Sullo sfondo monocromatico si staglia lo skyline della Motor City americana rivitalizzato da un capillare flusso di elettricità che sgorga in tutta la sua spettacolare luminosità, rendendo ancor più definito il distacco con lo sfondo notturno. In un’ottica diversa, due sinusoidi di segno opposto percorrono il periodo simultaneamente, annullandosi.
La materia organica di quest’album viene dalla Detroit martoriata dalla crisi finanziaria e dal degrado sociale, sempre più vicina a una ghost-city; è in questo contesto che con prorompente forza narrativa si fa spazio la musica di Robert Hood. Sembra quasi di essere tornati con le lancette indietro di trent’anni: UR si prefiggeva attraverso la sua musica rude – proveniente da una città dura, con tutti i suoi problemi, non facile da vivere – di denunciare, con intenti politici e sociali, il malessere che andava diffondendosi in quel contesto metropolitano. Il sistema economico si sta accartocciando nuovamente su se stesso, e Robert Hood non ha tardato a farsi (ri)sentire.
E’ così che atmosfere inquiete e impalpabili, come fumi che si diradano nel cielo dai camini delle industrie, ci fanno vedere il complesso scenario di Detroit – in questo caso il nome poco conta perché la città potrebbe essere una qualsiasi Gotham City sulla faccia della Terra – con lo sguardo imbambolato e gli occhi inespressivi di un individuo spaesato dall’ambiente che ha tirato su nel corso degli ultimi due secoli: la città industriale.
Con “Motor: Nighttime World 3”, Robert Hood si fa carico di mostrarci, coi suoi minimalismi, uno stato comune dell’individuo moderno: la demenziale alienazione dagli stimoli esterni che lo affligge, non facendogli comprendere realmente l’entità dello schifo in cui è immerso.
Si svaria dalla raggiante bellezza estetica di “The Exodus”, alla rudezza urbana di “Motor City”; dalla frenesia jazzistica di “Better Life” che germoglia in calma arpeggiata nel finale al basso grezzo e agli archi di “Black Technician” – i titoli sono la prefazione di storie a sé, ognuna di queste ispira riflessioni e pensieri: UR ti rimane impresso sulla pelle a vita, non si cancella ciò di cui si è stati parte -, continuando con le sonorità da città-futuristica di “Drive (Age Of Automation)” che lasciano il posto ai più caldi e ospitali deep-synth di “Torque One”; la down tempo di “Slow Motion Of Katrina” pare un invito a prendersi una pausa dalla routine quotidiana, per poi riprendere con più calma e tranquillità.
Il cerchio di questa trilogia cominciata nel ’95 – anno del primo disco, in cui l’influenza di Mills e Banks si sente limpida – e continuata nel 2000 col secondo LP, un elogio alle radici jazzistiche che ci fa apprezzare appieno la bellezza della cultura afro-americana, si chiude con la traccia “A Time To Rebuild”. I toni sono da propaganda e il duplice intento è ormai chiaro: ascoltare la musica sì, ma anche rifletterci su, perché qualcosa non va e il meccanismo si è inceppato.