Ieri non avevamo fatto sconti al Primavera Sound, usando toni anche molto duri (per qualcuno: troppo duri. Ma è l’asticella che tieni alta per le realtà che stimi e a cui riconosci il primato). La prima giornata del primo weekend dell’edizione 2022 era risultata infatti una disfatta su tanti aspetti chiave dell’esperienza-festival. Un problema già di per sé; un problema ancora più grave quando maneggi veramente un numero enorme di persone (il Primavera è diventato un gigante, non a livello Tomorrowland o Glasto ma quasi). Grandi numeri uguale grandi risorse ma uguale anche grandi responsabilità.
Come già facevamo notare ieri, il festival non si era nascosto e – in una Story su Intagram – aveva fatto ammenda riconoscendo che tante cose non erano andate per il verso giusto. Bene, è bello dire che alle parole sono seguiti i fatti: la seconda giornata ha visto appianare quasi tutte le criticità maggiori. Certo: come in ogni evento che raduna decine di migliaia di persone ci saranno code da fare, bagni davanti a cui fare la fila, difficoltà transitorie di passaggio, momenti di calca, punti in cui l’esperienza d’ascolto non è ideale, ma nulla a cui paragonare il mezzo collasso organizzativo del giorno d’apertura. Come da più parti si sta scrivendo, con gioia e sollievo: “Pare una normale giornata al Primavera”, così come lo conosciamo da quando è diventato un festival di enorme popolarità.
“Ecco, ci voleva tanto?”. Risposta: sì, è tanto, non va minimizzato per nulla, il Primavera ha fatto una cosa importante, uno sforzo per nulla piccolo
Uno magari può dire: “Ecco, ci voleva tanto?”. Risposta: sì, è tanto, non va minimizzato per nulla, il Primavera ha fatto una cosa importante, uno sforzo per nulla piccolo. Perché per ovviare alle manchevolezze della giornata d’apertura siamo praticamente certi che c’è voluta una notte insonne per decine e decine di persone, per studiare i problemi e capire come risolverli; così come c’è voluto uno sforzo organizzativo, lavorativo ed economico extra da decidere e realizzare nell’immediato per rendere concrete le soluzioni studiate a tavolino nella suddetta notte insonne. Tutto questo lavorando sotto stress: lo stress che già c’è in automatico, lavorando ad un evento così grosso, lo stress aggiuntivo di rendersi conto di aver sbagliato tante, tante, tante cose in sede di progettazione iniziale. E quest’ultimo è uno stress che ti rode dentro.
Ci si poteva pensare prima? Ci si poteva pensare prima. Quindi la critica-come-pungolo scritta ieri resta e non la si ritira, anche lì dove si usa il termine forte di “avidità”: che serva da monito, e non solo per il Primavera ma per i festival tutti, visto che in troppi hanno la tentazione di (ri)guadagnare affannosamente in un attimo ciò che è stato perso in due anni di pandemia.
Ma intanto il Primavera ha avuto il coraggio, la forza e la voglia di affrontare subito i propri errori, ponendovi rimedio per quanto possibile. Bravi. Poi sì: non sarà probabilmente mai più il festival degli esordi, non sarà mai più realmente “indie” nello spirito e affronterà anche lui uno strisciante processo di coachellizzazione, e di questo saremo sempre contenti a metà (eufemismo), ma la qualità e la rilevanza sono semplicemente indiscutibili, così come il merito di aver reso popolari – perché questo è comunque un merito, stop – musiche fighe che inizialmente erano snobbate dal discorso mainstream collettivo e rischiavano di restare a macerare nella nicchia, un processo che poi porta quasi sempre a stasi creativa e mancanza di sfide artistiche. Lo scossone del Primavera che diventa “gigante” è comunque salutare, molto salutare. Ma è altrettanto salutare stare sempre attenti che non si perdano di vista i basics: ad esempio, voler bene allo spettatore, rispettarlo, e non trattarlo come una unit da cui estrarre valore il più possibile riducendo le spese e massimizzando i profitti.