Ci faceva sorridere, prima che partisse la sua quattro giorni di musica, il modo in cui la gente ne parlava, facendo assomigliare il tutto ad una sorta di grande scommessa collettiva. Tra pronostici, supporto da ultrà, critiche violente e gossip vari.
Parliamo del roBOt Festival, giunto alla sua nona edizione, presentato ai media con un Manifesto in cui sono stati sottolineati il suo ridimensionamento, nonché la volontà di (continuare a) proporre qualità. Tramite una sorta di riavvio del sistema operativo. Un “reBOot09”. Volando bassi, senza effetti speciali. Tutt’altra storia rispetto alle ultime tre edizioni.
Noi il Festival lo conosciamo dai suoi albori e l’abbiamo da sempre seguito.
Ci fa, anzi, quasi tenerezza ripensare alle prime edizioni, caratterizzate al massimo da un paio di headliner conosciuti (e nemmeno ai più, quanto ad un certo pubblico “colto”), in cui il tutto si svolgeva senza le macchine da guerra dei social media e la conseguente fama esplosiva, con forti ansie da prestazione e aspettative alte.
Il roBOt è nato come realtà bolognese di qualità, con ospiti per lo più locali. Si è trasformato nel tempo in un festival di spessore a livello nazionale. Gli scorsi due anni avrebbe voluto presentarsi come un qualcosa di qualitativamente cosmopolita e gigantesco. Cosa in parte riuscita all’edizione 07, fallita in quella successiva. I nomi in line up della sfortunata edizione dell’anno scorso avrebbero dovuto essere più mainstream per richiamare folle oceaniche, tipo Villalobos due anni fa? Oppure, la location avrebbe dovuto essere meno monumentale e dispendiosa? Noi propendiamo per la seconda ipotesi (ne abbiamo già parlato l’anno scorso), ma ciò che è stato, è stato. Varchiamo allora anche noi la soglia del “What Comes Next”, sottotitolo dell’edizione di quest’anno.
La prima cosa che ci ha stupiti della versione “roBOt t/reBOot09” è stata la scelta del basso profilo, dovuta sicuramente ai molti meno soldi investiti. Ma a nostro avviso anche frutto di una scelta consapevole. Poca (o addirittura nulla?) la promozione in giro per la città, scarna l’accoglienza all’entrata nella sede principale degli eventi, l’ex Ospedale dei Bastardini. Nessun trattamento di riguardo per la stampa, a cui eravamo stati abituati le edizioni scorse, tra gadget e pass ultra personalizzati; bracciali d’entrata grigi e minimali, dal secondo giorno dati solo a chi era in lista; programma monocolore su carta povera uguale per tutti, sponsor e media partner ridotti all’osso.
Inizialmente siamo rimasti un po’ sorpresi al riguardo, poi abbiamo trovato il tutto coerente e anche di stile, in un certo senso. Perché cercare di scimmiottare un passato recente fatto di lussi e spese eccessive, quando ci si è accorti, con angoscia, di aver toppato? Meglio ricominciare dal basso, senza coccole superflue, pur mantenendo una linea elegante nella proposta culturale, con sobrietà e coraggio. Comportamento da noi apprezzato.
Altro aspetto che ci ha da subito fortemente colpiti è stata la scelta degli artisti: quasi tutti nomi di nicchia, qualità di spessore a mani piene, leccornie per intenditori, splendida opportunità di far conoscere ai più nomi a cui probabilmente non si sarebbero mai avvicinati da soli. Ci è piaciuta tanto questa faccenda, incuriosendoci non poco: come avrebbe reagito il pubblico? Come si sarebbe sentita quella parte di audience che attende sempre con ansia che parta la cassa per urlicchiare e fare su e giù con le manine, senza dare troppa attenzione ai dettagli? Come si sarebbe rivelata la resa acustica negli inediti spazi dell’ex Ospedale? Che atmosfera aspettarsi? Poca gente o gran ressa?
Iniziamo a rispondere a tutte queste domande in ordine emozional-sparso, snocciolando qualche nome con impressioni annesse.
La serata di apertura, inaugurata con il vernissage di Beyond the Noise – mostra fotografica organizzata dalla Redbull Music Academy(http://www.redbullmusicacademy.com/), anche quest’anno Content Partner – inizia lasciandoci un attimino perplessi. Vorremmo infatti partecipare al talk, sempre firmato RBMA, tra Damir Ivić, ben noto ai nostri lettori e non solo, e Jamal Moss aka Hieroglyphic Being, dj e producer molto interessante proveniente da Chicago, felicemente diviso tra seduzioni house, techno ed astrattamente afro-jazz. All’interno del chiostro dell’ex Ospedale iniziamo a chiedere a chiunque informazioni sull’ubicazione dell’evento, ma non c’è anima pia che sappia dirci nulla in merito. Nonostante l’obbligo d’iscrizione richiesta via internet, non c’è nessun controllo e manca qualsiasi tipo di segnaletica che sottolinei la presenza di questo appuntamento. Tra l’altro, non si capisce bene se chi è entrato ai Bastardini possa uscire per seguire il talk, in una sala raggiungibile solo dall’esterno, e poi rientrare per farsi il resto della serata. Nonostante tutto, la mini sala adibita alla chiacchierata si riempie e il tutto procede in modo simpatico e rilassato.
