Ormai sono quindici anni – le prime declinazioni furono infatti nel 2007, all’epoca in esplicito omaggio a Sun Ra – che Gianluca Petrella in mezzo a miliardi di altre collaborazioni ed avventure porta in giro quella navicella spaziale a nome Cosmic Renaissance. L’idea è “alta” e, diciamolo, anche vendibile: il jazz “cosmico” che assorbe la bulimia mistico-spiritual-creativa degli anni ’60 e ’70 e si innerva anche di funk e soul, in una traiettoria da Pharoah Sanders al Miles Davis elettrico (ma anche al Roy Ayers raffinato e “solare”) è un po’ il Sacro Graal di chiunque guardi al jazz con simpatia, da fiancheggiatore esterno insomma. Quello che si cita sempre, quello che si cerca sempre. Il paradosso è che invece gli appassionati di jazz di osservanza più stretta e dogmatica hanno in gran sospetto questa pozione (loro direbbero: questo mescolone), perché per loro l’Herbie Hancock che si fa Headhunter è una deriva cialtron-commerciale e, insomma, pure “Bitches Brew” è in fondo quando Miles ha smesso di essere interessante per vendersi invece al soldo. Sun Ra, poi? Un giullare, nulla a che vedere con la serietà radicale dell’Art Ensemble of Chicago. E riguardo alle istanze socio-politiche, beh, questi richiami fricchettoni al pace, bene & amore cosmico sono una bagatella rispetto alle istanze di una, per dire, serissima ed impegnatissima Liberation Orchestra hadeniana.
A Roy Ayers piace questo elemento; continua sotto
Quindi ecco: il grande paradosso è che fuori dal jazz di stretta osservanza il jazz-funk-soul cosmico è idolatrato, all’interno di esso è visto invece spesso come una mezza patacca buona per strappare la meraviglia dei turisti e degli occasionali del genere. Polarizzazione che porta a due errori, opposti e uguali: l’errore degli ortodossi è lampante, perché rivendono e pretendono una interpretazione mostruosamente rigorosa e quasi obituaria del jazz, dove tutto deve essere fisso, codificato, definito, a denominazione d’origine controllata (…sì, ma chi la controlla? Dei sessantenni che sorseggiano whisky in poltrona o a un tavolo del Blue Note?); però parliamo per favore anche degli errori dei “fiancheggiatori esterni”, per cui spesso basta l’aggettivo “cosmico”, lo stare in una fascia di mercato “contaminato” e un richiamo a Sun Ra per esaltarsi acriticamente, senza porsi nemmeno il problema se una cosa sia valida fino in fondo o no (…sì Kamasi, stiamo parlando a te e ai tuoi fan, e sì jazz londinese, stiamo parlando a te ed ai tuoi aedi più intransigenti e hipstero-stalinisti).
E qui torniamo a Petrella, ed alla sua Cosmic Renaissance. Che appunto, persegue con convinzione questa strada “cosmica” prima ancora che fosse di moda e di Petrella tutto si può dire tranne che non abbia la denominazione d’origine controllata di cui si parlava sopra (dagli Award vinti per Down Beat ai vent’anni e passa con Rava e mille altra grandissimi mondiali del jazz DOCG. Ieri 16 ottobre abbiamo visto il suo concerto milanese a Santeria (preview di Linecheck, ma anche lancio del nuovo centro di produzione novarese We-Start (aka, quando i soldi pubblici servono a qualcosa di bello), una delle prime date del tour che segue l’uscita pochi giorni fa di “Universal Language”. Ecco: se già il disco ci è parso bello, all’altezza se non oltre rispetto alle precedenti sortite a nome Cosmic Renaissance (più essenziale, più dritto all’obiettivo, afro-cosmico ma mai sfilacciato), il concerto è stato una epifania, una rivelazione. Questa epifania/rivelazione ha un nome, anzi, un fenomeno fisico: il sudore.
