Cristallino e multiforme, sono i primi aggettivi che mi vengono in mente per delineare il talento di Dario di Pace, in arte Rio Padice. in realtà potrei facilmente trovarne un bel pò, ma faremmo notte. Dario è uno di quei produttori che pur essendo prolifici riescono a mantenere un livello qualitativo oggettivamente altissimo; basta spulciare, anche solo velocemente, la discografia che il produttore napoletano porta con sé.
Ammetto che mi sento, apparentemente senza ragione, fortunato ad avere tra le mani il suo primo LP in uscita sull’etichetta fondata da lui stesso, da Massi Di Lena e Pellegrino S. Snichelotto (Leskin): ho sempre considerato i suoi lavori, infatti, una spanna sopra e un paio di passi avanti a quelli degli altri produttori italiani dello stesso genere – lo stesso discorso vale per il Mass Prod dei Bosconi e dei MUS, non se la prenda a male nessuno, il mio parere è puramente soggettivo e disponibile a qualsiasi critica. Il valore aggiunto al numero di release, che di per sé è insignificante, se non a gonfiare le biografie e convincere gli addetti ai lavori, sta in quella continuità qualitativamente alta che Dario e Martino hanno saputo conservare nelle loro release. Mi accorgo che, per molti, questo paragone potrebbe non aver senso ma è difficile che uno dei due nomi non spunti fuori dal discorso, se si parla del livello della scena underground italiana.
Dal mio canto, ho sempre considerato i due come oggetto di studio, vivisezione e assimilamento. Per motivi di locazione geografica Dario mi ha influenzato in maggior modo, sin dagli esordi, basti pensare che “CLB” è stato, assieme a uno dei primi Cecille di Lemos (strano accoppiamento lo so), il disco con cui ho imparato a mettere in battuta. Praticamente, ne conosco ogni micro-suono a memoria.
“Tropical Interlune” ha il sapore dell’house di Detroit, di Whilhite, di Kenny Dixon Jr, di Parrish e degli altri ragazzoni che son partiti da un genere e son finiti con l’esportare un’etica musicale. Un tributo dunque. Certo, ma non solo. Chi è che non ha i suoi santini ispiratori? Ma nel reiterarne nel tempo le gesta, tutti noi dovremmo saperlo, non si fa molta strada. E Dario, pur reinventandosi più volte in corso d’opera, non è mai caduto in quella camaleontica pratica della ricerca del consenso di massa, conformandosi al genere di turno, in voga. L’impronta personale nel suo stile musicale è sempre stata ben marcata e anche questo “Tropical Interlune” – in cui si nota un evoluzione nelle sonorità proposte dall’artista napoletano -, di cui gli ultimi lavori (quello con Massi su Royal Oak e le release su Huddtraxx) possono essere definiti come un “prequel” del cambiamento in atto, conserva in buona parte questo pregio.
Tra gli arpeggiati eterei e i break di “Insenature”; i rhodes classici e la contagiosa samba di “La Palma”; i rulli percussivi e le frecciate dei synth di “Gravitazionale”; i bassi ruvidi e i riff funky di “Quinto Anello” non saprei proprio cosa scegliere. Alla fine temporeggio, resto lì a pensarci. Parte “Desert Horizons” e tre minuti scarsi non bastano per prendere una decisione, la versatilità di Padice mi fa quest’effetto: è spiazzante. “Fa niente sarà per la prossima volta”, mi dico, anche perché il mio pensiero si è eclissato e tutto ciò che, in ultima istanza, mi viene da dire servirebbe solo a ingigantire la bellezza di quest’album. Ottimo Dario.