Non cercate troppe informazioni su Rookley: perché tanto non ne troverete, se non scavando un bel po’. Anzi, a prima vista mai vi passerà per la testa che possa trattarsi di un progetto italiano, perché il suo artefice ora vive a Berlino, il melting pot globale dell’elettronica, e a negli anni precedenti era considerato al 100% appartenente alla piccola ma illuminata nicchia dell’elettronica newyorkese, eppure sì, in effetti è in tutto e per tutto un nostro connazionale. “Playground”, in uscita il 25 marzo, è un traguardo importante per lui: il primo lavoro sulla lunga distanza, ma anche una svolta o comunque evoluzione artistica. Ci è sembrato piuttosto interessante il tutto, a partire dal materiale sonoro, e allora abbiamo voluto fare due cose: presentarvene un assaggio in anteprima assoluta, ma anche scambiare quattro chiacchiere con Rookley stesso. Prima la musica, poi le parole. Mica male entrambe!
Era da un po’ che non mi capitava di dover fare la “caccia al tesoro” per capire bene l’identità di un artista (bello!), ed anche alla fine di questa caccia ho raccolto comunque poco: è una strategia voluta fin dal giorno uno, quella di restare “anonimo”, o è qualcosa che ad un certo punto hai fatto succedere quasi per caso, perché ti divertiva via via sempre più l’idea?
Dal giorno zero. Perché secondo me è più interessante manifestare semplicemente un immaginario, è divertente ed è più creativo. L’anonimato è un modo per togliere il focus dal soggetto, e spostarlo sulla musica.
Una cosa è certa: hai passato un po’ di tempo a New York. Eppure, l’impressione è che nella tua musica ci sia molta Londra (quella “burialiana”), un po’ di Berlino (dove stai ora), ma New York in qualche modo non abbia lasciato una grande traccia.
New York, Londra, Berlino, Milano sono le città dove ho trascorso più tempo; io ho origini italiane, Aimend il mio socio è di Berlino ed a New York ho iniziato a produrre. Come dici tu, Burial, ma anche Boards of Canada, Aphex Twin, Moderat, Four Tet sono dei miti, ma secondo me geolocalizzare e stringere il cerchio cosi tanto in una zona è un limite. Perché in realtà la musica è fluida, è questione di influenze culturali più che di appartenenza geografica. Facendo degli esempi: Jeru the Damaja, “Still Rising Intro”, lo conosci? É il sample di batteria di “Bad Kingdom” dei Moderat. Ed il tipo è un rapper di East Brooklyn. Ray J, campionato da Burial in “Archangel”, a sua volta aveva campionato “Another Day In Paradise” di Phil Collins. Ora quello stesso brano è stato ri-campionato da Drake in Redemption: qui parliamo di West Coast e Chicago, ma con Burial si ripassa per UK. Con l’avvento del digitale e il conseguente abbattimento dei confini musicali, l’identità locale sta venendo meno; si tratta più di abbracciare una cultura, farla propria e restituirla. Quindi guardando indietro bisogna solo essere grati a questi punti di riferimento, per poi poterli superare.
Quanto è comodo e quanto invece è scomodo non avere una nazionalità ben definita, artisticamente parlando, al momento di comunicarsi e – diciamo così – “farsi notare”? Tra l’altro un tempo essere italiani era uno svantaggio, sul mercato della musica elettronica di un certo tipo, mi pare che invece negli ultimi anni le cose stiano cambiando.
Non lo sento come uno svantaggio ma piuttosto come un punto di forza, dato il bacino culturale che l’Italia ha sempre rappresentato. Ma non vorrei che la mia identità fosse legata a questa o quella zona geografica: come dicevo, mi sento influenzato da tante culture diverse. E credo che la musica, in quanto tale, debba essere universale – e per questo essere apprezzata o meno a prescindere da dove viene.
Da viaggiatore ed esploratore di culture, quali sono secondo te le “nuove frontiere” dell’elettronica più interessante, quali le città e le nazioni che sarebbe il caso di visitare subito? E passando dalla geografia alla musica, quali i suoni e gli stili in questo momento più vitali e seducenti?
Le nuove frontiere dell’elettronica vanno solo documentate, c’è una community fortissima. Secondo me le città che la ospitano sono sempre più o meno le stesse, perché sono quelle più aperte e che offrono più spazio a questo genere. Ma anche in Italia recentemente si sta sviluppando una nuova community, e cresce in fretta.
Quanto tempo hai impiegato per completare “Playground”? Qual è stato il suo punto di partenza?
Non so rispondere alla prima domanda perché questi ultimi anni sono stati pazzi… (ride, NdI) Per quanto riguarda l’ispirazione, posso riassumere così: “Mi piace il sound-design ma cerco l’energia di un rave”.
C’è stata qualche traccia più difficile di altre da fare, a cui magari hai fatto fatica in un primo momento a dare forma?
Si fa sempre fatica: sennò significa che c’è qualcosa che non va. Il modo di produrre i pezzi pero è sempre in evoluzione: ho iniziato a pensare a quando avrei portato la mia musica live, e cominciare a progettare un set ha inciso nella stesura dei brani.
Ora che il disco uscirà, cosa succederà secondo te?
Mi auguro di suonare. Tanto. E di fare colonne sonore, che è un altro ambito che mi ha influenzato molto e che vorrei esplorare.
Ci sono tue produzioni già di un po’ di anni fa, “Playground” non è certo il tuo debutto assoluto come producer. Quali consiglieresti di recuperare, e perché?
Penso che le nuove produzioni si distacchino da quello che ho pubblicato finora. Però “La Haine” ed “Obsidian” sono brani molto importanti per me, e se vuoi possono fare da bridge con “Playground”.