Doveva accadere, massì; e, sinceramente, è un bene che sia accaduto. Yes: gli anni ’90, signore e signori, sono ufficialmente (ri)entrati nel circolo dei suoni da usare fra, diciamo, gli esponenti della musica elettronica più pronti a cimentarsi col pop e col piglio da party. Non bastasse Emeli Sandé e la sua “Heaven” (di cui speriamo che almeno il 30% delle royalties vada ai Massive Attack, presa com’è di peso dalla loro “Unfhinished Sympathy”), arriva ora un indicatore molto, molto attendibile. Rusko infatti non giunge da un business plan di qualche major ma dalla scena dubstep dura e pura, soprattutto nei primi tempi del sodalizio con Caspa; ben presto però ha dimostrato di non pensarci minimamente a restare legato a sonorità cupe, scure, cavernose. No. Voleva divertirsi, lui. Voleva proprio divertirsi un sacco, al bando gli intellettualismi e la supposta “lealtà di sangue” verso una specifica scena. Un approccio che non poteva sfuggire alla Mad Decent di Diplo: uno da un lato dalla mente molto aperta e curiosa, quindi amato dai clubber più acculturati, ma che dall’altro più passa il tempo più gode a cercare il lato tamarro delle cose. Rusko sotto contratto quindi, altro che Hyperdub, Burial e Kode9.
Il risultato, due anni fa, è stato “O.M.G.”: un album che ha portato Rusko ad essere una specie di pre-Skrillex, uno dei primi a sdoganare la, ehm, dubstep-per-adolescenti: quella gioiosa, oltraggiosa, chiassosa, ultracolorata, sempre coll’accelatore pigiato a tavoletta, ci siamo capiti? Quella che fa infuriare gli snob (e questo è un bene), ma anche quella stanca perché è sempre come se fosse un terno peak time da mani in aria (e questo è un male). Crasso ai limiti del grossolano. Qualche volta anche oltre questi limiti.
Bene: succede che a mitigare un po’ questo approccio ipercontemporaneo, in “Songs”, arrivano pesantamente gli anni ’90. Oh sì. Arrivano sotto forma di citazioni ben precise (“Somebody To Love”, l’edit old school di “Roll Da Beats”); arrivano in un approccio più leggero verso il suono e meno infarcito di sintetizzatori urlanti e basslines isteriche, visto che quando citi cose vintage devi per forza mantenerti meno iper-contemporaneo; arrivano cercando – lo dice il titolo stesso dell’album – un po’ più la forma canzone e un po’ meno il riff ossessivo da ripetere mille volte fino allo sfinimento entusiastico del dancefloor.
La chiave di volta di (quasi) ogni pezzo restano i bassoni dubstep, sia chiaro: se è questo che cercate, non resterete delusi. La delusione entrerà in gioco se cercate un corpus unico di quattordici tracce tutte graniticamente fatto solo di bassoni e che dal primo all’ultimo secondo vi facciano sbattere contro il muro urlando bestemmie (…il sogno di certi fan sedicenni della dubstep di derivazione skrillexiana). Questo non c’è. Alla fine Rusko fa un’operazione simile a quella fatta da un altro don della dubstep, Skream, con “Outside The Box”: far parlare la dubstep con la storia della club culture e soprattutto uscire dal monocolore stilistico. Un approccio nobile di per sé. Molto più nobile di quello che lo stesso Skream ha provato a fare con Benga, nel pessimo progetto Magnetic Man: lì si voleva portare la dubstep nel pop, e farci i soldi. Rusko invece ci tiene troppo a divertire e divertirsi, per pensare così tanto agli stilemi del pop. Bene così. Un disco paraculissimo, “Songs”, quasi superficiale, ma che si fa ascoltare dall’inizio alla fine. E che non mette in campo riferimenti inflazionati agli anni ’80 (fino a cinque minuti fa obbligatori se volevi fare della musica elettronica “da festa”), ché ne abbiamo già avuto abbastanza. Di sicuro non il disco migliore o più raffinato dell’anno, ma dategli una chance.