Teletrasportatevi a dieci anni fa. Dieci – anni – fa. Detta così sembra un’eternità, ma se ci pensate bene, dieci anni fa era ieri e noi, allo specchio, magari avevamo qualche ruga in meno, ma vedendoci adesso ci riconosceremmo ugualmente. E allora: vorremmo che vi catapultaste tra le mura medievali di Palazzo Re Enzo, assumendo la faccia curiosa di chi ne varca le porte per la prima volta e sempre con curiosità vive la prima edizione di roBOt Festival. Ci piacerebbe poi che chiudeste gli occhi e li riapriste nel 2017, a dieci anni da quella volta. Che cos’è cambiato in città? Che cosa si faceva dieci anni fa e ora non si fa più? Che cosa ci manca di più di quella Bologna?
Premesso che chi scrive ormai non vive più all’ombra delle Due Torri da agosto 2011 – fatta eccezione per uno spot di sei mesi tra una capitale europea e l’altra – Bologna resta sempre casa mia, la culla che ha formato l’appassionata di musica e club culture che sono adesso. Quindi, nonostante Via Saragozza non sia più il luogo dove torno ogni sera, Bologna è la casa dove rientro sempre volentieri – e che romanticamente vorrei veder rifiorire e vibrare nuovamente come dieci anni fa.
Avevamo, noi bolognesi, alcune delle feste più belle dello Stivale. Vantavamo, noi di Bologna, una nightlife vibrante e varia che nulla aveva da invidiare alle più grandi Roma o Milano o alla più distante Berlino. Sapevamo come si facevano le feste e chiamavamo a noi gente da ogni lato della Penisola. Da questa offerta e da questo fermento la cosa naturale è stata creare, nel capoluogo emiliano, una festa più grande, un evento che fosse in grado di soddisfare la fame di musica elettronica e la voglia di conoscere più approfonditamente i volti protagonisti di questo tipo di ambiente. Un festival.
Bologna se lo meritava un festival, una rassegna che coniugasse musica e cultura per insegnare non solo ai bolognesi che cosa fosse il mondo del clubbing e quali fossero le tendenze del momento, tra cose sicuramente più “di nicchia” e artisti che stavano (o stanno tutt’ora) cavalcando l’onda della fama. Superdj che si mescolavano a nuove proposte della scena: insieme, per due, tre, quattro giorni in tante location diverse.
Così Bologna ebbe il suo Festival. Palazzo Re Enzo, il Link, il TPO, il Teatro Comunale e il Cassero videro la rassegna evolversi e crescere tra i loro spazi. Spazi che piano piano, col passare degli anni, diventarono sempre più stretti, tanto da non poter più ospitare i fiumi di gente che il primo weekend di ottobre – che il più delle volte cadeva in concomitanza con la festa del patrono felsineo (4 ottobre, San Petronio) – si radunavano in città per seguire la rassegna dal tardo pomeriggio fino alle prime ore del mattino.
Così, la naturale evoluzione degli eventi fece sì che anche Bologna avesse il suo festival autunnale allocato in Fiera, almeno nel suo momento di maggior richiamo, proprio come accadeva a Torino con Club To Club. Di quello che è successo poi ne abbiamo parlato e straparlato, scrivendone anche una settimana fa mentre ci preparavamo a tornare al Link carichi di aspettative.
Aspettative che sono state gradevolmente attese. Una notte da paura come da tanto tempo in via Fantoni non accadeva, perché va bene Luciano, la techno, Daniel Avery e Roman Fluegel, la drum’n’bass, ma quel locale così pieno, così vibrante, con un pubblico tanto caldo non ricordo di averlo visto in tempi recenti.
