Quando si parla di house music nel nostro paese, è inutile raccontarsi bugie, si rischia di passare sempre un po’ per datati e fuori mano. Il periodo florido di questo genere musicale è da tempo tramontato e i pochi fortunati che non se lo sono ancora scrollato di dosso diventano sempre più merce rara. Quando ho scoperto che un’autentica leggenda come Robert Owens veniva ad esibirsi nella mia Milano non credevo ai miei occhi e ho subito voluto approfittare per farci quattro chiacchere. Purtroppo a causa di una nevicata apocalittica il destino non mi ha voluto regalare il tanto agognato faccia a faccia, così abbiamo dovuto ripiegare sulla più fredda tecnologia di Skype per guardarci negli occhi qualche giorno dopo. Inutile dire che persona totalmente squisita e disponibile mi sia trovato di fronte, un autentico cittadino del mondo con tanta voglia di raccontare se stesso e quello che è stato il boom della prima house negli Stati Uniti e susseguentemente in Europa. Sin dai primi passi Robert è stato innamorato della musica e specialmente del canto. Partendo dai cori gospel in chiesa e via via fino all’incontro con Larry Heard che ha cambiato per sempre la sua vita. Oggi la sua è una delle più rinomate voci maschili della musica elettronica mondiale. Il suo segreto? La tranquillità e l’amore per le persone che lo circondano, ingredienti fondamentali nel suo modo di approcciarsi alla vita e alla musica. Faremo insieme a lui un viaggio lungo tre decadi attraverso tutto quello che lo ha influenzato e che gli ha permesso di essere ciò che è oggi. Dai primi anni della discomusic e del leggendario Ron Hardy, fino ad arrivare al suo trasferimento in Europa e all’esperienza legata alla nostra penisola.
Ciao Robert, dove ti trovi al momento?
Attualmente mi trovo a Londra, che poi è dove vivo.
Come mai hai deciso di spostarti a Londra dopo tanti anni negli Stati Uniti?
Sono venuto qui per la prima volta nel 1984 per il primo House Tour e mi sono fatto un sacco di amici fin da subito, perciò dopo quel tour sono tornato un po’ di volte solo per vedere quelle persone. Mi sono semplicemente innamorato della cultura inglese e poi intorno al 1990 il manager della Freetown Records mi chiese di diventare il loro A&R. Mi chiamò dicendo una cosa del tipo “Ehi, vuoi venire a gestire l’etichetta?” e quindi mi misi al lavoro ricercando nuovi talenti, girando per clubs e portando alcuni musicisti e cantanti dagli Stati Uniti (come ad esempio Arnold Jarvis) per organizzare degli showcase e un buon catalogo di tracce per l’etichetta. Dopo di che molti amici promoter che vivevano in Europa, dopo aver scoperto che mi ero stabilito a Londra, cominciarono a chiedermi di esibirmi nei loro locali, sfruttando la facilità con cui potevo raggiungerli visto che non dovevo mai viaggiare più di una o due ore.
Secondo te, perchè nell’ultimo decennio i promoters americani (a differenza di quelli europei) non ti hanno più fatto lavorare un gran che?
Me lo sono chiesto spesso anche io perchè non mi fanno più lavorare lì e questo è molto strano. Sai che ogni giornalista mi chiede la stessa cosa ed ogni volta rispondo la stessa cosa? Non ho nessun indizio, quello che posso dire è che la gente americana su Facebook e via mail continua a chiedermi di esibirmi nella loro città e io gli rispondo che mi piacerebbe molto ma che è un problema legato ai promoters che non me lo permettono. Recentemente sono stato persino in Africa ed è stato bellissimo e mi hanno chiesto subito di tornare. Ma ormai Inghilterra ed Europa sono la mia base operativa dove mi esibisco settimanalmente e per quanto riguarda la mia assenza negli Stati Uniti, come ho detto, non ho nessun indizio in merito.
Hai avuto una gioventù molto “nomade” essendoti trasferito spesso fra Chicago, Los Angeles e New York. Quanto questo modo di crescere ha influenzato il tuo modo di vedere le cose e magari anche di fare musica?
Credo sia parte di quello che sono oggi. Sono cresciuto in una famiglia spezzettata perciò non ho avuto quello che si può definire un punto di partenza. Mia nonna mi ha cresciuto e poi mi sono spostato da un membro della famiglia all’altro in posti diversi, finchè non ho deciso semplicemente di stare per conto mio. Credo che venire da una situazione come quella mi abbia reso più facile viaggiare e conoscere altre persone perchè non avevo paura del cambiamento e delle novità. Ogni posto in cui sono stato, tutte le persone che ho conosciuto nel corso dei miei spostamenti, sono come parte della mia famiglia. Mi riesce molto facile fare nuove amicizie perchè amo le persone, amo vederle felici, amo esibirmi per loro e credo che questo sia naturalmente insito dentro di me anche grazie alle mie radici.
