Quante volte nella nostra vita di clubber e amanti della musica ci siamo trovati davanti ad una consolle, sotto a un palco, al centro di un dancefloor o in camera nostra ad ascoltare la musica scelta e composta da qualcun altro? Quante volte poi abbiamo pensato a questo qualcun altro come ad un alieno, un essere umano “diverso” che vive in un’altra dimensione pur calpestando il nostro stesso suolo? In pochi sembrano volersi soffermare a capire quali ostacoli ha dovuto affrontare un determinato artista prima di ricevere una critica positiva dagli addetti ai lavori e soprattutto quali scelte ci sono state dietro un lavoro lungo e complesso come può essere la realizzazione di un album. Proprio a questo servono le interviste, a scavare nel profondo in modo da capire al meglio ciò che si sta ascoltando. In occasione di “Generator”, il nuovo album in uscita il 1 aprile su Nein Records, anticipato da due singoli di spessore come “Bococa Hills” (remixato sia da Fabrizio Mammarella che dai The Emperor Machine) e “Alle der Kosmonauten”, abbiamo scambiato due chiacchiere con Rodion, al secolo Edoardo Cianfanelli. Il dj/produttore capitolino trasferitosi da qualche tempo all’ombra del Reichstag, ci racconta di sé partendo dagli inizi della sua formazione fino a spiegarci perché, ormai, accostare il suo nome alla disco e all’italo non sia mai stato così sbagliato.
La tua musica è un coacervo di influenze: cosmic, funk, disco, french touch, musica classica e colonne sonore di film horror italiani e di animazione giapponese. Come sei entrato a contatto con tutto ciò?
Credo che in generale la musica di ogni musicista sia un coacervo di influenze, lo diceva anche Stravinsky: “il buon artista non copia, ruba”. Penso che questo abbia a che vedere con il modo in cui i musicisti adoperano l’udito: la forte esigenza di comunicare attraverso i suoni mi porta da sempre, ad analizzare spietatamente tutto ciò che passa dalle mie orecchie, bello o brutto che sia, cercando di trovare un perché all’amore o meno per un brano. Impossibile scindere l’ascolto dal giudizio e proprio per questo conservo e catalogo in me tantissimi ingredienti musicali differenti: timbri, armonie e ritmi che al momento giusto vengono utilizzati per dar forma alla musica. Certamente l’ambiente in cui sono maturato mi ha senz’altro influenzato: sono un italiano nato alla fine degli anni ’70, ho cominciato a studiare pianoforte da piccolo, ho guardato molti cartoni animati e viaggiavo spesso in macchina con mia nonna, una vera patita di Kano e Richard Clayderman.
Hai studiato in una scuola cattolica uscendone comunque molto aperto e curioso…
Diciamo subito che non sono religioso e pur essendo di Roma, quindi in zona Vaticano, non mi sono mai identificato nella cultura cattolica. La mia passione per l’organo e la musica sacra deriva da una fascinazione estetica. L’organo è stato il primo strumento ad prendermi: mi ricordo di quando ero bambino e ascoltavo Bach sui 33 giri di mio zio con delle cuffie pazzesche grandi il doppio della mia testa. Ero totalmente rapito e stordito dalla potenza di quella musica e di quel suono maestoso. Amavo i dinosauri, le balene e gli organi a canne: se vuoi studiare organo, non c’è posto migliore di un istituto pontificio. Così, terminato il conservatorio ho deciso di perfezionarmi proprio nell’organo e nello studio della musica sacra. Va detto che come livello di apertura mentale, l’atmosfera del conservatorio era peggiore di quella tutto sommato serena che si respirava all’Istituto Pontificio. Comunque ho ben presto realizzato che nessuno dei due ambienti faceva al caso mio.
Nato, vissuto e cresciuto a Roma, città culla di alcuni dei più grandi dj/produttori della scena elettronica contemporanea italiana. Cosa c’è di capitolino nella tua musica?
