Ricordo che non ho sentito direttamente, la prima volta, “Children” dalle mie cuffie Aiwa o dal mio stereo Pioneer a casa, “Children” mi è arrivata per interposta persona in un intervallo alle scuole alberghiere che frequentavo, la solita ragazza un po’ più piccolina dal fare esuberante, con gli orecchini a cerchio grossi ma non grossissimi, la classica fighetta adolescenziale da turbe giovanili che attirava tutta la scuola.
Ricordo che mi colpì il giro di pianoforte, pulito morbido, non era un piano forte da discoteca, ho scoperto Robert Miles, pensando che non fosse assolutamente un pianoforte da discoteca, i primi secondi non erano quelli di un classico pezzo dance, mi sono avvicinato alla tipa che mi piaceva e che ascoltava da un Sony che gracchiava anche senza cuffie: “che cos’è questo?”
Attenzione io in quel momento ero poco più che un emarginato, non flirtavo con la dance, non ero un amico della cassettina, orgogliosamente maglia da fan degli Arrested Development è in cuffia Coolio ( era l’anno di “Gangta’s Paradise” forse Warren G).
Erano i tempi delle dediche sulla Smemoranda le Nike “ciccicottose” con il calzino piegato sotto la linguetta, c’era chi osava vestiti Zac Style, si usciva il sabato sera ma non per andare a ballare, a ballare se andavi alle superiori ripetente o meno, a Milano ci andavi la domenica pomeriggo.
Si ballava all’Ipotesi in Piazza 24 maggio, allo Space, non ricordo se c’erano ancora Madame Claude e Le Cinema ma i posti dovevano essere quelli, posti che non frequentavo comunque anzi se potevo ne parlavo anche male.
I ’90 erano più che mai anni classisti figli di una deriva paninara, un classismo non sociale ma di appartenenza. Se ascoltavi rap schifavi la Dj Parade e sputtanavi soldi da Wag, se ascoltavi metal ti rinchiudevi al Midnight a Milano, se eri “zarro” schifavi le prime due ipotesi e ballavi.
L’arrivo di “Children” e di conseguenza di Robert Miles, ha cambiato molto sotto questo punto di vista, “Children” con il suo piano, la pausa, il crescendo è stato musicalmente parlando, a mia memoria, uno dei più grossi strumenti di aggregazione giovanile. Questo perché nel giro di poche settimane oltre a diventare un successo planetario, fu la canzone che tutti sentivano e quando dico tutti, credetemi intendo tutti, tutti passarono almeno una volta sul Dj Time che la trasmetteva a bomba, il pezzo era in Tv, dappertutto, davvero dappertutto.
Ho sentito Robert Miles coverizzato in sala prove da un gruppo con cantante dai capelli ultra lunghi e maglietta dei Judas Priest, l’ho trovata nei Walkman di skaters dietro il Duomo (forse era Piazza Borromeo ma potrei sbagliarmi), ex compagni di Rugby che non scendevano in campo prima di averla sentita in spogliatoio, writers incalliti ne parlavano prima di andare in Yard, un bombardamento continuo capace di abbattere gusti, presunzioni, supponenze musicali.
I tre minuti e quarantanove secondi di una canzone trance fuori dalle logiche dance di quel periodo, almeno a mio avviso avevano messo tutti d’accordo, le mani al cielo nel centro del pezzo erano ormai alla portata di tutti e diritto di tutti, e non importa se fu per lo spazio di una canzone e di un più o meno breve periodo, amici che oggi con prole passano la domenica al centro commerciale per comprare l’ennesima raccolta di successi di Biagio Antonacci, oggi ricordano un pezzo della loro tarda adolescenza quel periodo ormai malinconico del prima di farsi uomo come un Dj per molti, per loro venuto dal nulla li introdusse ai bpm e alla musica dance, con il risultato logico e improrogabile di sentirsi un po’ più vecchi, di sentirsi un po’ più soli.