Il primo pensiero che ci viene se pensiamo a questo roBOt è la complessità di cose che dobbiamo mettere insieme, perché quest’ultima edizione della rassegna per noi è stata forse la più completa, sia a livello umano che professionale. Se da una parte il confronto con l’edizione dello scorso anno era quasi scontata (per noi una delle più belle, da incorniciare) quella appena conclusa era il banco di prova per un festival che dopo sei anni è ormai nella sua fase matura: ha un’identità ben definita, quasi umana, a tratti positiva, a tratti negativa come tutti noi.
Quest’edizione mette in evidenza tutto quello che abbiamo sempre pensato, ma anche quello che non ci aspettavamo. Se la lineup che suscitava qualche dubbio si è rivelata una delle scelte vincenti, quelle che erano invece delle certezze hanno iniziato a dare qualche segnale che non sarà facile ignorare in futuro: ad esempio Palazzo Re Enzo è ormai una location tanto bella quanto stretta, non in termini puramente numerici, ma burocratici. Il colpo d’occhio a tratti fa pensare a cifre ben sotto le aspettative, mentre invece si è raggiunto ampiamente il sold out.
Detto questo, torniamo a parlare di noi, almeno per un secondo. La voglia di fare qualcosa di diverso con i ragazzi di roBOt ci ha portato a produrre una quantità di materiale che sarebbe difficile ordinare in modo logico. E’ stato un esperimento senza regole, dove un live feed e un gruppo di amici si sono amalgamati con tre giorni di festival, immersi nel capoluogo emiliano. Il risultato? Una marea di foto, di aneddoti e un’amicizia ancora più forte: tra di noi, ma anche tra gli addetti ai lavori e gli artisti stessi. Perché i nostri occhi davanti al palco hanno inquadrato una situazione spesso da voti alti, ma quelli dietro hanno assistito a scene che si vedono raramente. Non è facile scrutare Thundercat, Jon Hopkins, Koze & co. intrattenersi come vecchi amici per buona parte della serata (anche dopo aver suonato). Solitamente più facile infatti vedere saluti freddi, come quelli che si sono rivolti Ben Klock e Seth Troxler quando si trattava di fare il cambio in consolle, manco fosse una staffetta tra due punte che si giocano il campo durante la finale dei mondiali. Ci siamo conosciuti a fondo, abbiamo avuto modo di esplorare ogni angolo di questo roBOt e di divertirci, cosa che spesso non accade più quando si è abituati a vivere le stesse scene come se fosse già tutto scritto. Siamo stati un team che ha partorito insieme questo racconto, che definire report sarebbe riduttivo. Cercare di amalgamare più stili di scrittura è un’idea da pazzi e una voce narrante (questa che scrive) era necessaria, così come lo è un direttore in un’orchestra. E poi ci siete stati tutti voi, quelli che hanno contribuito al feed, che ci hanno riconosciuto e salutato in pista, ecc…
(Godblesscomputers)
Ma com’è andata?
L’approccio con Bologna è stato ruvido, abituati al clima più caldo di Roma e dintorni, ma a riscaldarci ci ha pensato subito l’atmosfera dei primi due giorni di festival. Se al mercoledì Tim Hecker ha affascinato il pubblico più intellettuale, già a partire dal giorno seguente la musica ha cominciato a premere sull’acceleratore. Abbiamo avuto a che fare con un ispiratissimo Godblesscomputers – fantastico, ripeto: fantastico, la sintesi quasi perfetta di Falty DL e Bonobo – e con un Jackmaster in formato hooligans. Al TPO, infatti, il dj bravo del collettivo Numbers c’ha dato dentro di sana pianta; e non importa se si sta parlando di dischi o whiskey, il risultato è il medesimo: delirio. La maggior parte dei presenti ricorderà “Blue Monday” dei New Order, ma chi è riuscito a resistere alla “nebbia” delle birre a tre euro converrà con me che il set forse non ne aveva bisogno, già perfetto com’era. A Jackmaster, insomma, va la Coppa Casino di questo roBOt 2013, nonostante i cori da stadio per Tobi Neumann (veteranissimo della rassegna) nel backstage potrebbero far credere altro. Insomma, un antipasto di quelli che nemmeno un bel piatto di crescentine e mortadella avrebbe saputo fare di meglio.