Gli spazi dei Bastardini, con i loro “modesti” 550 metri quadri, iniziano a riempirsi. Nulla di eclatante, ci si muove comunque senza problemi, ma la presenza del pubblico c’è. Siamo curiosi di vedere cosa proporranno Rabih Beaini – ai più conosciuto come Morphosis – in tandem con Vincent Moon, regista francese noto per le sue numerose collaborazioni con artisti indie. Con la console posta in mezzo alla sala principale, i due regalano al pubblico filmati di rituali orientali, tra trance ed estasi mistiche, il tutto sapientemente corredato dai loop quadrifonici di Rabih. Peccato che la resa acustica sia molto scarsa e non permetta altrettanta estasi del pubblico. Molti dei presenti in sala, infatti, iniziano a chiacchierarsela, quindi non ci godiamo lo spettacolo come avremmo voluto. Il live di Hieroglyphic Being è invece un’arma a doppio taglio: sonorità iper interessanti, volutamente sporche, tra distorsioni, spennellate di synth, ritmi pesantoni da techno party, il tutto inframmezzato da ipnotici mantra africaneggianti. Il suono però è scarsissimo, i bassi per lo più inesistenti, ci tocca stare sottocassa, manco fossimo ravers di prima categoria, per godercela un minimo. Problemi tecnici. Pubblico tutto sommato contento, bella atmosfera, nonostante le problematiche acustiche non di poco conto. Noi ci rimaniamo sinceramente male. Jamal ci avrebbe potuti infiammare se solo…
La notte della prima giornata, ha luogo l’evento più riuscito ed interessante dell’intero roBOt09, lo Sleep Concert “The Repetition of dreams”. Sempre con Rabih Beaini, questa volta in solitaria, con un progetto live da leccarsi i baffi: sette ore e passa di musica per domire, una sala, a capienza limitata, adibita al sonno notturno di una cinquantina di persone. Utilizzando Korg MS-20 e loopers, Rabih ha cercato di creare una ripetizione sensoriale per toni da sottoporre al pubblico-cavia, munito di copertine e cuscini, con l’obiettivo di farlo reagire a queste ripetizioni seriali o con il sonno, o con una sorta di dormiveglia conscio. Nel nostro caso si è trattato di sonno ed è stata un’esperienza più che riuscita. Come durante un sonno profondo a bordo di una nave in viaggio durante la notte.
Della seconda serata ricordiamo, con fastidio, un audio pessimo diffuso, fatta eccezione per Memoryman, il buon Dj Uovo, che ha l’onore di chiudere la serata con un pienone tutto frizzantino aiutato dalla selezione house classicona, fattasi sempre più old skool battente verso la fine. Peccato: il live di Dwarfs of East Aguza ci sarebbe sicuramente piaciuto molto: da collocarsi in un crocevia elettronico tra sonorità free jazz, krautrock e psichedeliche, intrise di elementi afro-arabeggianti. Sentendosi male male, il live ha finito per annoiare, spingendo molti ad uscirsene dalla sala per qualche chiacchierata bevereccia. In verità, noi saremmo voluti fuggire dalla coreana Peggy Gou, in console nell’altra sala dell’ex Ospedale. Fatto, ma: caldo fotonico e folla, tech-house discreta, però in fondo noiosetta e plasticosa, misti ad un’acustica iniziale abbastanza pietosa e al buio più totale – “Oh ma diov’è Peggy?!” – hanno fatto che sì che comunque optassimo per il mondano blabla open air. Ritornati più tardi a curiosare in sala, la situazione è nettamente migliore, sia a livello di sound, fattosi più variegato ed interessante – tra techno, electro psichedelica e house pestona – che di qualità del suono. Non per quanto riguarda la puzza d’ascella diffusissima e i 75 gradi centigradi. Il problema quasi costante di quella sala fino alla fine del Festival.
Ma facciamo un intermezzo/panoramica sulla tipologia del pubblico: il secondo fattore più interessante dopo quello della proposta artistica. Finalmente un pubblico Vero, ovvero una grandissima parte di persone giunte non per presenzialismo, ma per passione o curiosità. Poco hype, nessuna passerella di moda, come invece nelle passate 3-4 edizioni. Anche la location non permetteva di tirarsela troppo: fuori faceva molto freddo rispetto ai tiepidi giorni ottobrini appena passati, quindi dominavano giacche chiuse e poco spazio per eleganze femminine ostentate. Tacchi alti banditi, grazie alla medievale pavimentazione bugnosa esterna.Tanta gente attenta durante i live, tanto che i tamarindi – quelli che sono soliti urlare “Daaaaaaai” se non c’è “Cassa dritta” o che chiacchierano urlando nel bel mezzo del sotto palco – erano in netta minoranza rispetto agli anni passati. Tutto questo ci ha molto rallegrati e fatto ben sperare.