Roma è stata importantissima per la mia formazione musicale: alla fine degli anni ’90 ho cominciato ad appassionarmi all’elettronica entrando in contatto con Francisco, Passarani e i ragazzi della Pigna Records, da sempre anni luce avanti a tutto. C’erano imponenti rave techno illegali dove suonavano figure mitiche come Aphex Twin, Leo Anibaldi e Robert Armani. Alle prime edizioni del party Agatha o al Forte Prenestino ho potuto ascoltare mostri sacri come Autechre, Plaid, Pansonic e un tipo di elettronica totalmente differente da quella in voga nel 90% dei club di oggi. A Roma ho incontrato Hugo Sanchez, il mio collaboratore più stretto da sempre. Assieme a lui, oltre all’attuale progetto Alien Alien e alla label Roccodisco, abbiamo realizzato in quindici anni un’infinità di progetti musicali e discografici, tante feste e persino un festival. Nonostante la città sia per molti aspetti un posto un po’ di merda, trovo la scena underground romana assolutamente irresistibile e unica.
Come a molti è successo però, ad un certo punto della tua vita hai deciso di emigrare verso la più stimolante Berlino. Quanto questo trasferimento è stato utile per la tua carriera? Tornassi indietro è una scelta che rifaresti?
Trovo che a Roma sia diventato molto complesso vivere: fare qualunque cosa, dalle semplici attività quotidiane ai progetti musicali più ambiziosi, è estremamente difficile e snervante. Questo genera un senso di frustrazione diffuso e un grande dispendio di energie. Berlino è una città più civile, meno caotica, in cui la gente mediamente mi pare più soddisfatta della propria esistenza, dal panettiere al dj. La vita a Berlino costa pure un po’ meno e con cifre ancora ragionevoli si può realizzare uno studio e per uno che fa il mio mestiere la città offre numerose opportunità di confronto e crescita. I bravi musicisti sono molti, quindi non manca la concorrenza (in più le fee sono basse): a conti fatti è un bello stimolo per progredire.
Sembra che Berlino sia ormai la meta preferita dalla maggior parte dei giovani – e meno giovani – che vogliono fare della musica il proprio mestiere, tra le ragioni c’è certamente l’effervescenza e la vitalità della sua scena underground. Quali sono state le difficoltà che hai incontrato dopo esserti trasferito?
La lingua non è esattamente una passeggiata, ma con un po’ di pazienza si impara. A Roma mi sentivo più un punto di riferimento, anche se per un ristretto numero di persone; ero più integrato nel tessuto musicale della città, perché ci ho avuto a che fare per una vita. Qui ho bisogno di ricostruire qualcosa di simile, partendo da zero o quasi ci vorrà tempo, ma quello è il mio obiettivo.
L’effervescenza e la vitalità della sua scena underground sono certamente alcuni dei plus valori della capitale tedesca. Di tutti i benefici che ha comportato il tuo trasferimento, qual è stato quello più inaspettato?
A parte i würstel a colazione e la mancanza di cibi eccelsi, i berlinesi mangiano tutto sommato bene, almeno dal punto di vista della qualità degli ingredienti. Trovare un buon caffè è praticamente impossibile, per cui ho ridotto il numero di caffè quotidiani da dieci a uno.
Consiglieresti Berlino come meta per realizzare i propri sogni musicali?
Consiglierei qualunque posto dove lo stress è limitato, un luogo dagli stimoli interessanti e che offra vari spunti, dove potersi dedicare pienamente alla musica: Berlino rappresenta una buona soluzione e non fa neanche così freddo!
Un altro dj e produttore che vive all’ombra del Reichstag è Fabrizio Mammarella, amico e collega col quale vanti diverse collaborazioni e che ha anche remixato “Bococa Hills”, il singolo di lancio del tuo ultimo album “Generator” che vi abbiamo presentato in anteprima. Che tipo di rapporto vi unisce?