(Cori nel backstage)
Nessuno, però, è sazio. E allora sotto con uno di quei venerdì di fuoco dove a farla da padroni sono stati prima DVA DAMAS, Tropic Of Cancer (accompagnati dal pubblico delle grandi occasioni) e Holy Other, capace di tingere di un nero claustrofobico il palco principale di Palazzo Re Enzo; da segnalare anche la performance dei ragazzi di Apparell nella Sala del Capitano preceduti il giovedì da un grande Memoryman (per gli amici Uovo). L’anima danzereccia di Bologna si è poi sfogata a dovere con un Troxler in buona forma ma forse fuori ruolo in una pista così ampia, che invece è stato il prevedibile terreno di caccia perfetto per Ben Klock che, con un set senza rischi e dal faccione incazzatissimo, ha somministrato una serie di colpi poco educati sulle ginocchia dei presenti. C’è chi dice di non averlo mai sentito suonare così bene, chi (come noi che l’abbiamo visto esibirsi in diverse cornici) ogni tanto vorrebbe godere di qualche rischio in più: cioè Ben, facci male ma poi toglici pure il respiro con il colpo ad effetto, quando vuoi e come preferisci… ma fallo (un po’ come lo scorso anno quando chiudesti con il remix di Carl Craig di “Kill 100”, ma lì c’era l’amico Dettmann e forse è questa la vera ragione di una differenza così netta tra i particolari che hanno caratterizzato le storie di questi due set.
(Tropic Of Cancer)
(Apparell)
Memori del festival dello scorso anno, quando i Soul Clap e soci non sono riusciti a bissare la bagarre della “banda O-Ton”, Scuba e Bashmore, abbiamo accolto con un pizzico di scetticismo la giornata di sabato, almeno per quanto riguarda il robot “by night”. Ma andiamo con ordine.
Appena entrati a Palazzo Re Enzo, dopo un interminabile e poco romantica passeggiata sotto la pioggia battente, abbiamo avuto la sensazione, salendo le scale, che forse i nostri timori potevano essere estesi anche al programma serale. Troppo affezionati alla nostra prima edizione del festival? Forse, tuttavia tra le note positive, a riceverci nel salone del Podestà è stato il live di Kelpe, con i suoi beat distinti e mai banali, dalle classiche sonorità Warp, ricchi in bassi energici. A seguire la performance live del bassista metallaro, socio di Flying Lotus, Stephen Bruner meglio conosciuto con il nome di Thundercat. Lui, ha saputo, da vero fuoriclasse, entrare nelle grazie del pubblico ammagliandolo con giri di basso alternato alle sue performance vocali (la pista è totalmente in delirio quando parte “Oh Sheit, It’s X!”). Direttamente da casa Ninja Tune i due fratelli separati alla nascita Richard Roberts ed Andy Harber riuniti sotto lo pseudonimo di Letherette. Da Wolverhampton, i talentuosi beatmaker hanno finalmente raggiunto un valore nel loro sound che è quello dell’originalità, con una commistione di sonorità funk, trip hop e rimandi anni ’70.
(Thundercat)
(Letherette)
Ma allora diciamo addio alle remore e alimentiamo una libido già alle stelle dopo aver visto Totti, Strootman e Florenzi tagliare in due San Siro e disegnare il contropiede perfetto: la sesta puntata di roBOt non ha ancora finito di dire la sua. Eh sì, perché lo spettacolo andato in scena al Link è di quelli da cerchiare con l’uniposca rosso sul calendario: nemmeno la pioggia è riuscita ad arginare una serie di spettacoli tanto energici quanto qualitativamente ineccepibili. Sarebbe facile dire che con un Cosmin TRG così alcuni club camperebbero di rendita per una stagione (set che dimostra quanto l’artista rumeno abbia finalmente la quadratura del cerchio, svincolato da un minimalismo che proprio non ci stava); sarebbe banale etichettare Jon Hopkins e Pantha Du Prince (autore di un live che ne conferma lo stato di grazia assoluto, un po’ Holden un po’ cacciabombardiere) come due semplici headliner della rassegna perché live così si sentono davvero raramente. Sarebbe ingiusto dire che Martyn ha suonato semplicemente bene, perché questo ragazzone moro s’è impossessato dello stage esterno del Link, facendo il bello e il cattivo tempo con le ragazze in pista: libido assoluta per fianchi e tette. E poi, come se non fosse abbastanza, ci sarebbe stato pure Koze, altro immenso personaggio del clubbig dei nostri tempi (ma non solo), e il trio Brandt Brauer Frick, tanto divertente quanto stiloso e geniale. Insomma, un sabato di quelli belli sul serio, dove Bologna e le sue diversità (che ci sono, basta passare da Palazzo Re Enzo al Link per vederle tutte) abbracciano la musica elettronica, trasformandola da puro edonismo a valore da tatuarsi in fronte. Anche solo per una settimana.
(Pantha Du Prince)
(Cosmin TRG)
(Dj Koze)
Giornate così ricche di momenti alti se ne vivono poche; e allora chi se ne frega dell’acqua, delle introvabili auto blu o dei taxi che giocano a nascondino; chi se ne frega se piove e se non siamo troppo lucidi per capire che sarebbe bastato aspettare che spiovesse prima di lanciarci nell’improbabile corsa verso casa, in mezzo al fango alle spalle del Link. Chi se ne importa di tutto se la musica è bella, se l’energia è tanta, se si sorride e se si vivono certe emozioni. Se c’è un Cosmin da esportazione, un Pantha Du Prince monumentale e se tutti gli altri hanno dato il meglio, tutto al di sopra delle più rosee aspettative.
