Il mito dell’araba fenice la vede risorgere splendente dalle ceneri, pur avendo sperimentato la morte. Non è cosa da poco rialzarsi dopo una caduta, specie se profonda e destinata a restare impressa nella memoria a lungo, compromettendo la fatica spesa negli anni ed i risultati encomiabili ottenuti, lavati via da un impietoso colpo di spugna. Il roBOt, per Bologna, ha rappresentato non soltanto un fiore all’occhiello nella proposta culturale e musicale cittadina, ma anche un trampolino verso l’Europa del clubbing, annoverando i migliori nomi della scena internazionale in un contesto capace di restare familiare, come una Peroni da 66 bevuta in cerchio seduti in Piazza Verdi.
Somigliando ad Icaro, un po’ troppo audace nel volare vicino al sole dotato unicamente di ali di cera, il Festival è inciampato nelle sue intenzioni e velleità facendo il passo più lungo della gamba e arrivando al dissesto finanziario, interrompendosi per far calare il silenzio su un momento delicato e sconvolgente per tutti, organizzatori e sostenitori.
Che il roBOt sia una gran cosa è fuor di dubbio, gli elementi per vincere ci sono tutti. Una città accogliente e non dispersiva, con alle spalle una storia di Festa fra le più rigogliose nel panorama nostrano; una crowd giovane, entusiasta, che in Italia desidererebbe più eventi -e più frequenti, dedicati alla musica elettronica di alto spessore, non trovandosi costretta a migrare con voli low cost verso venues fuori dai nostri confini pur di ascoltare un DJ diverso dagli onnipresenti in line up. Eppure, anche il migliore fra gli studenti può rischiare la bocciatura se fallace in condotta, come una delle migliori occasioni musicali in Italia può veder decapitato il proprio destino tradendo le aspettative dei suoi appassionati.
Se, tuttavia, vivessimo nel ricordo del passato non ricaveremmo nulla di innovativo: non parliamo di un episodio à la Fyre Festival, per quanto le difficoltà economiche dovute a spazi scelti troppo grandi e nomi dai cachet troppo alti siano state considerevoli. Si è tentata, dapprima, la strada del cambio location (abbandonato Palazzo Re Enzo in favore, fra gli altri, dell’ex Ospedale dei Bastardini). Ci si è cosparso il capo di cenere e fatto ammenda, domandando al pubblico di riporre ancora una volta fiducia in un progetto e una visione che non si sono spenti, oltre le materiali condizioni di realizzabilità di un evento di tale portata. Il RoBOt, infatti, di davvero speciale ha un cuore che non ha smesso di battere.
Mi basta ricordare la celebre edizione del 2017, headliner Villalobos, in cui ho potuto ascoltare uno dei migliori set di Ricardo in assoluto – e non solo perché ha calato un asso senza eguali suonando il proprio remix di “The Sinner In Me” dei Depeche Mode. Neppure perché una ragazza in prima fila si è girata verso di me estatica, indicando Villalobos ed esclamando: “Ma quanto è bravo questo Loco Dice?!“. La bellezza si è cristallizzata nelle 07:30 del mattino, quando il bandito cileno non smetteva di suonare davanti a una folla in delirio che è stata assolta in Paradiso nel momento in cui, a sorpresa, i ragazzi del Link hanno aperto completamente la parete del club alle spalle della consolle, lasciando Ricardo mettere in fila le ultime tracce sullo sfondo dell’alba sorgente sulla campagna bolognese. Ancora oggi fatico a trattenere l’emozione soltanto scrivendolo.
Il roBOT ha un’anima e si percepisce, oltre dinamiche di mercato che spesso dominano grosse gigs recidive nel richiamare, di anno in anno, gli stessi nomi per battere cassa senza sforzo, non scommettendo su programmazioni di più ampio respiro e non sforzandosi di adeguare i servizi offerti al pubblico che vi partecipa ai prezzi del biglietto sempre maggiori – massima spesa e minima resa. Scalino dopo scalino, a modo proprio, l’evento bolognese riprova a farcela, avanzando una mozione di fiducia che scotta in mano come un piatto bollente pronto ad infrangersi se non tenuto saldamente.
Cosa fa la differenza oggi in Italia fra un Festival e un altro, assetati come siamo di eventi sempre più curati al dettaglio (per quanto, rispetto all’estero, ne abbiamo di strada da percorrere), affamati di originalità? La location? Un bar che non chiuda alle tre di notte? Installazioni artistiche che coniughino acustica e invenzione o, magari, un sound pulito e preciso su cui sperare la folla non impieghi il proprio tempo a chiacchierare? Tutto quanto elencato e ancor di più? Sì, perché il vero margine di decisione in cima a questi fattori lo fa lo spirito, la magia che si crea in quelle ore che separano il buio dalla prima metro del mattino per tornare a casa stropicciati.
E la line up, ovviamente, ché il cielo solo sa quanto bisogno abbiamo di line up di qualità: RoBOT sorprende e sbaraglia le carte in tavola tornando nella cornice di Palazzo Re Enzo (e del Dumbo, e dell’ex GAM), con un ventaglio di fuoriclasse multigenere, dal live catartico di Alessandro Cortini al new jazz dei The Comet Is Coming; dal monte Olimpo degli dei Donato Dozzy e Andrew Weatherall, all’entusiasmo festoso di Interstellar Funk. I tribalismi tonanti di Batu, l’house da coppa di champagne dei Red Axes, le infinite meraviglie che un set di Tolouse Low Trax può riservare (vedi alla voce: “Il migliore fra gli artisti a Macao durante i Saturnalia dello scorso giugno”). Non c’è un nome fuori orbita, nel sistema solare si allineano anche la drum’n’bass di Afrodeutsche e le magistrali creazioni di Leon Vynehall, principe alla corte del dancefloor.
Scegliere di prendere parte al RoBOt numero 11 è quasi un atto dovuto: dovuto all’amore, alla passione ancora accesa di provare a fare le cose bene e a farle bene in Italia, offrendole la possibilità di non restare indietro rispetto al clubbing del mondo, ma anzi attirando il mondo fra le nostre braccia. In contrasto alla mortificazione delle arti e della vita notturna che le città maggiori stanno attraversando (con la sofferta chiusura di numerosi locali fra Roma e Milano), i prodotti eccellenti nazionali possono esserci e devono esserci, puntando al massimo. Se nel farlo dovessero commettere errori, si spaccheranno le ossa per fare di meglio uscendone, probabilmente, accresciuti. Errare è umano, rinascere è divino.