A che punto ti sei reso conto che la musica avrebbe potuto davvero essere il tuo lavoro?
E’ stato ai tempi del Warehouse (chiamato poi MusikBox) e del club chiamato The Den dove suonava Ron Hardy nei primi anni della disco music. Devi sapere che sono venuto fuori dalla disco prima di approdare all’house. Inoltre conoscevo alcuni dj più vecchi di me che mi invitavano a questi party e presi ispirazione ascoltando la musica che suonavano. Al tempo avevo circa 18-19 anni e frequentare posti del genere mi fece venir voglia di fare qualcosa con la musica ma da solo non sono mai riuscito a trovare il veicolo adatto per raggiungere i miei scopi. L’unica ragione per cui tutto ciò è diventato realtà è dovuto all’incontro con Larry Heard.
Quando parli di “veicolo” per rendere il sogno realtà parli di strumentazione o di idee?
Idee. Quando hai l’occasione di vedere all’opera persone come Larry Heard, Ron Hardy, Frankie Knuckles puoi davvero trarre ispirazione. A quel tempo avevo comprato due giradischi e un mixer e avevo iniziato a suonare ai party universitari ma in realtà quello che volevo creare era una band che però purtroppo non hai mai visto la luce.
E dopo quello che è successo? Quando hai deciso di cominciare ad esibirti come cantante?
La gente voleva sempre che io cantassi: dai tempi del coro gospel in chiesa quando ero piccolo ai party quando sono cresciuto, tutti volevano che facessi quello. Larry Heard fu il mio veicolo per la realtà perchè era un musicista ed aveva un microfono. Perciò mi disse: “Cantaci dentro” e così ho fatto.
Come descriveresti la risposta del pubblico all’avvento della musica house nei primi anni ’80 in America?
Erano impazziti. La musica e i club erano diventati come una via di fuga dalle vita normale, vestendo i panni di un personaggio e facendo parte di quell’ecosistema che si era creato.
Un sacco di locali negli Stati Uniti hanno avuto un ruolo fondamentale in quegli anni. Quali erano i tuoi favoriti?
Sai, c’erano davvero un sacco di locali ai tempi, probabilmente me ne dimenticherò qualcuno ma direi che i miei favoriti sono stati lo Studio 54 a New York, il Warehouse a Chicago, il The Catacombs a Philadelphia e sicuramente altri che ora mi sfuggono a Detroit e Los Angeles.
Hai nominato spesso la leggendaria figura che è stato Ron Hardy. Quali sono i tuoi ricordi legati a lui?
Era incredibile vederlo suonare, Ron Hardy è stato assolutamente la mia principale influenza. Riusciva a mettere insieme questi piccoli campioni tagliati da varie tracce facendoli suonare come se fossero un’unico pezzo. Era una cosa pazzesca! Molti di quelli che hanno fatto house durante gli ’80 negli Stati Uniti hanno imparato molto guardandolo esibirsi sul palco. Parte dell’ispirazione di dj leggendari come Fairley Jackmaster Funk viene da ciò che Ron Hardy suonava. Per esempio, Fairley fece una traccia chiamata “I can’t turn around” ed era ispirata a “Love can’t turn around” di Isaac Hayes, uscita molti anni prima e suonata da Ron. E’ probabile che anche altri artisti come Frankie Knuckles abbiano influito molto, ma credo che nessuno sia stato così fondamentale quanto Ron Hardy perchè era così dotato che quando lo vedevi lavorare non potevi credere ai tuoi occhi.
La scena statunitense è cambiata in qualche modo dopo la sua morte?
E’ cambiata perchè lui era come un dio della musica per la gente. Era qualcuno, come ho già detto, a cui guardare per ispirarsi. La scena underground di Chicago e Los Angeles ha avuto un pessimo momento dopo averlo perso. Per quanto mi riguarda la più grande disdetta è stata quella di non aver potuto condividere col resto del mondo ciò che era vedere quell’uomo sul palco. Ron Hardy live era qualcosa che non si può descrivere.
L’Italia, tramite città come Napoli e Riccione, ha giocato un ruolo predominante durante l’avvento della musica house in Europa. Tu sei venuto spesso a suonare qui durante quel periodo, com’era la risposta della gente a quel genere così nuovo?