Da qualche parte abbiamo sentito dire che se la prosa è chiara e onesta e se esprime coraggio e grazia, allora la storia non può che essere meravigliosa. Grazie roBOt, ci vediamo l’anno prossimo.
Mentre accadeva tutto questo uno di noi era impegnato in una delle cose più interessanti che questo roBOt presentava: il Music Hack Day, per la prima volta in Italia. Mattia te lo racconta in prima persona…
“A differenza degli altri, i miei sono stati due giorni di sveglie all’alba, di lunghe ore davanti al computer a lavorare alla mia invenzione del weekend e di piacevoli conversazioni con gli altri partecipanti all’Hack Day che hanno spaziato dalle difficoltà nel trasferirsi negli USA alle tecniche per l’analisi approfondita di segnali audio con la trasformata di Fourier, a possibili soluzioni per scalare il progetto a cui lavoro durante la settimana quando avrà milioni di utenti. Come ogni hackathon che si rispetti, la giornata è iniziata con la colazione a buffet, rigorosamente free come tutto il resto del cibo e delle bevande del weekend, per poi proseguire con le presentazioni degli sponsor: molti di loro, come Spotify o Soundcloud, li conoscevo già sia da utente che da sviluppatore, ma è sempre piacevole poter scambiare quattro chiacchiere con persone che lavorano a servizi che si usano tutti i giorni e scoprire progetti divertenti come cmd.fm o l’Infinite Jukebox di Echonest. Terminate le presentazioni, è ora di mettersi all’opera: alcuni team erano già formati prima della giornata, alcuni si formano sul momento con persone appena conosciute (ed è uno solo dei tanti aspetti positivi degli hackathon, conoscere persone nuove e costruire insieme qualcosa), io invece decido di lavorare da solo: voglio comunque fare un giro almeno a Palazzo Re Enzo e non ho voglia di sentirmi legato ad altri membri di un team.
L’idea per il mio hack, probabilmente non vincente ma comunque interessante, me l’ero portata da casa, per cui mi tuffo subito nella scrittura del codice. Alzo la testa solo per fare quattro chiacchiere con i ragazzi del team di Stereomood, fino a quando non arrivano le pizze per cena e, dopo un paio di birrette, si fa ora di fare un salto a casa per una doccia, di rivedere gli altri e di andare, finalmente, a Palazzo Re Enzo. Ecco, proprio l’aver scoperto qualcuno che non conoscevo, assieme all’hack day, mi ha fatto pensare che in fondo il roBOt, fatte ovviamente le debite proporzioni, è per attitudine e atteggiamento quello che in Italia più si avvicina al Sonar: tanti altri festival hanno lineup magari più di richiamo o più corpose, anche se quella di roBOt era tutt’altro che scarna, ma la mentalità forward-thinking come quella di metà giugno a Barcellona l’ho ritrovata, in piccolo, solo qui. Ad ogni modo, sabato sera mentre tutti vanno al Link io vado a letto presto, perché la mattina dopo devo finire il mio hack entro le 15.30: ce la faccio e riesco anche a preparare una discreta presentazione, ma come prevedibile il livello degli altri hack è altissimo: tra i più notevoli, ho visto gente controllare Spotify con una chitarra (si suona un accordo, l’hack lo riconosce e propone canzoni sulla stessa tonalità) o un’app stile Instagram che crea filtri per le foto riconoscendo la canzone suonata in quel momento, utile per farsi le foto ai concerti, o ancora un Tetris giocabile su un Ableton Push, che ha scatenato un applauso fragoroso quando durante la presentazione è partita la musica originale del gioco, e questi tre non sono nemmeno tra quelli che hanno vinto: la lista completa, contenente anche quelli i cui autori si sono portati a casa, tra le altre cose, un iPad retina offerto da Echonest, è hackerleague.org/hackathons/musichackday. Il mio hack non ha vinto niente, ma è stato comunque divertentissimo costruirlo, intervallando ore di codice a chiacchiere con persone interessantissime e con un po’ di ottima musica: sto già pensando di prendere ferie per l’anno prossimo. Da qualche parte abbiamo sentito dire che se la prosa è chiara e onesta e se esprime coraggio e grazia, allora la storia non può che essere meravigliosa. Grazie roBOt, ci vediamo l’anno prossimo.
BLOOPERS / TITOLI DI CODA / VARIE ED EVENTUALI
(Totti, Totti, Florenzi)
(Romano Alfieri x Soundwall)
(Il mitico Tamburini)
(Cosmin TRG + Matteo)
(Marco)
(Jon Hopkins and friends)
(Pantha + Blerina + Matteo)
(…)
(Edo)
(Thundercat x Soundwall)
(Koze + Rame)
(Edo + Toni + Ble)
(La pioggia)
Per vedere tutte le altre foto: #SWROBOT2013