Un mese fa, partecipare a Jazz:Re:Found (di cui su Soundwall vi abbiamo parlato qui) ha rappresentato per me una specie di “investimento emotivo”: nella musica e nelle mie capacità di ascolto e comprensione di una delle persone che oggettivamente più pare aver dato alla club culture da anni a questa parte, per parere quasi unanime, ma che io non riuscivo a comprendere, non riuscivo ad apprezzare. Ovvero: Theo Parrish.
C’è il suo percorso artistico, caratterizzato da inaspettate ed improvvise evoluzioni: una produzione musicale tortuosa, complessa, difficile da seguire e ancora di più da anticipare – già in questo modo diventa più difficile capire il suo “messaggio”. Ma non è solo questo: ancora più importante, nelle volte in cui ho avuto occasione di sentirlo suonare dal vivo mi era sempre rimasta una sensazione di ben poco divertimento. Nessun tipo di coinvolgimento emotivo, nulla mi era mai rimasto realmente impresso, nulla aveva mai realmente catturato la mia attenzione se non il mero lato tecnico e l’ oggettivamente maestosa selezione musicale. Theo Parrish mi faceva sentire quasi in imbarazzo: mi sembrava che tutti, intorno a me, riuscissero a capirlo, ad apprezzarlo. Tutti lo ascoltavano estasiati, in un affascinante stato di venerazione. Tutti ne parlavano come il messia della disco, della house, del funk, del jazz, e io, rimanevo lì, confusa tra i miei pensieri, titubante nel dire che tutte quelle emozioni io non le sentivo. E a Torino, la sera della grande serata col triplo headliner a Jazz:Re:Found (Dj Premier e Moodymann gli altri due), ho capito perché.
Dietro la figura di Theo Parrish c’è molto di più della classica figura del dj, ed è forse presuntuoso per i miei soli ventidue anni riuscire ad affrontare con profondità e consapevolezza tutto ciò che racchiude dentro sé un artista del genere: la black music storica (che comprende jazz, blues, soul, funk, R&B), l’hip hop, la disco, l’house e perché no anche la techno. Quindi mi chiedo: può una cultura e soprattutto un approccio, come quella di cui Theo è icona assoluta, essere parte del contesto attuale? O può toccare solo le corde delle persone più “colte” o di quelle che al contrario colte vogliono solamente apparire, per il solito povero fenomeno di aggregazione di massa?
Sul piano musico-culturale attualmente stiamo sperimentando un bizzarro mix di velocità estrema e punti morti. Un susseguirsi rapidissimo di nuovi trend, che spesso e volentieri spariscono con la stessa velocità in cui appaiono, vengono accompagnati – oserei dire fortunatamente – dalla caparbia persistenza di detriti nostalgici, alla ricerca del “vero” (o di quelle che, comunque, sono le radici fondanti). Ne avevamo già parlato qui, del forte momento di saturazione attuale, e se da un lato veniamo assaliti da migliaia di nuovi dischi che non sfruttano altro che un trend momentaneo, dall’altro avviene una silenziosa ribellione dall’interno e si sa, ogni ribellione ha bisogno di un leader: e in questo caso si tratta, evidentemente, proprio di Theo Parrish.
Sì, perché nel giro di pochi anni siamo stati catapultati in una realtà iper affollata, nella quale l’eccesso di stimoli reclama attenzione e tempo. Ed è proprio qui che Theo Parrish entra in gioco. E’ riuscito ad avvicinare molte persone a quel mondo sommerso datato ’60, o ’70, o ’80, dove padroneggiava il rhythm and blues nelle sue varie declinazioni e sviluppi e lì dove, proprio al contrario di oggi, se volevi ascoltare buona musica dovevi cercartela. Dedicandole – appunto – attenzione e tempo. Il mondo con cui ha messo in contatto i suoi ascoltatori risultata affascinante non solo per chi si sente veramente rappresentato da quel filone musicale specifico, ma anche chi non si sente più raffigurato dal modo in cui viene concepita la musica oggigiorno. Questa “parrishiana” Atlantide della musica rappresenta quanto di più distante dalla digitalizzazione della nostra epoca: non è facilmente consultabile via internet, non ci si può basare sulle chart delle maggiori piattoforme e non è affatto “popular”, non offre cioè né massimizza quella “gratificazione istantanea” (né del dancefloor né, di conseguenza, del proprio conto bancario) che pare essere diventata una delle architravi dei meccanismi dell’industria del clubbing.
Potrete trovarmi romantico-idealista ma anche io stessa faccio parte di quel genere di persone che ricercano continuamente altri e nuovi stimoli e in questo momento. Tra i dischi di Parrish, ora l’ho capito, si può sentire d’aver trovato un’ancora di salvezza, un’isola felice dove poter sopravvivere all’avvento irrefrenabile della dispersione tecnologica. Non è unicamente questione insomma di semplice e oggettivo gusto per la sua selezione, ma di abbracciare anche tutto ciò che sta “dietro il sipario”. Non credo che oggi, così come negli anni ‘90 o 2000, manchino i capolavori nella musica adatta ai dancefloor. Tutt’altro. Credo semplicemente che l’evoluzione di costume, abitudini sociali, tendenze, tecnologia e obiettivi commerciali abbiano però “impoverito” il mondo della musica da club, creando un’omologazione che non ha giovato alla salute della stessa. Il fenomeno è macroscopico tra gli ascoltatori italiani, ma è anche internazionale.
Theo Parrish non è solamente un retromane, ma è qualcuno che si è conquistato un titolo ben più arduo: riuscire a fondere la profondità della black music storica con l’attitudine clubbing, catturando tutto ciò che di buono c’è al giorno d’oggi in quest’ultima e offrendo una degustazione – spesso anche strettamente personale ed intimista, certo – di ciò che il passato può ancora insegnare. Ecco, a Torino è successo proprio questo. Anche perché è stato un set poco dimostrativo e molto coinvolgente: un percorso magari non semplice ma molto elegante e che profumava di nostalgia e allo stesso tempo di futuro, tralasciando la ritmica quantizzata e l’aggressività di buona parte della musica di questi tempi, ma senza rinunciare mai a far ballare chi c’era davanti. Forse non è solo questione di eleganza, è qualcosa di più profondo, di un approccio quasi “spirituale” al mestiere di dj. Qualsiasi cosa sia, sì, ne abbiamo davvero bisogno. Ora più che mai.