Monolake sta al suono dub-techno di Berlino come Robert Henke sta alla rivoluzione digitale della musica elettronica. L’equazione, certo, non esaurisce la complessità poliedrica di un personaggio cruciale nella definizione della scena tedesca ma prova a tracciare la pregnanza bipolare di un artista capace di progettare gli strumenti con i quali oggi si produce ed esegue gran parte della musica che ci piace come pure di registrare alcuni capisaldi della discografia elettronica europea. Nato nel 1969 a Monaco, Robert Henke costruisce e gestisce programmi e macchine che creano suoni, forme e strutture mentre con lo pseudonimo Monolake firma innovative produzioni techno. Dopo l’ultimo album di studio del 2012, ‘Ghosts’, ha dedicato tutte le energie creative al nuovo progetto ‘Lumière’, nel quale potenti laser bianchi disegnano rapide successioni di oggetti astratti, mentre i dati utilizzati per tracciare le forme diventano frequenze udibili, in un dialogo live tra l’artista e la macchina audiovisiva che rende la composizione un’esplorazione nella sincronicità audiovisiva. La performance (assieme al live di Pantha Du Prince) arriverà, mercoledì 24 settembre, al Teatro dei Rinnovati di Siena per il progetto curato da Club To Club a sostegno della candidatura a Capitale Europea della Cultura 2019.
Tutta la tua lunga carriera sembra una perpetua oscillazione tra due poli: da una parte la scene techno di Berlino e dall’altra l’elettronica di ricerca basata sulla sperimentazione tecnica. Come bilanci questi due aspetti del tuo lavoro?
In realtà all’inizio della storia della techno il legame con la sperimentazione era fortissimo: si trattava di prefigurare i limiti di quello che si poteva fare e le modalità per superarli. Nel mondo accademico della computer music il punto focale è la ricerca di nuovi suoni e modelli di sintesi. Nell’elettronica orientata al dancefloor si cerca soprattutto di definire la percezione del tempo lavorando con la ripetizione e i cambi. In entrambi gli ambiti la molla principale è la curiosità anche se le tipologie di persone che ci lavorano possono apparire molto differenti. Da un punto di vista strettamente personale sono sempre stato affascinato dall’idea di trasporre elementi di una scena in un contesto diverso, per esempio usando suoni di sintesi per ottenere musica da club differente o procedimenti compositivi scientifici che funzionino bene anche su una pista ambient/chill out.
Come interagiscono, nel tuo processo creativo, la composizione di studio e i vari tipi di performance e installazioni alle quali frequentemente ti dedichi?
Per le installazioni mi concentro su un unico effetto che voglio ottenere, un singolo tema o concept e cerco di realizzarlo nella maniera più bella possibile sapendo che la gestione del tempo della fruizione non dipende strettamente da me, nel senso che il pubblico può entrare in maniera random nello spazio ed esperire qualcosa. Nei concerti dal vivo invece cerco di garantire un’ampia varietà dell’esperienza e una maggiore vicinanza con quello che faccio io. Come per un libro o un film c’è un inizio, uno sviluppo e una fine.
È corretto dire che l’immersività è una delle qualità che ricerchi maggiormente sia nelle composizioni che nelle performance? Ti interessa l’idea di creare sistemi audiovisivi immersivi?
Non è qualcosa che cerco in maniera espressa ma tutte le forme artistiche che prediligo si propongono di portare l’ascoltatore o lo spettatore in un mondo altro rispetto a quello reale e quindi hanno necessariamente a che fare con un carattere immersivo. Quando vado al cinema non faccio caso alla sala ed entro letteralmente nel film. Se leggo un libro mi dimentico del tempo e dello spazio nel quale mi trovo. Ascoltando la musica ho accesso ad un altro mondo attraverso uno stato mentale differente. Anche l’esperienza di essere in un club può essere completamente immersiva: vivi completamente dentro la musica e il tempo acquisisce una dimensione alterata e qualitativa specifica.
Credi che la tua musica cerchi una qualche dimensione spirituale?
Non sono una persona religiosa ma in un senso lato sono molto affascinato dall’idea di cercare la pace attraverso la musica. C’è sicuramente più di un aspetto legato ad una dimensione meditativa in quello che cerco di fare. Mi piacerebbe che la mia musica cambiasse la prospettiva sulle cose negli occhi di chi la ascolta, anche fuori da un senso proprio di ritualità. Non credo sia un caso che per propositi religiosi sono stati inventati i migliori strumenti musicali. In un tempo in cui non esistevano gli amplificatori l’organo da chiesa era lo strumento capace di generare i bassi più potenti. Da questo punto di vista la chiesa è il club potrebbero non apparire tanto diversi.
MaxForLive, Monodeck e Ableton Live sono software e hardware che tu hai sviluppato e che hanno cambiato per sempre la composizione della musica e della sua dimensione performativa. Ti sei mai chiesto cosa sarebbe la musica elettronica senza questi strumenti?