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…il sudore? Sì. Faceva un caldo infernale in sala, merito di questo ottobre padano che ci viene incontro nella nostra necessità di centellinare l’uso del gas per non farsi impiccare da Putin, lo faceva in modo quasi sgradevole, tant’è che non tutti sono rimasti dentro fino alla fine del concerto. Ma proprio questa sensazione di (quasi) disagio fisico è stata illuminante: il “cosmico” nel jazz, per fare la differenza ed avere veramente sostanza, sta benissimo se è “sudato”. Quello che forse si è perso, nel tempo, a furia di vari rifacimenti e riferimenti sempre più calligrafici, è che il jazz “cosmico” deve essere una avventura anche scomoda e rischiosa (tale era negli anni ’60 e ’70) per funzionare davvero, per avere significato davvero. Ci vuole insomma intensità, e voglia di buttarsi a corpo morto nell’impresa. Ma attenzione: a prendere troppo alla lettera e troppo superficialmente questi dettami, allora si ricade nel caos facilone, o nella caciaronata alla “volevo essere Sun Ra”. In realtà ormai Petrella ha il pugno ferreo nel guidare la Cosmic Renaissance, e pur nella sua dirompente fisicità ed essere istrione sul palco in realtà soppesa sempre con feroce attenzione gli equilibri, riducendo all’osso gli assoli (niente sbrodolate di dieci minuti) e giostrando su strutture e dinamiche esattamente come lo farebbe un dj con Ableton davanti, in modo chirurgico ed in tempo reale. Quindi sì: sudore, buttarsi a corpo morto, ok, ma con alla base un’etica strutturale e un rigore fortissimi. L’esatto contrario del jazz tecnicamente raffinato sì ma tutto a modino e tutto morigerato, jazz che poi nell’esecuzione dal vivo è banale nella struttura (tema, assolo, assolo, assolo, tema) e laschissimo invece negli equilibri (assoli infiniti, tanto da diventare quasi dei blocchi separati uno ad uno).
In un’atmosfera incandescente di termometro ma anche di emotività, con la gente trascinata a ballare (quando mai il jazz fa ballare la gente nei suoi santuari standard? E pensare che è nato esattamente come musica da ballo, era la techno degli anni ’20 e ’30…), Petrella ha indicato la via giusta per ridare nerbatura al jazz. Questa via non è solo e non è unicamente “contaminare”, o rivolgersi ad un pubblico crossover, come ultimamente troppo spesso si pensa: il pubblico crossoverato spesso è modaiolo, oggi impazzisce per il jazz ballabile sdoganato da Gilles Peterson ma domani torna al noise giapponese o al post rock di Chicago schifando Peterson medesimo (è già successo…). No. E’ una ricetta più complessa. Fatta di studio, preparazione, competenza. Petrella infatti per chi lo conosce bene non è solo un fenomeno da baraccone flamboyant nel suo approccio al trombone ma è un musicista serissimo, dalla competenza tecnica enorme, e nel concerto lo si capiva dalla già citata capacità di giostrare gli equilibri ma anche dalla competenza degli interventi alle tastiere, dalle armonie “disegnate” che mai cadevano nello stucchevole; e i musicisti che lo accompagnano non erano solo bravissimi di per sé, erano davvero attenti a non dare mai sulla voce l’uno sull’altro – eccezione in tal senso senso l’architrave ritmica tra Federico Scettri alla batteria e Simone Padovani alle percussioni, spesso questi due strumenti quando compresenti tendono a (stra)fare creando una mistura fin troppo densa, ma bravissimo anche Riccardo Di Vinci al basso a “colorare” non solo col funk ciò che di sua competenza così come Mirco Rubegni alla tromba che mai è caduto nel virtuosismo da circo, un virtuosismo che avrebbe sporcato la compattezza della band.
Dietro le quinte; continua sotto
Non tutto è stato perfetto: la sala era quasi piena ma, complice il caldo e i molti ingressi ad accredito quindi con gente meno motivata ed interessata, si è in parte svuotata nelle due ore del concerto; non sempre dal punto di vista fonico il concerto è stato gestito bene (con tanto di problemi ai microfoni, che hanno palesemente tolto la fotta all’ospite d’onore al sax e voce Soweto Kinch nella seconda metà del concerto ed hanno pure penalizzato un po’ di interventi di Anna Bassy); quindi ecco, non è stato uno di quei “…concerti che resteranno nella storia”. Ma credeteci: ieri davvero abbiamo (ri)trovato la fiamma del jazz, il suo essere un genere musicale intenso, “pericoloso”, coraggioso, capace di entrare nell’anima e non solo nei portfolio. Quel jazz insomma che merita di essere recuperato anche da chi non è fan intransigente del genere, ma guarda ad esso con molta simpatia, benevolenza e curiosità. Ecco, sappiatelo: il jazz che cercate deve essere così. Deve essere (anche) sudato. Competente, complesso, tecnicamente virtuoso – ma sudato. Sennò è un altro spo(r)t.