Fabrizio vive nella piccola Chieti, uno dei posti che più adoro. La Slowmotion Records, etichetta che gestisce insieme all’amico abruzzese Franz Underwear è invece di base a Berlino, dove Franz vive e organizza party da parecchi anni. Fabrizio è una persona eccezionale e un amico tra i più cari, oltre che DJ e produttore eccelso con il quale condivido molte passioni, dal Montepulciano DOCG al Moog. Abbiamo cominciato a lavorare insieme nel 2007 con un remix che feci per il suo progetto Telespazio su Tiny Sticks. Negli ultimi dieci anni abbiamo pubblicato moltissime cose di cui vado orgoglioso: EP su Gomma, Slowmotion e Les Disques de la Mort, il remix di “Stars” di Visti & Meyland su Bearfunk è tra i miei preferiti.
Abbiamo detto collaborazioni con Fabrizio Mammarella, ma la tua carriera può già vantare quattordici EP e un album “Romantic Jet Dance” uscito su Gomma nel 2007. Come mai ci sono voluti otto anni per realizzare il tuo secondo LP? C’è stato un evento scatenante che ti ha spinto a riprovare una sfida tanto provante?
Ci è voluto molto più di quanto pensassi. Durante questi anni mi sono dedicato a EP e remix, ho prodotto dischi di altri e ho iniziato una carriera da dj; però, un album e un ritorno al live mi mancavano davvero molto. Lavoro con Tso da tantissimi anni: bassista prodigioso, persona squisita e illustratore formidabile. Con lui ho suonato nel Pigneto Quartet Trio e fatto moltissimi live di Rodion in giro per l’Europa dal 2007 al 2011. La ritmica dei nostri live era affidata ad un laptop, finché non ci è venuta la voglia di provare a sostituire il laptop con un batterista. Abbiamo così iniziato a vederci in sala con Gilberto, amico di vecchia data e grande esperto di batteria disco funk dal 1970 al 1990. Dopo due anni in sala, suonando e riascoltando, siamo arrivati alla stesura di brani compiuti da proporre live e da registrare in studio. Nell’agosto 2013 abbiamo effettuato le registrazioni di batteria, basso e synth al Telecinesound Studio di Roma, un posto storico che è più o meno lo stesso dal 1971, ingegnere del suono incluso. Editing e missaggio, invece, sono stati fatti qui nel mio nuovo studio di Berlino.
Quanto e come senti di essere cresciuto da “Romantic Jet Set” ad oggi? Sei maturato più come uomo o più come artista?
Mi pare di aver fatto parecchi passi in avanti: ho una maggiore padronanza del suono, più esperienza in studio, sul palco o in una dj booth. A volte rimpiango quel pizzico di follia in più che avevo anni fa, mosso forse dalla mancanza di esperienza lavorando di puro istinto. Era un passaggio necessario.
Il primo album ha ricevuto feedback entusiastici da molti dei tuoi più illustri colleghi, Prins Thomas su tutti. Cosa ti aspetti da “Generator”?
Detesto quando il mio nome viene accostato alla disco, all’italo e via dicendo. È una valutazione vecchia e restrittiva che sento estranea, ma che spesso mi perseguita. Negli ultimi anni, sia da solo che come Alien Alien ho fatto di tutto per discostarmi dal filone disco, nu disco, cosmic, eccetera. Ho cercato di rendere più asciutto ed essenziale il mio suono, abbandonando gli artifici, rendendo più evidenti le influenze techno e acid, preferendo una musica più diretta. In quest’ottica mi pareva interessante accantonare il ruolo centrale che le macchine hanno sempre avuto nelle mie produzioni e affidarmi a due musicisti in carne ed ossa per dar forma al disco. “Generator” ha un senso dall’inizio alla fine, è un album più completo e maturo rispetto al primo, di fatto una raccolta di singoli. Sono spariti quasi del tutto i riferimenti al suono melenso dei synth anni ’80, per lasciare spazio a timbriche più crude, a musica suonata e non quantizzata, a forme più in linea col kraut o con la psichedelia inglese che non con l’italo disco. Ambivamo a che il disco suonasse come un classico, che fosse da suonare e da ascoltare. Penso di avercela fatta.
Mixmag ti definisce il “nuovo genio della musica da ballo italiana”. Secondo te quali caratteristiche della tua musica li hanno spinti a sbilanciarsi in questo modo?
I giornalisti a volte dicono un sacco di cazzate (ride, Ndl).