L’Italia è stata probabilmente la mia più grande sostenitrice durante la mia intera carriera. Mi hanno sempre trattato come una popstar e con il massimo rispetto. E’ stata per un sacco di tempo come una seconda casa e voglio ringraziarvi tutti per questo. Tornando indietro, ricordo quando mi esibii all’apertura del Peter Pan a Riccione, penso ancora a quanto era grande quel locale. C’erano migliaia di persone di fronte a me e c’era un’attenzione allo stile e alla bellezza che non dimenticherò mai. Non potrei ottenere niente del genere in nessun altro posto al mondo. In Italia quando le persone vanno nei locali danno tutto quello che hanno, interagiscono tra di loro come se fossero un’unica famiglia. Non si tratta solo di moda, è più una questione di passione. Le persone di fronte a me non riuscivano a capire tutte le parole eppure cantavano con me in qualunque caso ed era davvero emozionante. Quando realizzi che la gente è davvero catturata da qualcosa che proviene da te, tutto ciò è semplicemente magico.
Come è cambiato il tuo modo di fare musica in oltre 30 anni? Riesci ancora a sentire le stesse vibrazioni di un tempo?
Credo di essere rimasto lo stesso. Applico sempre lo stesso approccio quando scrivo qualcosa. Se tu mi mandi una base musicale, io la ascolto e butto giù una prima bozza. Dopo di che dico a me stesso “Mi piace ma magari non piacerà a lui” e poi la registro. Non mi va di diventare matto: magari ti piacerà, magari no e allora proveremo qualcosa di diverso. Non sono uno che ama stressarsi. Credo che i miei peggiori progetti in studio siano stati quelli dove le persone mi mettevano pressione sulle spalle. Una persona deve sentire una sorta di scintilla per creare una buona traccia e c’è bisogno di avere la mente libera in modo tale da comporre qualcosa che ti faccia sentire bene con te stesso. E magari farà stare bene anche qualcun’altro. E’ il mio instinto naturale nell’approcciarmi al lavoro che mi ha reso ciò che sono oggi.
English Version:
Talking about house music in our country, it is useless to tell lies, it’s easy to be considered dated and out of reach. The prosperous period of this musical genre has gone since a long time and the lucky few who didn’t shake it off yet are becoming increasingly rare stuff. When I found out that a legend like Robert Owens was going to perform in my Milan I couldnìt believe my eyes and I immediately wanted to take this opportunity to have a chat with him. Unfortunately due to an apocalyptic snowstorm we had no meeting, so we had to fall back on colder Skype technology to look at each other a few days later. Needless to say what a totally delicious and available person I have faced. A true world citizen with a great desire to tell all about himself and what has been the explosion of the first house music in the United States and subsequently in Europe. From his early days Robert has always been in love with the music and especially for singing. Starting from gospel choirs in church and so on up to the meeting with Larry Heard that changed his life forever. Today its is one of the most famous male voices of the electronic music. Which is his secret? The tranquility and love for the people around him, key ingredients in his way of approaching life and music. We will make a three decades long journey with him, passing through everything that influenced and allowed him to be what he is today. From the early years of disco and the legendary Ron Hardy, up to his move to Europe and the experience related to the Italian peninsula.
Hi Robert, where are you located right now?
I’m in London right now, that’s where I live.
Why did you decide to move in London after so many years in the US?
I came here for the first time back in 1984 for the first house tour and I’ve made friends since that first time so after that tour I just came back sometimes just to hang out with people. I just kinda fall in love with the English culture and then around 1990 Freetown Records managers approached me to become their A&R, the owner just said like “Ehi you wanna come down to take over the company?” and then I scouted talents, I went around clubs, I brought different musicians and singers and we made some showcases and a full catalogue of tracks and artists. I even called up Arnold Jarvis to come over from America. And then promoters and friends from all over Europe found out that I was based in London and so they started to contact me to perform every week because I was just one or two hour far from there and it had a logical sense for me to remain in London.
In your opinion why in the last decade the US promoters (instead of the European ones) didn’t book you that much anymore?
I said that to myself! Why? They never book my there which is strange. You know every journalist asks me the same thing and every time I answer the same: I’m clueless why but what can I say is that people on Facebook and stuff always ask me to come over their city to perform and I answer them that I’d like to do that too but it’s a matter of promoters which don’t book me. You know, I’m playing all around the world in many different place, recently I’ve been to Africa which was amazing and the asked me to go back. Europe and England precisely are my staple area where I perform like every week and for the moment about the lack of US gigs that’s it, I’m clueless about that.