Tornando a noi, quasi tutto è proceduto liscio come l’olio nelle due serate conclusive. Soprattutto: l’audio s’è fatto perfetto in ogni dove, evviva. Poi torneremo a quel “Quasi”…
Molto illuminante l’anteprima del documentario “Raving Iran” sulla scena techno-rave a Teheran (ogni tipo di musica occidentale è illegale in Iran…); grande qualità per i live di Presente accompagnato dai visuals di Andrea Masciadri, tra atmosfere cyberpunk e la meglio Warp anni Novanta; ottima la performance di Verotika, collettivo bolognese di cinque elementi, dove strumentazione analogica in parte autocostruita, improvvisazione e live visual psichedelici, hanno colpito per intensità e vigore techno-industriale; Nicola Ratti ha fatto il suo, senza brillare, ma con un live ben assestato accompagnato da visuals non troppo geniali (ci hanno ricordato troppo quelli di Ryoji Icheda, ma meno vigorosi); Space Dimension Controller ha letteralmente spaccato con il suo live, tutto ibridato di sonorità 80s, electro-house, trance nordica, funky, ghiribizzi acid e techno pestona, una meraviglia tutta ballabile; degno di nota anche il live di Mop Mop Electric Trio – progetto nato nei primi anni Novanta a Bologna – dal sound tra il giamaicano raggaeggiante e l’house, con il featuring di Wayne Snow; poderoso il dj set techno del misterioso Inner Lakes, qui al suo debutto e in prossima uscita per Vae Victis, anche se non gli perdoniamo del tutto i momenti “pausetta/poi/pestone prevedibile” che si è concesso; infine, grande il dj set di Fabrizio Mammarella, tutto house e sorrisoni (peccato fosse impossibile uscire e rientrare nella sala a causa del bagno di folla).
Una parentesi a parte è da dedicare al party di chiusura al Cassero.
E qui si apre la parentesi delle critiche aspre. Più che dovute.
Nulla da imputare a chi è stato dietro la console, che invece si merita grandi strette di mano: Nudge, il duo bolognese che ha aperto con un dj set di ottima house; i Primitive Art, sempre in coppia, meritevoli di aver shakerato un po’ di tutto, secondo il loro solito – dub, kraut, industrial, world music… Stingray, che ha fatto il suo dovere, in verità senza strafare – recentemente l’avevamo visto al Dimensions e lì è stato a dir poco divino – ma non perdendo mai colpi, con una precisione quasi svizzerotta. Non ci ha lasciato il tempo per grandi voli mentali, costringendoci invece a muovere i fondoschiena in modo quasi compulsivo. Il dj set degli Analogue Cops è stato come tutti i loro dj set: esplosivo, tenacissimo, variegato, pazzo, adorabile, danzabile fino all’infarto. Degli animali da console. Il dj set più esplosivo del Robot, senza sé e senza l’ombra di ma. Tanto che siamo rimasti in prima fila a ballarceli fino alla fine, nonostante i miliardi di gradi all’interno e i bagni di folla rasenti il delirio.
Le critiche aspre? Vanno rivolte a tutto l’apparato logistico del Cassero e all’organizzazione del Festival, che non hanno voluto tenere in conto certe problematiche palesi. Era ovvio che il Cassero fosse un club troppo striminzito per un Closing Party simile. Difatti, le code chilometriche hanno impedito a molti di entrare, sebbene tanti si fossero già pre-tesserati (e non parliamo di pre-tesseramento online, visto che non era previsto per l’Arcigay…). Essendo il club strapieno già verso l’una e mezza, alla gente in coda fuori i buttafuori hanno impedito l’ingresso, a detta di molti pure in modo assai poco garbato. Ricordiamo, inoltre, che le tessere previste per il locale erano decisamente costose e, per chi fosse venuto da fuori Bologna, pure inutili (la tessera valida esclusivamente per il Cassero costava meno delle altre tessere Arcigay ed Arcilesbica, valide invece in tutta Italia, quindi potete trarre da soli le conclusioni).
Questi sono dettagli che un roBOt in reBOot non avrebbe dovuto ignorare. Anche perchè le polemiche che hanno fatto seguito sono state decisamente tante. E hanno finito per ri-arrestare il sistema operativo ri-avviato agli occhi di molti.
Ora il roBOt dovrà in un qualche modo ri-ri-avviarsi. E dovrà tenere in conto davvero tanti ingredienti. Sperando che in 9 anni di esperienza e un anno di riflessione dalla prossima edizione – che pare proprio si farà – riprenda a funzionare come la migliore delle macchine programmate.
Noi glielo auguriamo, perchè Bologna si merita che questo Festival continui. Ma, aldilà dei propositi e dei Manifesti, è bene che ci si concentri molto di più sugli aspetti concreti legati al pubblico e al suo benessere.
#WhichreBOotComesNext?