Subito dopo la serata i feedback non hanno tardato ad arrivare e, chiaramente, sono stati per lo più positivi. Vuoi perché Digby ha aperto le danze candidamente accompagnando la pista che piano piano si riempiva, in un viaggio dal climax ascendente, lasciando a Dana Ruh il compito di tener alto quel vibe che si era creato nelle due ore precedenti; vuoi perché la tedesca ha imboccato da subito la strada giusta: un set impeccabile, non un errore di valutazione non un momento con la catena lenta. E poi, il gran finale con Ricardo Villalobos che ci ha allietato con tutto quello di cui è capace quando è in forma, con il suo sublime modo di capire cosa vuole la pista e di nutrirla sapientemente. E lasciamo stare che ad un certo punto della questione il cileno abbia deciso di virare bruscamente verso la techno, per poi non farci mancare una loopata di quasi tredici minuti che risponde al nome di “The Sinner in Me”: siamo stati attaccati al dancefloor fino alla fine e questo è quello che interessa.
Vincere facile quindi? Con Ricardo non lo sai mai, sai che il nome è quello giusto, sai che affiancato ad un altro mostro del momento come la Ruh il gioco è praticamente fatto, ma sai anche che il passato è difficile da dimenticare. Che la fiducia te la sei giocata due anni fa con errori di valutazione non banali.
Però ricostruire è quello che vuoi e devi, prima di tutto per una città che ti ha dato tanto e che nel corso degli anni, mentre roBOt cresceva, perdeva pezzi e crollava sotto il peso di sindaci poco competenti, cittadini che diventavano sempre più vecchi e che, come fanno i vecchi, non guardavano e non guardano di buon occhio un certo tipo di “gioventù”, di divieti incredibili provenienti da menti che, ecco, non stiamo parlando di politica, quindi la finiamo qui.
Città che cade a pezzi, dicevamo: perché nonostante gli sforzi per farla rifiorire ci siano (e li vediamo con tante iniziative differenti) e che comunque esistano persone che ancora credono nel potenziale di Bologna, spesso, l’offerta si limita a qualche serata sparsa qua e là, sicuramente fatta anche per bene, con nomi di spicco della scena attuale o con giovani promesse italiane e internazionali, ma che poco ha a che vedere con quello che girava un tempo tra le strade del centro e della periferia, quando Docshow e Star Cake si facevano la guerra a suon di ospitoni, il Kinki era l’opzione per quelli che volevano stare “vicino” e il Donnarosa era il luogo d’incontro di coloro che avevano sonno “dopo”. E questo per non parlare di quello che accadeva negli anni ’90, di cui già tanto (giustamente) si è parlato e che tanto si è celebrato, perché effettivamente sono stati anni in cui Bologna era semplicemente l’avanguardia d’Europa per le musiche “nuove” legate all’elettronica, a livello di partecipazione popolare.
Non siamo qui però per fare i romantici nostalgici, ma per guardare quello che c’è adesso e per cercare di rimettere in moto un motore che, se rimesso in sesto, è quello di una fuoriserie.
Bologna che muta e si ricompone, con l’aiuto di chi ci crede e chi ne ha voglia, con uno sguardo rivolto al futuro senza scordarsi del passato: così una parte dei pezzi del capoluogo emiliano, con una serata come quella di sabato scorso sono pronti per essere ricomposti. E tra loro ci sono anche i cocci del vecchio roBOt, che crediamo stia maturando una rinascita non da poco. O almeno, ne ha posto di sicuro le condizioni.
Un passo indietro che ha tanto l’aria di essere fatto per prendere una rincorsa, per riconsegnare alla nostra città quello che è venuto a mancare due anni fa. Ce lo auguriamo e ci crediamo, perché il 7 ottobre abbiamo visto un brillio in un cielo da troppo tempo tenebroso e con pochissime stelle. Abbiamo visto la voglia di riprovarci ripartendo da un punto non troppo lontano, perché uno step back non è un male se fatto con giudizio e con un obiettivo ben chiaro nella mente. Quindi speriamo che, dopo la buona riuscita del weekend scorso, non ci si limiti a godere di qualche bella seratona al Link, lasciando a Torino il suo festival in Fiera, ma si ricominci proprio da lì per ritornare, un giorno, a calpestare i dancefloor creati tra via Michelino e piazza della Costituzione. Avanti così.
(foto di Costantino Bedin, per Polpetta Mag)