You have had a “nomadic” childhood moving between Chicago, LA and New York. How did this way of growing has influenced your way to see things and perhaps your music?
I think it was the way I came up. I was brought up between a broken family so I haven’t had something like a staple place. My grandmother raised me and then I shifted around different members of the family on different place until I decided to just stay on my own. I think that coming from a broken family made it easier to me to travel around and meet people because I had no fear of moving and meet stangers. Every place that I’ve been to, all the people that I’ve met during my shifts is kinda part of my family. For me it’s easy to have friends because I love people, I love to see them happy, I love to perform for them and I think that this is naturally installed in me thanks to my roots.
When did you realize that music could actually be your job?
It was at the time of Warehouse (then called MusicBox), the club called the Den One where Ron Hardy was playing during the early disco days. I came out of disco before the house, then I knew some older DJs and went to this parties and took inspiration listening to the music that they were playing. You know, I was like 18 or 19 and going to this clubs made me want to make something with music but I’ve never found the right wehicle to make it reality. The only reason why it became reality is because I met Larry Heard.
When you say “wehicle” to make it reality you mean equipment or concrete ideas?
Ideas. When you can see people like Larry Heard, Ron Hardy, Frankie Knuckles play you can really get inspired. At the time I bought two turntables and a mixer and I started to play at university parties but at side I wanted to have a band but it never worked out.
And after that what happened? When did you decide to start performing as a singer?
People always wanted me to sing: from the church in gospel choirs to the parties they always wanted me to do that. Larry Heard was my wehicle reality because he was a musician and he had a mic. So he said like “Sing on it” and so I did.
How could you describe people’s response to the advent of House music in the early 80s?
They were wild. The music and the clubs were like an escape from their normal lives and a way to become characters belonging to that environment.
A lot of Clubs had a fundamental role in those years in the US. What were you favourites?
You know, there were so many clubs back in the day, maybe I’ll forget some but I guess my favurites were Studio54 in NYC, Warehouse in Chicago, The Catacombs in Philadelphia and some others in Detroit and LA.
You named much the legendary figure that Ron Hardy has been. What’s your memory about him?
It was umbelievable to see him play, Ron Hardy was definitely my biggest influence, he was playing this little pieces of tunes and make them sound like they were a standalone track. It was amazing! Many of the people who made house music in the US during the 80s have learnt so much seeing him on the stage. Some of the inspiration of legendary DJs like Fairley Jackmaster Funk comes from the stuff that Ron Hardy was playing. For istance, he made a track called “I cant’ turn around” and it was inspired by “Love can’t turn around” by Isaac Hayes, made many years before and played by him. Even Frankie Knuckles inspired a lot of stuff, but I think for me Ron was probably the biggest influence ‘cause he was so skilled that you couldn’t believe your eyes.
How did the music scene in the US change after his death?
It changed because he was a musical god for people. He was someone, like I said, to look at for inspiration. The underground scene in Chicago and LA had a terrible moment after losing him. In my opinion the greatest lost was for him, ‘cause he never could experience the world outside of the US like I and many others have done.
Italy in the name of cities like Naples and Riccione has played a main role during house music’s flood in Europe. Did you come to play here during that period? How it was crowd’s response to that kind of music?
In my mind Italy has been probably my greatest audience during my entire career. They treated me like a popstar, with the highest respect. Italy has been for a lot of time like home to me and I want to thank all of you for that. Back in the days I went to the opening of Peter Pan in Riccione, think about how big that club was, there were thousand of people in front of me and there was an attention to style and to beauty that I’ve never forgot. I couldn’t get something like that in any other part of the world. In Italy when people go to the clubs the want to give all of themselves, interacting with everyone like a family. It’s not just fashion, it’s more about passion. They didn’t understand every word of the music but the were trying to sing no matter what, that was emotional to me. When you recognize that people is really into something coming from you that’s magical.
How your way to make music han evolved in this 30 and over years? Do you feel always the same vibe you had back then?
I guess I’m the same. I use the same approach when I write something. If you send me a peace of music, I listen to it and I write down the first stuff, than I say “I like it but maybe he won’t” and then I record my stuff. I don’t sacrifice myself, maybe you’ll like it maybe you won’t and we will try something else. I don’t strees myself out. I think my worst projects in studio were when people were putting pressure on me. You need to feel the heat for a good track and you need to have a clear mind to create something that makes you feel good, and then maybe somebody else will feel good with it too. It’s my natural instinct to approach things that made me as I am today.