Quando abbiamo cominciato a sviluppare Ableton Live esisteva già qualche software utile a suonare live su un palco ma si trattava, per lo più, di programmi scritti dagli stessi musicisti che li usavano e pensati unicamente per la loro performance, quindi non buoni per quasi tutti gli altri approcci possibili al suono dal vivo. Non possiamo certo dire che sia stata una cosa che abbiamo tirato fuori dal nulla ma non c’era niente di simile sul mercato. Il programma e le macchine sono state progettate perché i musicisti ne avevano bisogno, sono nate da necessità concrete. Non saprei dirvi quanto questo software abbia influenzato la musica che ascoltiamo oggi o quanto questa abbia concorso al disegno di Ableton dato che in genere questi scambi sono mutui. Fai qualcosa perché senti che ce n’è bisogno. Altre persone fanno lo stesso: comprano quello che tu hai fatto, lo usano e ti danno feedback utilissimi o magari nuove idee per migliorarlo. Allora tu lo cambi e il giro ricomincia. Ableton Live ha ora quindici anni e se guardo indietro mi rendo conto di quanto le idee delle persone che lo usano siano entrate nel programma. La sua utilità principale è quella di permettere a tanti artisti di produrre musica senza necessariamente aver bisogno di uno studio di registrazione. Possiamo dire che il software e la compagnia si sono sviluppate partendo proprio da un forte lavoro di rete. Credo che oggi il più grande regalo che abbiamo a disposizione è la possibilità di confrontarsi con fantastiche comunità attive che collaborano attorno a passioni comuni e scoprono cose assieme.
“Ghosts” è il tuo ultimo album datato 2012. Stai lavorando a qualche nuova uscita?
Ero in una situazione personale davvero terribile quando ho registrato quel disco. Ci ho messo dentro tutta la mia tristezza e le mie frustrazioni facendolo diventare un album davvero molto personale. Ho promesso a me stesso che il prossimo sarò molto felice. Ho un sacco di tracce non finite e pronte ad essere chiuse ma ho qualche esitazioni a fare uscire robe nuove perché sono molto concentrato sulla performance live ‘Lumiere’. Posso anticiparvi, però, che presto uscirà un nuovo 12″ firmato Monolake.
‘Lumiere’ è il progetto solista nel quale combini l’uso di laser e suoni generativi. Ci racconti l’idea dietro questo lavoro?
Tutto è partito da una sfida con me stesso: volevo capire cosa ero in grado di fare come artista con un mezzo artistico affascinante, dall’aspetto scientifico e futuribile ma allo stesso tempo estremamente semplice, come il laser. ‘Lumiere’ è dunque la mia ricerca personale nella quale ho provato a fare qualcosa di inedito con questo medium, una esplorazione visiva e sonora sull’interazione tra luce, grafica e suono che è solo agli inizi. Credo di poter dire che si tratta di una performance audiovisiva consistente e nuova. In ogni performance scopro cose nuove, correggo difetti che prima non avevo notato e questo è lo scopo principale di questo lavoro
Imbalance Computer Music è la tua etichetta personale, la piattaforma principle dalla quale lanci le produzioni come Robert Henke e Monolake. È il modo che hai escogitato per continuare a garantirti la tua libertà creativa?
Vengo da una tradizione berlinese nella quale era normale prodursi da soli le proprie cose. È quello che è successo con Chain Reaction, Basic Channel e molte altre realtà diventate poi importanti. Agli inizi se volevi produrre un disco creavi la tua propria etichetta perché non ci pensavi nemmeno di andare a bussare ad una major per proporre quel tipo di suono. Semplicemente, non mi è mai successo di desiderare una grossa etichetta per le mie uscite. Ci sono un sacco di vantaggi in termini di libertà artistica in questo modello ma anche un sacco di limiti legati alla visibilità e all’impatto di quello che fai. Nonostante questo molta gente conosce il mio lavoro e con i miei album sono presente sui grandi siti di vendita on line… Ovviamente sarebbe diverso (e ora per me anche facile) lavorare con una grossa etichetta ma me piace essere indipendente. Molti dei miei amici artisti di quel periodo hanno smesso di fare musica oppure sono passati sotto una grossa label. Io invece continuo ad aver voglia di fare le cose piccole, con cura.
Cosa ti ispira in questo momento?
Ci sono un sacco di cose che mi affascinano e mi piacciono tra musica, architettura e arti visive. È difficile però, per me, individuare una sola fonte d’ispirazione. Non posso dirvi che mi sto dedicando completamente alla scoperta della musica barocca o allo studio di uno specifico artista. In questo momento della mia carriera lunga venticinque anni mi sto dedicando principalmente a capire, rileggere e analizzare quello che ho fatto sino ad ora ma, soprattutto, a immaginare come correggere errori che ho fatto e come realizzare progetti che ho in mente da tempo e che ancora non sono riuscito a portare a termine. Riguardo il discorso specificatamente musicale, in questo momento c’è in giro un bel po’ di nuova musica techno “complessa, rumorosa e ridotta” che mi piace davvero molto. Un esempio su tutti è quello degli Emptyset: stanno contribuendo all’evoluzione di quel suono attraverso una paletta di suoni consistente eppure controllata e un lavoro innovativo sulle trame ritmiche. In generale credo che la musica da club sia all’apice della sua storia: magari è difficile da ballare ma è interessante proprio per quello. Con il mio lavoro sto provando proprio ad avvicinarmi a questi picchi, tra drone e noisy, non immediatamente associabili ai canoni della musica da ballo eppure straordinariamente suggestivi. La cosa incredibile è che di musica buona in giro ce n’è davvero tanta. Conosco un sacco di pessimisti che si lamentano perché con il digitale è troppo facile produrre musica di scarso valore e distribuirla attraverso canali come Soundcloud o Bandcamp. Io la vedo diversamente: è vero ci sono un sacco di presunti produttori che fanno girare musica di poca consistenza ma, allo stesso tempo, oggi è molto più facile scoprire talenti realmente capaci. Di natura sono un ottimista.