tua bussola e ti spinge a rielaborare e rivitalizzare determinati costrutti, poi a diventare indispensabili sono gli strumenti, i synth d’epoca, mezzo di trasporto collaudato per effettuare il viaggio nei tempi odierni. La filosofia sta tutta nello slices che abbiam avuto il piacere di ospitare qualche tempo fa, e l’atteggiamento da collezionista di sound diventa la chiave di lettura ideale di un artista completamente orientato alla ricostruzione. Lo si è visto nel primo “Focus For Infinity”, lo senti di nuovo tutto nell’ultimo “With One Another”, sempre su Live At Robert Johnson. E se su album la cosa si fa più stimolante per la mente, in un singolo come “Flying Away From You” tutto l’intuito e la potenza di una disco mai doma ti si apre nel modo più cristallino possibile.
[title subtitle=”7. Prins Thomas”][/title]
L’altro principe della cosmic norvegese, senza nulla voler togliere a padrini e operatori di livello e copertura differenti come Lindstrøm o Bjørn Torske. Lui che in passato ha sempre usato un approccio diretto, puntando sull’attesa per un certo sound e la conferma che lui a quell’attesa poteva dare, quest’anno col suo terzo album cambia strategia: taglio molto più intellettuale, incedere di attesa, più di un momento ambient e disco nel complesso che gioca sulla decompressione. Perché di tutte le possibilità che il panorama nu disco può offrire oggi, l’approccio space/cosmic è il più innovativo ma anche il più sfuggente, capace di assumere forme così ampiamente diverse da farlo diventare un non-genere che abbraccia tutto. Prins Thomas può diventare astratto come in “Trans” oppure robusto e misterioso come in “Hans Majestet“, tanto per dire due volti diversi dell’ultimo disco. Però capita anche che si presenta da noi, alla Hell Yeah Recordings, e fa “Monte Baldo”. Lo spavaldo.
[title subtitle=”8. Breakbot”][/title]
La storia dei rimescolamenti disco firmati french touch sarebbe lunga da raccontare e misurata su troppi nomi diversi. Ce n’è uno però che agisce più diretto degli altri, con la disco nel midollo, innamorato del classicismo di genere eppure disinvolto nel proporre oggi, negli anni ’10, tutta una serie di possibilità ancora valide, sempre elegantissime, dell’attitudine disco. È lui, Breakbot, fedelissimo di casa Ed Banger, sostenitore incallito di uno storicismo disco che in teoria avrebbe dovuto infastidire in molti, e che invece convince sempre senza possibilità di replica. “By Your Side”, l’album di debutto del 2012, era il compendio definitivo di uno stile di composizione che ha dell’inesplicabile: fortemente conservatore eppure dotato di un carattere spigliato che non poteva non fare breccia nel pubblico di oggi. A riprova del fatto che quando si torna al cuore di qualità di una cosa, qualsiasi cosa essa sia, funziona per forza. L’ultimo centro l’anno scorso, col video di “You Should Know“, ma l’articolo che state leggendo è per romantici quindi quella “Baby I’m Yours” che ha fatto cascare a terra inermi migliaia di appassionati ce la risentiamo più che volentieri
[title subtitle=”9. Tiger & Woods”][/title]
Fate ciao con la manina a XLR8R, che si guadagna recentemente il podcast dei Tiger & Woods parlando di loro come “il semi-anonimo duo di esperti dell’edit disco/house“, e ditegli che per noi di Soundwall di anonimo non c’è ormai più nulla: Tiger & Woods sono la rinascita a sorpresa di Marco Passarani, che lui nella nostra intervista presenta giustamente come una cosa avvenuta per caso, ma che in realtà è stato la classica realtà arrivata nel posto giusto (internet 2.0, nel pieno della febbre rielaborativa) al momento giusto (inizio decennio, con convulsa necessità di espandersi in mille direzioni). La coppia d’assi “Through The Green”-“Wiki & Leaks” del 2011 ha generato il fenomeno, fatto di amore per un passato che va messo in vetrina ma che si può sempre ritoccare con sacro rispetto. Poi la strada è stata in discesa, decisa non dalle mode o dalle spinte di settore, ma dalla semplice attitudine naturale dei tempi odierni, così amanti della propria storia e allo stesso tempo vogliosi di vederla alle prese con la contemporaneità. L’ultima prova pubblica è stato il “Tool Kit For Winter Fitness” di gennaio, reloaded per l’estate col mix di giugno. Però ecco, gli 8 minuti di “Gin Nation” sono quelle tazze di tè esotico che van sorseggiate nelle serate fuori dal tempo e dalla frenesia. Possibilmente con vista.
[title subtitle=”10. Munk”][/title]
Alla fine arriva Munk e si porta a casa il jackpot. Con un album – “Chanson 3000” – che sì, agisce in continuità con quanto dimostrato da lui e dalla sua Gomma negli ultimi anni, ma che cambia connotati appena vai a fondo. Perché lui il groove disco/house ce l’ha nel midollo da sempre, ma l’ha sempre usato come un mezzo: lo strumento perfetto per popolare il mondo di hit dall’infallibile orecchiabilità, ma sempre orientate verso la ricettività preferita del pubblico moderno. La sorpresa oggi è vederlo passare dall’altro lato del vetro e puntare alla gloria assoluta di un atteggiamento storicamente proprio della disco prima e di certa house poi: accattivante, contagioso, frizzante, sfrontato quanto basta, profondo conoscitore di tutti i meccanismi killer dell’approccio dance collettivo. È come un corso intensivo sul lievito madre dell’elettronica dancey, solo che è tenuto da un intrattenitore professionista, riconosciuto come uno dei migliori dosatori di ingredienti operativi al momento. Va da sé che abbiamo uno dei dischi dell’anno, nonché l’esempio più lampante di come lo spirito disco possa vivere ancora tra noi, oggi, in tutte le forme differenti che rappresentano la naturalezza odierna, ma con un modo di essere movimentato e seducente che è storicamente la quintessenza di questo genere. Who took the beat right under my feet?